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Pubblicato su "Galatea" febbraio 2006

Il dramma di un popolo oppresso da sempre

Curdi, una sfida europea

Una millenaria storia di sofferenza è entrata nel XXI secolo senza
risposte. Il silenzio sulla questione curda è la più grande vergogna dell'era delle comunicazioni. La guerra in Irak ha visto comparire l'embrione di un Kurdistan nato già malato. Ma con le trattative per l'adesione della Turchia all'Unione Europea, non potremo più far finta di non vedere la violenza scaricata sui più deboli


“Un curdo non ha amici, ma solo montagne”. E' una solitudine antica, quella dei curdi, enorme come la loro tragedia, quella della più grande nazione del mondo senza sovranità. Se infatti una nazione è “una grande famiglia umana legata da comunanza di origini, di lingua, di tradizioni, indipendentemente dal vincolo giuridico dello stato”, come recita il dizionario Sansoni, c'è un popolo di circa 35 milioni di persone che non ha ancora una patria, e in molti casi non ha ancora il diritto di chiamarsi con il proprio nome, o parlare la propria lingua. Vittime predestinate, che hanno avuto la sfortuna di nascere in una parte del mondo che sembra maledetta dalla Storia, anche se qualcuno sostiene che il paradiso terrestre, secondo le fonti bibliche, era collocato proprio alle sorgenti del Tigri e dell'Eufrate, e in questa regione, sul monte Ararat, trovò l'approdo l'arca di Noè alla fine del diluvio universale.
Medio Oriente. Un nome che annuncia sciagure nei notiziari di tutto il mondo. L'incrocio di Turchia, Siria, Iraq e Iran, e poi, a nord, le regioni caucasiche, a rendere complicatissimo il mosaico degli Imperi. C'è sempre un Impero, nel destino dei curdi, e loro si trovano sempre dalla parte sbagliata, al momento sbagliato. Unico rifugio, le montagne. A volte aspre e maestose, più spesso brulle e scarsamente abitate. Freddo e silenzio, nel bel mezzo del gelido inverno del 2006. Vicino ai villaggi distrutti sul versante turco, più muli che auto. Vestiti da europei poveri, gli uomini e le donne di quaggiù dimostrano mediamente 15 anni più della loro vera età. Hanno il dolore scolpito nei volti, la fatica nelle mani. Il loro Islam è poco visibile, a parte il velo sulla testa delle donne più mature, il rito del tè, il togliersi le scarpe per entrare in casa, e qualche volta il richiamo del muezzin. Le moschee sono rare o poco visibili; ma in compenso i militari sono sempre presenti, minacciosi nelle loro caserme costruite dappertutto, nei punti strategici, sulle alture, a volte con l'artiglieria ben in vista, come a dire: “Siete sempre sotto tiro”.
Sotto tiro o sotto controllo: la sensazione opprimente ti accompagna a debita distanza, ma non ti lascia mai veramente. E forse è per questo che da queste parti sembra non venire mai nessuno. Né giornalisti, né politici, né rappresentanti diplomatici. Ci vuole davvero uno sforzo di fantasia per immaginare che qui, fra un po' di anni, potrebbe esserci il confine dell'Europa. L'Europa è la grande assente nella questione curda, e magari crede per questo di essere innocente. O perfino generosa e idealista, nei suoi reiterati appelli al rispetto dei diritti umani. Ma le cose non stanno così.
“I curdi continuano a svolgere una funzione tragica, dimostrando i danni enormi che si sono verificati laddove le potenze occidentali hanno messo le mani”, dichiarava amareggiato Igor Man, il grande inviato della “Stampa”, una decina di anni fa. E aggiungeva: “Lo sterminio a rate dei curdi ha avuto meno peso della difesa del petrolio”.
Igor Man ha ragione. La madre di tutti drammi del Medio Oriente è la fine dell'Impero Ottomano, al termine della Grande Guerra, quella del 1914 – 1918. I vincitori, Francia e Inghilterra, con l'appoggio degli Stati Uniti (l'Italia non contava quasi nulla), ridisegnano il mondo a loro uso e consumo.
Le tensioni ideali, le aspirazioni dei popoli all'indipendenza, difese a parole dal presidente americano Wilson, si scontrano con l'avidità di stampo coloniale delle vecchie potenze: il compromesso che ne risulta è pessimo, soprattutto per il Medio Oriente, che deve fare i conti con la sua profonda arretratezza.
