Reportages
La speranza ai confini dell'inferno
Somaliland, seconda stella a destra
Uno stato che non dovrebbe esistere, ma c'è eccome. Ignorato ingiustamente dai media internazionali da più di vent'anni. E' una Somalia che non ha conosciuto né guerra, né fanatismo, e che cerca di diventare una vera democrazia, senza l'aiuto di nessuno. Il Somaliland è un paese aperto e pacifico
Lo Stato che non c'è ha il volto sorridente di due donne che ti accolgono per fare il visto in un ufficio che dà sul piccolo giardino di una villetta di Addis Abeba. Questa è l'ambasciata del Somaliland in Etiopia. Un'ambasciata completamente disarmata, senza porte blindate o filo spinato o telecamere. Si entra tranquillamente, salutando il portiere, nel silenzio e nella luce forte della tarda mattinata all'Equatore. Le funzionarie si fanno il tè e lo offrono. Otteniamo il visto senza il minimo problema. Il visto di uno Stato che non esiste.
In effetti, all'arrivo all'aeroporto di Berbera, da Gibuti, la sensazione è proprio quella di essere nell'anarchia quasi totale. Intanto urlano un po' tutti: facchini, poliziotti, addetti alla dogana, passeggeri, passanti, perditempo, tassisti, parenti. C'è una strana frenesia, e modi un po' aggressivi, molto spicci, forse anche per la lingua somala che suona secca, dura, perfetta per litigare, e i somali hanno fama di essere molto orgogliosi. Ma prima ancora di fare troppe considerazioni, siamo già sul pullman che ci porterà ad Hargeisa: è tutto molto strano, ma funziona.
Hargeisa è una di quelle capitali africane che hanno nelle strade più sabbia che asfalto. Abbastanza anonima, a parte qualche moschea e poco altro. Sicuramente povera. Però, a differenza di altre realtà che sembrano immerse nella sonnolenza, dà subito la sensazione di dinamismo, di una certa febbrilità, di apertura. Le conferme sono immediate. A cominciare dagli alberghi. Spesso nei paesi africani, soprattutto in quelli più poveri, appena si cercano standard accettabili i costi lievitano in maniera pazzesca. Ad Hargeisa c'è invece un ottimo rapporto qualità/prezzo.
Un altro “classico” africano sono i computer lentissimi, i collegamenti Internet esasperanti. Niente di tutto ciò: collegamenti puntuali e veloci, e sempre a prezzi estremamente ridotti. Ma la sorpresa più piacevole riguarda le telefonate: acquistata senza problemi una sim card della compagnia locale (Telesom) si comunica perfettamente con l'Italia a costi incredibilmente bassi. Probabilmente dipende dal fatto che non c'è forse somalo che non abbia parenti o amici all'estero: negli Stati Uniti, in particolare, e poi in tutta l'Europa e nel resto del mondo. La diaspora somala è numerosa, e se non fa notizia è perché è mediamente ben integrata nei paesi di accoglienza, compreso un certo numero di presenze nelle libere professioni e nella piccola imprenditoria di successo.
Qui sono in tanti ad aver fatto ritorno in questi anni. Sono tutti giovani, e sono la parte più avanzata del paese, dove infatti l'inglese è assai diffuso, il che ovviamente aumenta la sensazione di familiarità. Certo, non si trova una bevanda alcolica nemmeno per miracolo, per farsi una birra come minimo bisogna tornare a Gibuti (sono somali e musulmani anche loro, ma decisamente più “europei” su alcuni aspetti). Impossibile vedere una donna in minigonna, però di donne in giro, negli uffici, nei locali, nei negozi se ne vedono abbastanza, e hanno l'aria piuttosto disinvolta.
Se davvero uno pensa a Mogadiscio, al terrore che regna sovrano nell'altra Somalia, o anche solo alle tensioni del vicino Yemen, alle mille restrizioni dell'Arabia Saudita, all'autoritarismo militarizzato dell'Eritrea, allora il Somaliland appare per quello che è: un autentico miracolo.
