Reportages

 

  • Bosnia
Bosnia1 2 3 4 5

 

english version




 

Pubblicato su "Galatea" luglio 2002

Nel silenzio dei media, l'Europa si gioca il suo futuro

Bosnia, il tempo della legge

Sei anni non sono bastati per riscattare la vergognosa pace di Dayton. Eppure in Bosnia qualcosa è cambiato. Fra le mille contraddizioni di un sistema europeo tanto debole quanto cinico, avanza lentamente lo Stato di diritto, la democrazia. Un richiamo drammatico all'etica della responsabilità

Se ogni città ha un suo proprio mezzo di trasporto, Sarajevo è una città da tram. Un circuito lungo e stretto che segue il corso del fiume e snoda le sue rotaie sull'ampio, luminoso boulevard, diventato ai tempi della guerra "il viale dei cecchini". Il tram ha il ritmo giusto, quel gradevole equilibrio fra l'indolenza levantina e l'efficienza mitteleuropea, sempre affollato ma mai ostile, come invece certe auto che sgommano senza motivo sulle corsie del viale "Selimovic", che poi diventa "Maresciallo Tito".
Le colonne militari della Sfor ricordano continuamente la normale anormalità della Bosnia a quasi sette anni dalla sporca pace di Dayton. Normale anormalità. La Bosnia è un rebus complicatissimo, dove la mostruosità è sempre in agguato, dietro la facciata innocente. Lo specchio scoperto della nostra civiltà contemporanea, così tremendo che ci siamo voltati dall'altra parte. A Sarajevo questo non si percepisce (se non fosse appunto per la presenza militare, e per alcuni rarissimi edifici da ricostruire). Niente più strisce gialle a delimitare le zone minate nei giardinetti dei condomini, sparite le scritte agli angoli delle strade che segnalavano la presenza dei cecchini, tolti i sacchi di sabbia che proteggevano gli scantinati, cancellati dai muri i segni delle granate e i fori dei proiettili. E rimesse tutte le finestre in vetro, praticamente inesistenti nel '96, a pochi mesi dalla fine di una guerra da molti considerata come un autentico "urbicidio", la premeditata, selvaggia distruzione delle città e del loro spirito (la convivenza pacifica, il senso della "polis").
"Non sappiamo perché è iniziata la guerra, non sappiamo perché è arrivata la pace": questo era l'atteggiamento prevalente,a Sarajevo e in tutta la Bosnia, nell'immediato dopoguerra. Né rabbia, né euforia, solo un doloroso stupore, un generale senso di frustrazione e tanta voglia di normalità, di ritrovare lo spirito del buon tempo antico, l'atteggiamento forse più tradizionale dei bosniaci, magistralmente descritto da Ivo Andric, premio Nobel 1961, nel suo capolavoro, "Il ponte sulla Drina".
Una normalità vissuta eroicamente da Sarajevo nei tre anni di assedio, una difesa puntigliosa della propria civiltà urbana millenaria, del "genius loci" (lo spirito del luogo) che si costruisce generazione dopo generazione. Lo spirito di Sarajevo si è rifiutato di cedere alla barbarie e alla fine ha vinto la sua battaglia, contro tutto e contro tutti. Ma la Bosnia, purtroppo, non è solo Sarajevo. La Bosnia è anche Mostar, città ancora divisa in due (fra cattolici e musulmani, o, più correttamente, fra croati e bosniaci), che attende la ricostruzione dello "Stari Most", il vecchio ponte, come simbolo di una riconciliazione di là da venire (e l'Italia sarà il primo paese finanziatore dell'opera).