Il Kurdistan indipendente nasce e muore fra un trattato di pace e l'altro: il destino dei curdi (e non solo) viene sempre deciso da altri. Dall'accordo di Sèvres del 1920 a quello di Losanna del 1923, è cambiata la forza della Turchia, resuscitata dalla disfatta grazie a Mustafa Kemal, condottiero e padre del nuovo stato turco: lo stato indipendente del Kurdistan, come l'Armenia, rimarrà sulla carta. Nazioni vere restano prive della minima sovranità, mentre stati assolutamente artificiali vengono ammessi nel nuovo ordine mondiale. Il più artificiale di tutti è l'Iraq, che non ha alcun motivo di esistere così come è stato disegnato. Ma l'Iraq ha il petrolio, gli occidentali lo sanno benissimo già allora, e creano lo stato fantoccio con il sovrano burattino, il vecchio e riluttante re Feysal. Accanto all'Iraq, si inventano, in modo appena più coerente, la Siria, il Libano e la Palestina, tutti sotto controllo inglese o francese. A est, nel cosiddetto “Middle Far East”, gli occidentali creano dal nulla in Iran la dinastia dei Pahlevi, servi fedeli di interessi stranieri. A nord si accetta giocoforza la nuova Turchia, che non preoccupa, perché Mustafa Kemal “Ataturk” propugna con pugno di ferro una occidentalizzazione forzata. Il gioco è fatto, i curdi vivono ora in quattro stati diversi (che sarebbero di più, se si considerano anche Azerbaigian e Armenia cadute sotto il dominio di Stalin), le aspirazioni arabe sono state in gran parte umiliate, la questione del ritorno ebraico in Palestina del tutto sottovalutata. Di democrazia non si parla neppure per sbaglio: basta garantirsi il controllo del territorio e la garanzia dello sfruttamento petrolifero.
Questo capolavoro diplomatico alla rovescia fa sì che una delle aree più silenti e addormentate del mondo, rassegnata fatalisticamente alla secolare decadenza islamica, farà esplodere i suoi enormi conflitti nella seconda metà del Novecento, e garantirà guerra e violenza per tutti per oltre mezzo secolo.
Il Medio Oriente. Stiamo invecchiando con il problema del Medio Oriente. Ma i principali artefici del problema, gli europei, sono abbastanza al sicuro per permettersi di pensare solo e sempre al petrolio (viceversa l'area sarebbe stata lasciata al suo destino da anni). I curdi, invece, hanno pagato per tutti e più di tutti, fino a diventare perfino vittime di se stessi.
“Il colonialismo dei poveri è invariabilmente più feroce nelle sue forme del colonialismo classico e più nefasto quanto ai suoi effetti”. E' la tesi del giurista Ismet Sherif Vanly, riportata da Laura Schrader nel suo libro “I fuochi del Kurdistan”. Discriminati e oppressi in Iraq, in Siria, in Iran e in Turchia, i curdi sono anche i più poveri dei poveri, e, inutile nasconderlo, i più arretrati degli arretrati. Non hanno niente in comune con gli arabi, né con i turchi, che vorrebbero assimilarli: completamente diversi per etnos, lingua, tradizioni, al massimo si può stabilire una lontana parentela con i persiani.
La religione non li aiuta: il fatto di essere in maggioranza musulmani sunniti significa ben poco. Oltretutto, anche l'islamizzazione è stata ottenuta con la forza, molti secoli prima: la religione originaria dei curdi era il culto di Ahura Mazda, ma dei seguaci del sacerdote Zarathustra (o Zoroastro) resta solo la piccola minoranza degli yezidi, oltre alla tradizione millenaria della celebrazione del Nawroz, il nuovo anno, ogni 21 marzo, quando si accendono dovunque i fuochi del Kurdistan. Per i curdi la tradizione conta più della religione: non c'è traccia di fanatismo, fra loro, tanto che la maggioranza sunnita ha sempre convissuto senza il minimo problema con le minoranze sciite, yezidi, cristiane e perfino ebraiche.