Il miracolo del Somaliland ha comunque solide spiegazioni, che riguardano la sua storia e la sua organizzazione sociale. “ La Somalia agli occhi di uno straniero è una sola, perché uno solo è il popolo somalo” spiega Kamaal Ahmed Alì, giornalista di 32 anni. In effetti, è raro trovare nel mondo un'etnia più omogenea per origini, lingua, tradizione: si dice addirittura che ogni somalo possa risalire il suo albero genealogico all'indietro per ben 25 generazioni. Quindi una volta tanto gli analisti devono abbandonare la solita, abusata, categoria del “tribalismo” per spiegare il fallimento dello Stato e la guerra civile permanente che da ormai 23 anni (23 anni!) caratterizza la Somalia a sud del Corno d'Africa.
“Al di là dell'omogeneità etnica – continua Kamaal – il nostro passato dice un'altra cosa: che prima del 1960 non abbiamo mai avuto uno stato unitario”. Loro erano la Somalia britannica, il “British Somaliland”. Gli altri, quelli che ancora combattono una feroce guerra fratricida, erano la Somalia italiana. Due colonie, due potenze coloniali, “due nemici”, come nel film con Alberto Sordi e David Niven.
E proprio queste lande brulle e assolate, queste terre arse di rocce, acacie e cammelli, videro quella che è considerata l'unica vittoria italiana in tutta la Seconda Guerra Mondiale.
Sarà che gli inglesi erano impegnati nella battaglia d'Inghilterra, il grande confronto aereo contro la Germania che preparava un'invasione via mare presto fallita, fatto sta che il 3 agosto 1940 le truppe italiane, guidate dal generale Nasi, penetrarono nella Somalia britannica dall'Etiopia, e nel giro di poco più di due settimane entrarono a Berbera con una manovra a tenaglia. Il grosso delle forze italiane era composto in realtà da “ascari” eritrei, soldati di indubbio valore, provenienti da un'antica tradizione di combattenti mercenari ( askar significava “guerriero” nei dialetti arabi del Corno d'Africa).
L'effimera occupazione italiana, che durò solo sette mesi, fu anche l'unica occupazione di un territorio della Corona britannica durante tutta la guerra. Prima della riconquista inglese della primavera del 1941, l'intero Corno d'Africa (Etiopia, Eritrea, Somalia) fu nelle mani del Re d'Italia.
Le ambizioni di Mussolini, inversamente proporzionali alle capacità belliche italiane, puntavano addirittura a riunire l'Africa Orientale Italiana (AOI) con la Libia , occupando il Sudan e l'Egitto: un territorio immenso, per quanto in gran parte desertico, che avrebbe garantito il controllo strategico del Canale di Suez.
Il sogno di gloria durò poco: nel giro di due anni fu evidente che l'Impero italiano era un impero di cartapesta. Però la presenza italiana, quella dei civili, venne considerata positiva dallo stesso Negus Hailé Selassié: tornato sul trono di Etiopia, invitò la popolazione a perdonare le violenze fasciste degli anni Trenta, perpetrate sotto il comando del generale Graziani (solo in Italia si poteva pensare di erigere un mausoleo ad un criminale di guerra).
La benevolenza dell'imperatore di Etiopia e gli ottimi rapporti instaurati dagli italiani con la popolazione locale in tutte le colonie del Corno d'Africa, permisero all'Italia di evitare una piccola Norimberga, e ottenere addirittura l'amministrazione fiduciaria della Somalia del sud (cioè la ex colonia italiana) per un decennio, dal 1950 fino all'indipendenza dell'estate del 1960.
A nord restarono gli inglesi fino all'anno fatidico per molti stati africani. La Somalia britannica diventò indipendente il 26 di giugno, e si unì, con decisione unanime di tutte le forze politiche, alla Somalia italiana in una nuova repubblica, proclamata come stato sovrano il primo luglio.
Il nuovo stato africano cercò nei primi anni di mantenere un equilibrio politico fra i rappresentanti delle due ex colonie, tanto che il futuro presidente del Somaliland, Mohamed Ibrahim Egal, fu capo del governo somalo, negli anni che precedettero il colpo di stato.