La Bosnia è anche e soprattutto Srebrenica, un nome che deve rimanere impresso più di ogni altro nella memoria dell'Europa contemporanea, proprio come Auschwitz ha segnato il progetto dell'Europa moderna (che è contro ogni razzismo, ogni fascismo e totalitarismo o non è niente). Srebrenica è la "città dell'argento", un piccolo centro minerario non lontano dalla Drina, dove musulmani (la maggioranza) e serbi (la minoranza) convivevano da sempre. Sette anni fa, in quattro giorni (11 - 15 luglio 1995), le truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic massacrarono ottomila musulmani sotto gli occhi del contingente ONU, un battaglione olandese, che fornì addirittura la benzina per trasportare le vittime verso le fosse comuni (Bianca Jagger, "The European", 1995). Il "via libera" all'operazione fu dato indirettamente dal generale francese Bernard Janvier, a livello militare, e dagli altri Ponzi Pilati dell'epoca a livello politico, in primis il giapponese Yasushi Akashi, e con l'eccezione del polacco Tadeusz Mazowiecki, che, disgustato, rassegnò le dimissioni. La guerra nella ex Jugoslavia volgeva al termine, la logica spartitoria aveva vinto, si trattava di completare le "pulizie etniche" prima degli accordi di pace (Dayton, dicembre 1995).
Srebrenica oggi assomiglia ad una città fantasma. E' brutta, anonima, abbandonata, e puzza ancora di morte. Nella campagna circostante campeggiano anche adesso le firme del terrore: il nome del comandante Arkan, il simbolo delle quattro "esse" (che sembrano quattro lettere "c", in cirillico) sui muri di una scuola distrutta (accanto hanno costruito quella nuova): Samo Sloga Srbina Spasava, "solo l'unità salverà il serbo".
La via che ospita alcuni dei rifugiati musulmani ritornati (una sparuta minoranza, qui a Srebrenica) è intestata a Radovan Karadzic, l'ex psichiatra che divenne il leader dei serbo-bosniaci, attualmente ricercato per genocidio dal Tribunale dell'Aja. I coniugi Halilovic, fuggiti da Srebrenica nel '92, hanno ritrovato la loro casa in buone condizioni, anche perché il vicino (di origine serba) si è sempre interessato all'appartamento, e ha favorito la transazione con l'occupante, un altro serbo che aveva perso la sua casa a Sarajevo.
"Non abbiamo paura adesso - dichiarano - anche perché i militari che avevano occupato la città venivano tutti da fuori, e adesso non ce ne sono più". Sanno che molti di loro sono stati uccisi, "hanno fatto la fine di Arkan".
In questa piccola storia c'è già tutta una chiave di lettura del conflitto e della pace che ne è seguita. Una guerra misteriosa e una pace ingarbugliata, entrambe quasi incomprensibili, perché frutto di un'astuzia machiavellica, di una montagna di menzogne, imbrogli e mistificazioni. La prima e la più potente di tutte è che si è trattato di una guerra di popoli, di una serie di rivendicazioni nazionali sfociate in violenza e di odi etnici tipicamente balcanici, praticamente irredimibili. Uno dei giornalisti che ha seguito più da vicino l'intero evolversi della tragedia jugoslava, Paolo Rumiz, smonta pezzo per pezzo la teoria dell'odio etnico e delle guerre nazionali nel suo libro "Maschere per un massacro", spiegando con straordinaria lucidità come l'imbroglio mediatico sia stato essenziale nella concatenazione degli avvenimenti, e come questa diabolica, premeditata macchinazione abbia trovato un preciso riscontro nella nostra civiltà televisiva. "Gli aggressori della Bosnia - scrive Rumiz - hanno capito in anticipo che il nostro voyeurismo televisivo equivaleva a perfetta cecità" e ancora: "I Balcani sono stati un rilevatore impressionante della nostra debolezza sul piano politico, informativo, intellettuale".
Che cosa, in sostanza, avremmo dovuto vedere e non abbiamo visto? Che la guerra in Jugoslavia non era una vera guerra e meno che mai una guerra tra i popoli, ma una gigantesca, efferata operazione criminale sulla pelle della popolazione civile, ideata da buona parte della classe dirigente jugoslava, dai suoi servizi segreti e dalle mafie affaristiche balcaniche e non solo, messa in atto da una manovalanza di volgari banditi, spietati assassini e balordi fanatici, aiutati disgraziatamente dalla passività di una buona parte della popolazione (manipolata dalla propaganda di regime), e dall'incompetenza o dal cinismo complice della cosiddetta "comunità internazionale".