Ma se il senso di appartenenza culturale è fortissimo, la coscienza politica, lo spirito di unità nazionale, restano per decenni a livelli infimi. Non si va oltre la famiglia, il clan, la tribù: la mentalità feudale è la vera palla al piede dei curdi, che non riescono assolutamente ad abbracciare una qualche forma di modernità, facendo il gioco dei loro dominatori. L'assenza di una classe dirigente minimamente degna di questo nome è ancora oggi il problema principale di questo popolo sfortunato. Una grande causa ha bisogno di un grande leader: difficile immaginare l'indipendenza dell'India senza la figura di Gandhi, o la liberazione del Sudafrica nero senza Mandela. I curdi, dalla spartizione degli anni Venti, hanno avuto solo due veri capi carismatici: Mustafa Barzani in Iraq e Abdullah Ocalan in Turchia. Due epoche storiche diverse, due stati diversi, due percorsi alternativi, entrambi emblematici per capire la questione curda oggi. Anche perché la maggior parte dei curdi vive in Turchia (20 milioni), ma lo stato con la percentuale più alta di curdi sulla popolazione è sempre stato l'Iraq (il 25 per cento circa).
Mustafa Barzani era il classico signore feudale, capo indiscusso del suo potente clan, un condottiero ribelle che incarnava il coraggio guerriero dei peshmerga, gente che non si arrende mai, abituata ad affrontare la morte e ogni tipo di sofferenza. Quando in Iraq il generale Kassem rovescia la monarchia (1958) portando alla ribalta il movimento del Baath, i curdi si oppongono alla costruzione di uno stato forte, centralizzato, che esalta il nazionalismo arabo (a dominio sunnita). Ogni colpo di stato successivo non fa che esasperare il tentativo di controllare in modo sempre più dittatoriale lo stato ingovernabile creato dagli inglesi, arabizzando a tutti i costi i curdi, anche se a volte si fa finta di trattare, fino a riconoscere la minoranza curda in costituzioni che non valgono niente. La soluzione è sempre e solo militare, fino ad arrivare al tentativo di genocidio dell'ultimo ufficiale baathista arrivato al potere, Saddam Hussein, che comanda l'Iraq in modo brutale dal 1979. Barzani, per difendersi nelle varie guerre contro Baghdad, accetterebbe alleanze anche con il diavolo, ma fino agli anni Settanta i suoi sponsor principali sono gli USA e lo Scià di Persia. Anche per questo, ad un certo punto, il partito da lui creato a sua immagine e somiglianza, il PDK, subisce la scissione “da sinistra” dell'UPK. Le virgolette sono obbligatorie, perché l'ideologia è un optional, in Medio Oriente: il nuovo partito è semplicemente quello del clan Talabani, altra famiglia potentissima fra i curdi, che di fronte all'escalation militare cerca alleanze soprattutto nel blocco socialista.
Inutile comunque cercare di capire come abbia giocato la Guerra Fredda in Medio Oriente, perché ogni alleanza è reversibile. L'attacco di Saddam all'Iran degli ayatollah (1980), lo rende amico dell'Occidente per tutti gli anni Ottanta.
Le armi di distruzione di massa sono quelle che USA, Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia vendono al grande dittatore, dagli aerei alle mine, passando per i gas tossici, nervino e iprite. Quando può, ovviamente, si aggiunge anche l'URSS. A sperimentarne l'efficacia sono gli iraniani da un lato, e i curdi dall'altro. Ma la megalomania crudele di Saddam non poteva restare priva di conseguenze: l'invasione del Kuwait è il più grande “regalo” fatto agli USA, e anche ai curdi. L'Occidente si rifà una verginità in un attimo, e per la prima volta i curdi (dopo l'ennesima beffa della rivolta del 1991, schiacciata da Saddam ancora in sella per qualche tempo) si trovano dalla parte dei vincitori, praticamente indipendenti, liberati dal loro più feroce persecutore.