Il 21 ottobre 1969, sei giorni dopo l'assassinio del presidente legittimo Shermarke, la storia della Somalia prese la tragica strada della dittatura, nella persona dell'allora capo dell'esercito Mohamed Siad Barre. La storia di Siad Barre, detto “bocca larga”, presenta impressionanti analogie con quella di un altro autocrate a noi molto più familiare, il libico Gheddafi, sempre con l'imbarazzante vicinanza dell'Italia.
Figlio di poveri pastori nomadi (esattamente come Gheddafi), Siad Barre entra nella polizia coloniale italiana per essere poi mandato a formarsi a Firenze, nella scuola allievi ufficiali dei carabinieri. E da ufficiale dei carabinieri torna in Somalia, passa nell'esercito e inizia la sua carriera, che culmina appunto con la presa di potere del 1969. Quasi negli stessi giorni, Gheddafi, partendo da un grado militare più basso, conquista il potere in Libia.
Entrambi i dittatori si ispirano ad una strana ideologia di “socialismo scientifico” e Islam. Si sentono grandi modernizzatori, si danno un tono da tiranni illuminati. Hanno mire espansioniste, sono pronti ad avventurarsi in guerre di confine. Siad Barre sogna una “Grande Somalia”, la riunificazione di tutti i territori dove c'è una presenza etnica somala. Per questo, alla metà degli anni Settanta, si lancia alla conquista dell'Ogaden , entrando in guerra con l'Etiopia del rivale Menghistu: sono entrambi marxisti dichiarati (Menghistu assai più ortodosso), ma nella guerra del Corno d'Africa l'Unione Sovietica sostiene decisamente l'Etiopia, che ha la meglio nel conflitto (1977).
La sconfitta sposta definitivamente Siad Barre nel campo occidentale: a partire dal 1977 il regime somalo riceve finanziamenti per l'esercito dagli USA, mentre continua la cooperazione italiana, che verrà gestita principalmente dai socialisti di Craxi per tutti gli anni Ottanta.
E' proprio in questo periodo che la dittatura di Siad Barre si fa più brutale e oppressiva, con l'unico risultato di rafforzare tutte le fazioni che gli si oppongono e perdere completamente il sostegno della popolazione. Per domare le rivolte nel nord, Siad Barre arriva addirittura a bombardare Hargeisa, nel 1988, facendo strage di civili: oltre seimila morti, senza che gli alleati occidentali, Italia su tutti, battano ciglio.
Nel Somaliland la fazione guerrigliera che si batte contro il dittatore e il suo regime corrotto e sanguinario si chiama SNM, Somali National Movement. E' aiutato da Menghistu (certe rivalità non si scordano mai) e mantiene le sue basi in Etiopia. “I militari del SMN volevano semplicemente la caduta di Siad Barre, non la secessione”, spiega Ahmed Egeh, 26 anni, direttore del periodico “Haatuf”.
E' il popolo del Somaliland che vuole l'indipendenza, e le esigenze del popolo, da sempre, sono raccolte dal Consiglio degli Anziani, che raggruppa i leader di tutti i clan. L'organizzazione dei clan è un altro elemento fondamentale per capire il Somaliland e la differenza con la Somalia italiana.
“Da noi ci sono strutture forti e leader deboli” – spiega ancora Kamaal Ahmed Alì – “mentre nella Somalia italiana c'erano strutture deboli e leader forti e litigiosi”.
Questo, se vogliamo, è il segreto del miracolo Somaliland. Il Consiglio degli Anziani è assolutamente rappresentativo della popolazione. Al suo interno i clan più grandi e quelli più piccoli hanno comunque pari prestigio. E' come se la saggezza africana avesse recepito il senso dei “pesi e contrappesi” del moderno diritto costituzionale occidentale. Nessuno deve essere troppo forte, la Tradizione e la Comunità contano più del singolo. Il clan è strumento di solidarietà, gestisce il “welfare” all'africana: nessuno viene abbandonato. Il clan amministra la giustizia, nella maniera più armonica e consensuale possibile, cioè attraverso meccanismi di riparazione e compensazione. Il clan svolge anche la funzione di banca e di assicurazione.
“Il terzo elemento da tenere presente è che siamo un piccolo popolo, anche se il territorio è grande”, conclude Kaamal: “ Tre milioni e mezzo di persone, cioè quanti ne fa la città di Mogadiscio da sola”. Un popolo compatto e coeso, che si era già dato una struttura militare autonoma.