Le dispute ideologiche (la Serbia comunista contro la Croazia fascista, ad esempio), quelle etniche (i ricchi nordisti sloveni e croati, per esempio, contro i poveri meridionali serbi e montenegrini) o addirittura a sfondo religioso (cattolici contro ortodossi, o cristiani contro musulmani) erano solo gli strumenti irrazionali usati dal razionalissimo potere criminale per creare una situazione di "guerra permanente" all'interno e confondere le idee all'esterno.
Solo la guerra infatti poteva permettere la sopravvivenza di una classe dirigente (quella comunista jugoslava) marcia fino al midollo, e l'arricchimento stratosferico di una "nuova" oligarchia (quella del capitalismo di rapina, subito benedetta dall'Occidente), prosperata nei quattro anni di vacche grasse del conflitto. Solo la guerra permette a tutti di sentirsi innocenti, e di confondere i carnefici con le vittime. Gli assassini diventano patrioti, i fanatici eroi, i capi-mafia presidenti della repubblica, i cinici leader della politica internazionale grandi operatori di pace. L'etnia diventa colpa: "è colpa dei serbi", "è colpa dei croati", "sono balcanici, si scannano da sempre". E' la grottesca accusa che le vittime si fanno a vicenda, come nel bellissimo film "No man's land", continuando a fare il gioco dei manipolatori più o meno occulti, che sembrano nemici, ma sono in realtà alleati nel crimine. Così erano i due principali protagonisti della guerra Slobodan Milosevic e Franjo Tudjiman, ma anche quelli che hanno recitato in ruoli minori, come l'ineffabile presidente sloveno Kucan o il bosniaco Izetbegovic. A scanso di equivoci, tutta nomenklatura jugoslava (anche se Tudjiman si era fatto una decina d'anni in galera sotto Tito), per fare giustizia di un altro luogo comune spacciato per verità: ai tempi di Tito tutto andava bene, gli altri hanno infranto il sogno federale jugoslavo. In realtà, è proprio sotto la dittatura di Tito che è iniziato il meccanismo di "selezione alla rovescia" della classe dirigente (esercito, polizia, magistratura, amministratori economici e leader politici), ed è continuata quella castrazione mentale del popolo che va avanti, praticamente senza soluzione di continuità, dalla notte dei tempi.
Quindi, i leader che aspiravano a diventare "padri della patria" erano, chi più chi meno, comunisti riciclati, senza un brandello di ideologia e senza scrupoli, dunque perfetti per fare il grande salto nel capitalismo senz'anima che domina l'Occidente. Non a caso i loro accoliti mescolavano tranquillamente simbologie religiose e richiami nazionali di ogni tipo (dal nazifascismo degli ustascia per i croati alla monarchia reazionaria dei cetnici per i serbi), diffondendo l'odio e la paura necessari per il loro sporco business.
La guerra nella ex-Jugoslavia non ha mai avuto una logica militare. La linea del "fronte" riusciva incredibilmente a snodarsi per 2.800 chilometri, in un labirinto pazzesco di enclavi assediate, sedicenti repubbliche autonome, zone protette e corridoi vitali (le zone occupate dai serbi in Bosnia erano collegate sottilmente a Brcko, potevano essere tagliate in due in ogni momento). I bombardamenti sulla costa dalmata non avevano nessun obiettivo militare: in compenso, la cieca furia delle artiglierie serbe ha permesso alla mafia erzegovese, che rappresentava buona parte del governo di Zagabria, con i finanziamenti della diaspora croata, di impossessarsi delle case più belle e di buona parte delle strutture turistiche a prezzi stracciati.