Non è chiaro però chi deve comandare, fra il clan Barzani e quello Talabani, o, se preferite, fra il PDK o l'UPK, e prima di trovare un accordo, le due fazioni pensano bene di farsi una guerra fratricida, dal '92 al ‘97. Ma alla fine c'è gloria (e petrolio) per tutti: Jalal Talabani, più diplomatico, diventa presidente del nuovo stato iracheno, Massud Barzani (figlio del mitico Mustafa) controlla la sua bella fetta di territorio e parla senza remore di indipendenza del Kurdistan. Scordatevi la democrazia, e lo sviluppo: il Kurdistan iracheno, uno dei posti più brutti del mondo, è uno stato militarizzato che vive del traffico del petrolio (quasi tutto destinato al mercato nero), con una corruzione capillare che fa comunque girare i soldi. Per gente che ha sempre dovuto lottare per la sopravvivenza, è già tanto: fervidi alleati degli americani (ma solo perché nemici del loro nemico, nessuno si illude sulle loro reali intenzioni) i curdi iracheni sono più realisti del re, e nessuno crede alle belle parole spese a livello ufficiale, nessuno sogna di vivere in un Iraq democratico e federale: l'importante è avere il controllo del territorio, e ripararsi da qualsiasi minaccia. Al referendum sulla costituzione ha votato probabilmente solo un terzo dei cittadini, ma le schede piene di “sì” sono state riempite dai poliziotti, per la gioia dei media occidentali, che infatti da queste parti si vedono molto raramente. Hic manebimus optime, (“qui staremo benissimo”), sembrano dirsi tutti quanti, tranne una minoranza progressista, riunita intorno al terzo partito curdo, il quasi sconosciuto PDCK.
Una fila lunga 30 chilometri di autocisterne e camion ti porta all'altro lato del pianeta curdo, senza lasciare alcun dubbio sul tipo di legame che unisce la Turchia all'Iraq, o, detto in altri termini, il Medio Oriente all'Europa.
La differenza fra il lato iracheno e quello turco è evidente, per quanto questa sia la zona più sfigata della Turchia, e diventa ancora più netta quando si raggiunge la città di Diyarbakir, che è un po' la “capitale” dei curdi dell'Anatolia. Qui in effetti l'Europa non sembra così lontana, ad uno sguardo superficiale. Il livello di vita non appare inferiore a quello di alcuni paesi dell'est europeo (ma anche del profondo sud italiano), a giudicare dalle case, dagli alberghi, dai negozi e dall'abbigliamento. In Turchia la questione curda ha una fisionomia più chiara, nettamente distinta dal complicatissimo intrigo iracheno, squisitamente mediorientale.
In Turchia i curdi avevano in qualche modo interiorizzato il disprezzo e l'emarginazione. Per decenni si erano abituati ad essere considerati “turchi di montagna”, cittadini di serie B del sacro stato forgiato da Kemal Ataturk. L'esercito è il pilastro su cui si fonda la nazione; garante dell'unità nazionale e della laicità dello stato (che poi significava sostanzialmente convertire gli islamici al nazionalismo, farne dei patrioti statalisti, per cui il buon musulmano è innanzi tutto turco). Il pluralismo politico, la libertà di espressione, i diritti della persona sono sempre stati accettati solo nella misura in cui non intaccavano l'ordine costituito. Appena si percepiva una minaccia, anche solo culturale, scattava la repressione durissima. Uno poteva anche chiamarsi Nazim Hikmet ed essere uno dei più grandi poeti del pianeta: alla fine, non restava che la galera o l'esilio, per chi si permetteva anche solo di avere dubbi sull'impianto monolitico creato dal Padre della Patria. E appena i politici uscivano dal seminato, interveniva direttamente l'esercito.
Ma la Turchia, membro della Nato fin dal 1952 e cane da guardia degli Stati Uniti nella regione, si era separata definitivamente dal Medio Oriente. Ed è per questo che la sua storia contemporanea è decisamente più influenzata da ciò che avviene in Europa. Gli anni Settanta sono stati anche qui anni turbolenti, e le correnti rivoluzionarie che attraversavano il Vecchio Continente hanno scosso una nazione che stava lentamente cambiando la sua fisionomia sociale ed economica. E' in questo contesto che si forma Abdullah Ocalan, figlio come tanti curdi di una poverissima famiglia di contadini della zona di Urfa, studente di Scienze politiche all'università di Ankara.
Ocalan si unisce ai movimenti di estrema sinistra, e conosce molto presto il carcere e la tortura, che era e resta prassi abituale in Turchia. Nella sua visione, quello che manca al suo popolo è una vera presa di coscienza, che è allo stesso tempo etnica e di classe. Se il nemico esterno è lo stato turco, nazionalista e militarista, quello interno è la mentalità feudale, gerarchica e maschilista, di cui i curdi si devono liberare. Alla fine del 1977 fonda il PKK, il Partito dei lavoratori curdi, di chiara impronta marxista.