Non c'è mai stato nessun dubbio sull'indipendenza: dopo la caduta di Siad Barre (gennaio 1991).
il Somaliland non ha aspettato che iniziassero gli scontri fra i vari “signori della guerra” del sud, a partire dal generale Aidid (do you remember?) e dal “presidente” Ali Mahdi, primi segnali dell'infinita guerra civile somala. Il 28 maggio 1991 i guerriglieri del SNM, in accordo con il Consiglio degli anziani, elessero Ahmed Ali Tur presidente dell'autoproclamata “Repubblica del Somaliland”.
Mai secessione fu così giusta, così saggia, così lungimirante. Il Somaliland in una sola mossa si separò dalla guerra civile, dal fanatismo religioso, dalla perfida influenza dell'Arabia Saudita, e perfino dalle drammatiche incompetenze o dai diabolici calcoli di tanta Realpolitik a stelle e strisce (con i suoi codazzi europei).
Basta ripensare all'intervento americano del 1992: sostanzialmente un'operazione di propaganda, a partire dal nome “ Restore hope ” , “ristabilire la speranza”. Bush padre voleva concludere la sua presidenza , che sembrava aver sancito il ruolo degli Stati Uniti come unico “gendarme del mondo” dopo la vittoria finale sull'Unione Sovietica, con un ‘ultima grande impresa, prima di lasciare il posto a Clinton. Così, ai primi di dicembre, tutti gli operatori televisivi americani,a partire dalla già mitica CNN, filmarono lo sbarco in diretta dei marines sulle spiagge di Mogadiscio.
La missione, approvata dall'ONU, che in quegli anni sembrava davvero il megafono “umanitario” della Casa Bianca, si chiamava UNOSOM,e presto ne fecero parte anche i militari italiani. Il Somaliland aveva già dichiarato il rifiuto categorico di ogni presenza militare internazionale sul suo territorio, e sicuramente questa decisione sacrosanta gli è costata cara, in termini di appoggi internazionali.
Come è andata a finire, lo sappiamo: nel febbraio- marzo del 1995 fuggirono tutti (americani, italiani, personale ONU), con i miliziani del generale Aidid alle calcagna. La presenza italiana in Somalia si concluse con l'ennesima vergogna, dopo il sostegno spudorato al dittatore Siad Barre (compreso lo scandalo delle lauree comprate dalla nomenklatura di regime all'Università Italiana di Mogadiscio): la copertura diplomatica fornita a trafficanti internazionali di armi e di rifiuti tossici, che portò all'uccisione di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin (1993).
Da allora, la guerra civile ha visto imporsi la presenza degli integralisti islamici, cha ad un certo punto sembravano aver “riportato l'ordine” su quelle terre martoriate,; poi l'intervento diretto dell'Etiopia, seguito da quello delle truppe dell'Unione Africana, e da ultimo quello del confinante Kenya. Ora gli integralisti di Al Shabab sono in ritirata, ed è tornata una parvenza di autorità a Mogadiscio e dintorni, ma siamo ancora molto lontani sia dalla pace, sia dalla costituzione di uno Stato effettivo. L'attenzione internazionale è finita con quello che si può definire “il ciclo di Hollywood”, cioè con il film “ Black Hawk Down ” di Ridley Scott : dopo che le televisioni avevano suonato la carica dell'”arrivano i nostri”, il cinema chiude il sipario sulla guerra, che conta solo se ci sono i soldati americani (soprattutto nel ruolo di vincitori).
Nel frattempo, il Somaliland continuava la sua evoluzione politica, economica e sociale.