In barba agli assedi e alle sanzioni internazionali, mai, in nessun momento, merci, armi, idrocarburi e capitali hanno smesso di girare da un capo all'altro di quell'orgia di mercato nero e di ricettazione (dei bottini di guerra) che era diventata la Jugoslavia. Una perfetta metafora della globalizzazione. Banche cipriote, conti protetti in Svizzera, casinò in Slovenia, televisioni americane, petrolio dalla Russia, sigarette e alcolici da Albania e Montenegro (la "Philip Morris Republic"), tecnologia giapponese, abbigliamento italiano, valuta tedesca. La famosa "comunità internazionale".
La guerra in Jugoslavia poteva finire solo per esaurimento, e così è stato.Il bluff dell'offensiva croata (quasi inesistente dal punto di vista militare, ma atroce per le conseguenze sui civili) doveva permettere a tutti i protagonisti di ritirarsi in bellezza: Tudjiman aveva riscattato le "sconfitte" del '91, Milosevic poteva presentare una ritirata onorevole di fronte alla potenza americana (e ai ridicoli, allora, bombardamenti Nato), Arkan e molti altri come lui se la spassavano già da miliardari nelle loro lussuose residenze a Belgrado, Pale, in Dalmazia. In Bosnia si trattava di gestire al meglio il business della ricostruzione, con una pletora di delinquenti a spartirsi le mille poltrone di quella mostruosa costruzione politica che era (ed è) la repubblica della Bosnia Erzegovina: due entità (la federazione croato-musulmana e la Republika Sprska), tre presidenti a rotazione, quattro livelli di governo, ottocento "ministri" (se si considerano anche i cantoni), per una popolazione di tre milioni di persone rimaste (un milione e mezzo si era rifugiato in altri paesi) e con un milione di mine disseminate su una linea di mille chilometri.
Nessuno poteva esultare per una pace simile, che premiava i carnefici e umiliava le vittime, cioè le popolazioni serbe, croate e bosniache. E fra le vittime, a quelli che avevano avuto meno responsabilità di tutti, erano state inferte le ferite più gravi: i musulmani. "(...) In esilio, nella tomba / incauti come bambini / vanno, scendono / i musulmani della Bosnia", lamenta nella sua elegia il poeta Abdulah Sidran. E' attorno a loro, con fatica immensa, che l'idea di Bosnia non è morta completamente. L'idea cioè di uno stato unitario, laico, dove si è solo bosniaci e nient'altro. Dove la religione, che spesso significa solo chiamarsi Ismet o Fatima, non viene ridotta ad elemento etnico, come incredibilmente è stato accettato dai nostri soloni della Realpolitik, gli stessi che oggi vorrebbero convincerci che la Bosnia è diventata un avamposto di Al Qaeda, la nuova culla del fondamentalismo islamico in Europa. Un'idea ridicola, scandalosa. Se la presenza dei paesi islamici è andata aumentando, è soprattutto perché in molti casi erano i soli disposti ad aiutare i bosniaci (per esempio, nella ricostruzione del glorioso "Oslobodjenje", quotidiano indipendente di Sarajevo, che ha continuato ad uscire durante tutto l'assedio: solo una banca saudita ha accettato la richiesta di finanziamento). A Sarajevo e dintorni le donne non girano col chador, tranne poche eccezioni, gli usi e costumi sono quelli di ogni altra città europea, a parte le armoniose linee delle numerose moschee e la voce del muezzin che invita alla preghiera. "Se ci sono terroristi, li arrestino - dichiara il signor Pekaric, direttore dell'organizzazione umanitaria islamica "Merhamet"- noi aiutiamo tutti quelli che ne hanno bisogno, senza alcuna distinzione. Collaboriamo con la Caritas, e fra i nostri finanziatori più generosi c'è la Caritas tedesca".