L'attività dei primi anni è esclusivamente politica , ma in Turchia il conflitto fra estremisti di sinistra e di destra, inquadrati nei “Lupi Grigi” (che spesso agiscono come longa manus dei servizi segreti), si fa durissimo, proprio come in Italia. Nel settembre 1980, i militari guidati dal generale Evren attuano un colpo di stato: vogliono rimettere ordine nel paese e ristabilire la loro supremazia, che verrà ribadita dalla costituzione del 1982, quella ancora in vigore. E' chiaro che dietro i militari c'è tutto un blocco sociale: secondo il docente di scienze sociali Server Tanilli, “la borghesia turca, per imporre la sua brutalità attaccando la democrazia, aveva sempre fatto ricorso a due mezzi: l'ostilità al comunismo e l'ostilità verso i curdi. Aveva impedito le rivendicazioni politiche, economiche e sociali con l'accusa di comunismo, e le rivendicazioni democratiche nazionali dei curdi con l'accusa di separatismo”.
Nell'informazione di regime, curdo e comunista diventano sinonimo, anche se il PKK, quando decide di passare alla lotta armata, nel 1984, conta su poche migliaia di militanti, ed è forse più noto in Europa che in Turchia.
Ma la politica di repressione brutale, ottusa, in molti casi assurda, attuata sistematicamente dallo stato turco, fa del PKK il vero partito dei curdi e di Ocalan l'eroe nazionale. A Diyarbakir e dintorni non troverete nessuno disposto a disconoscere l'appoggio incondizionato al PKK e al suo leader.
E' un fatto che gli europei dovrebbero avere ben presente. Visto che il PKK da qualche anno è stato inserito nella lista dei movimenti “terroristi”, allora ci si deve rapportare ad un popolo di “terroristi”. Ovviamente le cose non stanno così, e non è per niente difficile capire le ragioni dei curdi, che evidentemente non sono una massa di fanatici o di estremisti.
La vera identità collettiva dei curdi è la sofferenza. Difficile trovare una famiglia che non abbia vissuto direttamente o indirettamente l'incredibile oppressione della polizia e dell'esercito turchi, gli unici veri terroristi di questa storia di lacrime e sangue, che non è finita nemmeno dopo l'arresto di Ocalan e il periodo di latenza dei guerriglieri del PKK (che ora si chiama Kongra Gel) , anche se non siamo più negli anni bui della guerra civile.
Essere curdo significa essere perseguitato, anche per motivi assurdi. E tutto questo senza suscitare la solidarietà, o magari la pietà di nessuno. Il trentennale silenzio dei media occidentali è semplicemente allucinante. Per scoprire veramente la questione curda, la maggior parte degli italiani ha dovuto aspettare la venuta di Ocalan in Italia (e qui in tanti ricordano Massimo D'Alema, per quel minimo di dignità opposta alla Turchia).
Ma i curdi sanno che i carri armati che hanno distrutto le loro case sono importati dalla Germania. Sanno che le nazioni europee hanno continuato per anni a fare fiorenti affari con la Turchia che adesso bussa alle porte dell'Unione europea (e l'Italia è seconda solo alla Germania negli scambi commerciali). Sanno che milioni di europei (e 400mila italiani) vengono ogni anno a visitare le bellezze del paese, a frequentare i villaggi turistici che a volte sono a poche decine di chilometri dall'ingiustizia, dalla violenza.
Nessuno oggi, nemmeno Ocalan, parla più di indipendenza. Si parla solo di democrazia, di libertà di espressione, di autonomia e tutela delle minoranze. Ed è lo stesso problema posto dai turchi, soffocati dallo stato di polizia, stanchi della tutela di un esercito che è un'autentica casta di privilegiati, frenati dalla pesante burocrazia statale, in gran parte inefficiente e corrotta, che è l'ennesimo fardello ereditato dallo stato kemalista.
Si parla insomma di quella che dovrebbe essere veramente l'Europa: una realtà politica in cui pace e democrazia hanno esorcizzato i fantasmi del nazionalismo e del militarismo, hanno sostituito lo stato di polizia con lo stato di diritto, hanno imparato la lezione tragica della Seconda guerra mondiale. In molti lo hanno dimenticato da tempo, atrofizzati dall'etica del profitto, che fa coincidere ipocritamente il capitalismo con la democrazia. Per questo l'adesione della Turchia è un passaggio cruciale per il futuro dell'Europa. Per questo la questione curda è assolutamente una sfida europea.

Cesare Sangalli