Il primo presidente eletto a suffragio universale, Mohamed Ibrahim Egal, è stato un leader saggio e lungimirante. Per prima cosa, Egal completò la formazione dell'esercito nazionale, integrando gli ex guerriglieri dell'SMN e la milizia, e ottenendo il disarmo totale e definitivo di ogni altro eventuale gruppo. Sotto il suo mandato, venne elaborata e approvata con referendum (2001) la Costituzione , un modello sicuramente perfettibile, ma comunque interessante, soprattutto se si considera il contesto. Certo, l'Islam è religione di Stato, e la Sharia è indicata fra le fonti del diritto, ma c'è anche l'adesione esplicita alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. Nei primi articoli si afferma l'uguaglianza fra cittadini senza distinzioni di etnia, clan, e, soprattutto, di genere. C'è anche un riferimento al divieto (generico) di “mutilazioni”: il governo sta cercando di eliminare la triste pratica delle mutilazioni genitali femminili, purtroppo assai diffusa in tutta la Somalia , pratica “che comunque si sta riducendo sempre di più, anche se non c'è una vera legge” – afferma Kamaal – “Gli anziani la vedono come una cosa non buona, hanno lavorato sui costumi, e ormai possiamo dire che riguarda solo una minoranza di casi”. Ecco, la presenza degli anziani, rappresentanti dei clan tradizionali, nella “Camera Alta” (in somalo Gurti ), qualcosa fra il nostro Senato e la camera dei Lord, è il contributo africano all'assetto costituzionale del paese, che rimane comunque centrato sulla figura del presidente.
Ma la divisone dei poteri è delineata chiaramente, e il sistema fin qui ha garantito passaggi politici assolutamente non traumatici, sia dopo la morte di Egal (2002), sia dopo la sconfitta del suo successore Kahin ad opera dell'oppositore Ahmed Silanyo, alle elezioni del 2010, che si sono svolte con standard giudicati più che accettabili dagli osservatori internazionali presenti.
Certo, la Costituzione ammette l'esistenza di soli tre partiti, che hanno ottenuto percentuali abbastanza vicine fra loro, e comunque diverse da quelle dei candidati alla presidenza. Il che significa che c'è una certa mobilità di voto, e che, per quanto importante, l'appartenenza ad un clan non determina matematicamente la rappresentanza politica.
“Il Somaliland è sicuramente una democrazia, almeno in un contesto africano”, sostengono i giornalisti intervistati, senza negare i limiti e i difetti che ci sono ancora. Ciò che è incoraggiante, dicono, è il miglioramento costante che loro stessi hanno registrato anno dopo anno.
Il vero problema è la povertà. Nonostante i progressi costanti anche nel settore dell'economia, gran parte della popolazione vive ancora con due dollari al giorno. Soprattutto per la gente dell'interno, che vive di pastorizia nomade, e rappresenta metà abbondante della popolazione, la situazione è ancora durissima.
Di sicuro non aiuta il diffusissimo consumo di qat, qui perfettamente legale, come a Gibuti. Il qat, un'erba euforizzante da masticare in grosse quantità, dà un effetto limitato ma prolungato simile alle anfetamine. Viene “gestito” apparentemente bene dai consumatori, ma in realtà provoca dipendenza, e presenta dei “cali” (effetto “down”) molto forti, tali da compromettere spesso la capacità lavorativa delle persone. Il consumo di qat era stato proibito da Siad Barre, che era arrivato a punirlo con la pena di morte; ma più che salvaguardare la salute della gente, il dittatore voleva colpire il traffico frontaliero (il qat arriva dall'Etiopia) che andava a finanziare i gruppi guerriglieri. In questo caso la fine della dittatura ha significato il ritorno in grande stile del qat , che si potrebbe anche definire l'equivalente a queste latitudini del gioco d'azzardo in Italia: una pratica discutibile, se non deprecabile, che però rappresenta una buona entrata per le casse dello Stato, ed è la fonte di sostentamento principale (se non unica) di molte donne, cioè di molte famiglie. Il paradosso è che magari una donna vendendo qat compensa il mancato supporto familiare di un marito che ne è dipendente e spende i suoi pochi soldi per masticare l'erba.
I problemi insomma non mancano, da queste parti, ma la sensazione è che le tante buone potenzialità avrebbero solo bisogno di un po' di sostegno per esprimersi al meglio.