Ancora una volta, le divisioni decise dagli strateghi dell'odio vengono smentite dalla gente. Ancora una volta, purtroppo, la società civile deve cercare di supplire agli spaventosi vuoti della politica. Ma anche il settore umanitario presenta contraddizioni enormi e amnesie vergognose (quando si presta ai giochi sporchi della politica). Oltre cinquecento fra agenzie dell'Onu, organizzazioni non governative, enti religiosi, fondazioni, istituzioni varie non riescono a sanare i guasti della guerra. Una giungla di sigle che spesso nasconde il vuoto totale, professionisti dell'aiuto umanitario a volte in concorrenza fra loro e comunque incapaci di esprimere una linea coerente. In certi casi i loro compiti appaiono largamente al di là delle loro forze. Non si capisce, per esempio, perché gli oltre ventimila casi di "missing person" (quelli segnalati ufficialmente), le persone inghiottite dalla barbarie, siano affidate ai buoni uffici della Croce Rossa Internazionale, che certo può avere accesso ai cadaveri anche in tempo di guerra per la sua neutralità, ma non è chiaro con quali strumenti e quali poteri di inchiesta possa assolvere al mandato. E' difficile, dopo tutto quello che si è visto, non pensare alla voglia di rimuovere ogni responsabiltà, azzerare il passato, accettare lo status quo e sperare nella forza di inerzia. Era la grande tentazione della diplomazia europea, e probabilmente anche per questo le luci dei media si sono oscurate sulla ex Jugoslavia in generale, e sulla Bosnia in particolare. La guerra diventa una fatalità (o una necessità, a seconda delle convenienze), la colpa è dello spirito dei Balcani, le responsabilità di nessuno.Si ricomincia come se nulla fosse, business as usual.
Per questo i primi anni di pace sono stati deprimenti. Buoni successi solo nella ricostruzione materiale ( e sicuramente buoni affari per un po' di gente), su tutto il resto si tirava a campare. Nulla sembrava smuoversi, e la gente, accorgendosi probabilmente della mancanza di una volontà politica forte e chiara, rispondeva con la sfiducia e il pessimismo: chi era all'estero non si sognava di tornare, chi era rimasto cercava rifugio nelle seconde patrie (i croati in Croazia, i serbi in Serbia). Il voto confermava al potere i partiti nazionalisti (SDA i musulmani, HDZ i croati e SDS i serbi), alimentando il pessimismo e la rassegnazione alla logica spartitoria.
Ma poi il vento ha cominciato a cambiare. Lentamente, con grandi difficoltà, ma ostinatamente, si è andata affermando un'altra linea. Sono molti i fattori che incidono, alcuni anche misteriosi (o forse di dovrebbe dire "provvidenziali"). La razionalità e l'efficacia del male sembrano essere nettamente superiori, nel breve periodo. Eppure "il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi". Piano piano, sono cominciati i regolamenti di conti interni. Un'autenica mattanza. Quando un comandante della polizia e viceministro dell'Interno (il serbo Radovan Stojicic-Badza) viene ucciso in ristorante italiano a Belgrado con una raffica di mitra mentre si porta appresso una valigetta con 700mila marchi in contanti, si capisce meglio che la politica jugoslava è una lotta di mafie. Ucciso Arkan, assassinati Djordjevic e Gojak, due alti ufficiali delle famigerate "Tigri", gli squadroni della morte serbi. Assassinato Caldovic Centa, boss serbo in Germania, eliminatoKovacevic, amico del figlio di Milosevic, fatto fuori Todorovic, re del petrolio (vedi ancora "Maschere per un massacro" di Rumiz).