Troppo pochi gli investimenti internazionali, limitatissima la cooperazione, portata avanti solo da alcune volenterose ONG o da singole istituzioni, come l'Università di Montpellier, che, insieme agli omologhi somali, ha fatto conoscere al mondo le straordinarie pitture rupestri di Las Geel, opere d'arte risalenti ad un periodo fra i 5mila e 10mila anni a.C. , ma ancora meravigliosamente intatte. Un autentico patrimonio dell'Umanità, ma qui l'UNESCO non è mai arrivata, perché per l'ONU il Somaliland non esiste. Eppure, gli sforzi diplomatici del governo di Hargeisa, fin dai tempi di Egal, sono stati quasi commoventi. Basta leggere la lettera del vecchio presidente al governo israeliano, nella quale, senza la minima ambiguità, il Somaliland condanna il terrorismo islamista, e si offre come bastione contro l'integralismo, prendendo nettamente le distanze dall'Arabia Saudita, dal Sudan, e altri paesi di una Lega Araba a cui dice comunque di voler appartenere.
Il giovane stato africano è anche in prima linea nella lotta alla pirateria, grazie alla sua guardia costiera, che, a dispetto dei mezzi limitati, sfrutta la perfetta conoscenza delle coste per tenere alla larga i predoni marittimi (spesso ex poveri pescatori), basati soprattutto nel vicino Puntland (un pezzo di Somalia all'estremità del Corno d'Africa).
Tutti questi sforzi hanno ottenuto soltanto una maggiore considerazione e qualche apertura diplomatica da parte del Regno Unito, quasi a rinsaldare i legami storici, del Canada, dei paesi scandinavi e, in misura minore, degli USA. L'Italia è completamente assente.
Le relazioni migliori sono comunque quelle con l'Etiopia, fatto non scontato, visto che Etiopia e Somalia sono state a lungo acerrime rivali: il porto di Berbera è una valvola importante per l'economia etiope, per quanto non ai livelli di Gibuti.
C'è stato recentemente anche un riconoscimento reciproco, ancora non ufficiale, con il neonato Sud Sudan, che pure ha bisogno di altri sbocchi al mare per il commercio con la Cina. Parliamo di paesi di storia diversa, di religione diversa, spesso in tensione, quando non in conflitto, fra di loro.
Il contributo del Somaliland alla pace nella regione è quindi notevole, e solo la prudenza esasperante dell'Unione Africana gli ha impedito di diventare il 55° stato dell'organizzazione.
E' una prudenza che si spiega soprattutto con il sacro terrore di modificare i confini imposti dal colonialismo. Questo principio (non toccare i confini così com'erano al momento dell'indipendenza) venne adottato al momento della fondazione dell'OUA (Organizzazione per l'Unità Africana) nel 1963 ad Addis Abeba. Era un criterio sicuramente improntato a realismo, buon senso e saggezza, dal momento che quasi ogni stato poteva rivendicare diritti “etnici” sui confinanti, proprio per l'arbitrarietà (per non dire assurdità) dei confini. Accettando, al contrario, l'impostazione geopolitica decisa dagli europei, l'Africa ha evitato in larghissima parte le guerre “classiche” conosciute da tutti gli altri continenti.
Ma questo principio non può essere un dogma, e il caso del Sudan lo ha già ampiamente dimostrato. Non per niente il Somaliland fa esplicito riferimento, nella sua Costituzione, ai confini della Somalia britannica e alla brevissima indipendenza del 1960. Come a dire: non ci siamo inventati nulla, il nostro è un “ritorno al futuro”.
Insomma, il riconoscimento internazionale sarebbe un atto dovuto, per il cammino che questo paese ha saputo fare in totale autonomia e in un'area così a rischio (compreso un grave attentato kamikaze dei terroristi Al Shabab in trasferta ad Hargeisa, nel 2010: il primo e ultimo, per fortuna, fino ad oggi).
Sarebbe anche un atto di umiltà, da parte della comunità internazionale, dopo la politica estera così pervicacemente sbagliata con la Somalia (come con gran parte del mondo islamico, sia per eccesso, sia per difetto: nessuno per esempio ha mai messo in discussione l'Arabia Saudita, o, più recentemente, il Qatar).
Infine, il Somaliland potrebbe davvero diventare un piccolo paese-modello per chi vuole intraprendere il cammino della pace e della democrazia. Se si illumina una delle cinque punte della stella somala, potrebbero poi brillare tutte le altre,e perché no, tornare anche insieme, un giorno.
Cesare Sangalli