Ma non sono solo le mafie a non chiudere con il passato. Il Tribunale dell'Aja comincia ad eseguire arresti via via sempre più eccellenti. E a Sarajevo arriva l'austriaco Wolfgang Petric, come Alto rappresentante della comunità internazionale, la carica più alta in Bosnia. E' evidente che la Bosnia tuttora è quasi un protettorato, e l'Alto rappresentante ha poteri enormi. Eppure i predecessori di Petric non hanno lasciato traccia. Si fa presto a vivere di rendita, a fare i burocrati o i "viceré delle Indie" (sprezzante definizione dll'Alto rappresentante di un docente americano). E' più difficile avere una volontà politica e soprattutto assumersi le proprie responsabilità. Petric lo fa. Capisce immediatamente che la questione chiave è quella dei rifugiati. Una questione di puro principio, clamorosamente smentita dalla realtà dei fatti: le aree della Bosnia sono ormai "omogenee" per etnia, come previsto fin dai primi anni della guerra dalla diplomazia internazionale (per esempio il piano Vance-Owen).E' ormai passato il messaggio che le tre popolazioni non possono vivere insieme, perché si sa (anche se ufficialmente non si dice), sono balcanici, destinati geneticamente ad ammazzarsi fra loro. Proprio il messaggio dietro il quale si sono nascosti i signori della guerra e i loro accoliti, gli unici veri assassini.
Il diritto al ritorno per tutti, sancito a Dayton, sembrava essere il contentino dato ai soliti idealisti. Pura retorica, tipica ipocrisia occidentale. Nei primi anni è stato proprio così. Però Petric sembra sapere che un' Europa che legittima il principio di "purezza etnica" non è degna nemmeno di nascere. Una comunità di banchieri che occulta Srebrenica è una vergogna che possiamo portarci dietro per generazioni: e la stabilità fondata sui massacri sarà sempre una falsa stabilità, così come una pace senza giustizia sarà sempre una pace a metà, una pace a rischio.
L'Alto Rappresentante ha a disposizione due validi alleati: il contingente militare Sfor, con gli italiani in testa, che piano piano riscatta le mille vigliaccherie targate Unprofor e soprattutto l'Alto Commissariato per i rifugiati, di gran lunga la più tosta delle agenzie ONU in Bosnia, per quanto è dato di vedere.
Udo Janz, presidente esecutivo dell'Acnur, snocciola subito dati e non buone intenzioni: "Dal '99 in poi sono oltre 220mila le persone che sono tornate a casa nei posti dove la propria etnia è minoranza. Entro la fine dell'anno se ne aggiungeranno altre centomila circa. Possiamo quindi dire che siamo a metà strada per quanto riguarda il numero degli sfollati, e un terzo dei rifugiati. Bisogna ancora fare molto, ma questi sono comunque risultati concreti. Occorre anche considerare che non tutti vogliono tornare, e che almeno metà de rifugiati ha scelto di vivere all'estero (650mila circa su un milione e 400mila che erano all'estero alla fine della geurra)".
La questione dei rifugiati e degli sfollati ("internal displaced persons") è estremamente complicata, perché è legata al ripristino della proprietà legale o alla ricostruzione materiale della propria casa. "Troppa gente vive ancora nei centri collettivi, in condizioni disastrose" dice René Knupfer, dirigente di programma dell'ACNUR.
Le cose vanno piano, ma vanno. E più la gente riacquista fiducia, più terreno perdono i partiti nazionalisti ed estremisti. Già adesso sono passati all'opposizione. L'appuntamento cruciale è alle elezioni politiche di ottobre: il governo che ne risulterà sarà il primo a rimanere in carica per quattro anni. Dovrà fare una riforma costituzionale, portare avanti il rinnovamento dei quadri della magistratura e delle forze dell'ordine. Un compito immane, ma non impossibile. Soprattutto se prevale il vero spirito bosniaco, che poi è il vero spirito europeo. Ivo Andric, il grande scrittore bosniaco, lo conosceva bene. E sapeva, proprio come gli abitanti di Visegrad, protagonisti della sua storia, "che la vita è un miracolo impenetrabile, perché si consuma e si disfà incessantemente, eppure dura e sta salda come il ponte sulla Drina".

Cesare Sangalli