Reportages
Pubblicato su "Galatea" maggio 2000
La lotta per l'indipendenza del popolo papua
Irian Jaya, una ballata del mare salato
I leggendari mari del Sud a volte si macchiano di sangue. In Irian Jaya, la parte indonesiana della Nuova Guinea, si è vissuto per anni come a Timor Est: brutali violenze sulla popolazione nel totale silenzio dei mass media. Con una differenza: i “guerriglieri” papuani hanno combattuto l'esercito indonesiano con gli archi e le frecceLa prima cosa è il nome. Irian Jaya: un bel nome, facile da ricordare. Un nome falso. Maledettamente ipocrita, come la storia dell'Indonesia, che qui, come a Timor Est, ha significato colonialismo duro e puro. Irian Jaya, una sigla (“Ikut Republik Indonesia Anti Netherlands”) che vuol dire “la vittoriosa repubblica unita indonesiana contro l'Olanda”. Un nome che è una totale negazione di identità, perché non si può esistere solo “contro” qualcuno o qualcosa.
Per la gente di qui, questa terra si chiama “West Papua”, in inglese, o “Papua barat” in indonesiano. Sempre parole prese in prestito, ma è l'unico modo di superare la babele di 250 lingue parlate nella seconda isola del mondo (dopo la Groenlandia), un'isola che un navigatore spagnolo, Ynigo Ortiz, chiamò “Nuova Guinea” nel 1545.
Un posto sperduto nei mari del sud, a nord dell'Australia. Bello e misterioso, incantato e inaccessibile come un paradiso perduto. Foresta equatoriale e montagne con nevi perenni (le cime più alte sfiorano i cinquemila metri). Il colpo d'occhio è impressionante già dall'aereo che punta verso l'aeroporto di Sentani, costruito dagli americani nel 1944, quando Jayapura, la capitale, diventò la base del generale Mac Arthur per l'attacco finale ai giapponesi.
Il primo impatto con le persone mette subito in luce una realtà: i funzionari e gli uomini in divisa (pochi, per la verità) sono indonesiani, come pure i gestori dei negozi migliori e la maggior parte dei tassisti. Gli altri, che guardano lo straniero con un po' di curiosità e molta timidezza, sono neri di pelle e con i capelli crespi. Sono i veri abitanti di questa terra, chiamati melanesiani per il colore scuro o papua, parola di origine malese che significa semplicemente “capelli crespi”.
Si capisce in fretta che, nonostante la bellezza naturale e il fascino esotico, il turismo è ancora una realtà marginale: quasi tutti preferiscono le rupie indonesiane ai dollari americani, pochi parlano inglese. Le case, i locali, i mercati sono modesti, ma non c'è la sensazione di miseria, nessuno chiede l'elemosina (al massimo qualche sigaretta), i bambini buttano lì qualche saluto, qualche sorriso (girano le maglie delle squadre italiane, con tanto di sponsor, numero e nome, dal 10 di Signori all'uno di Peruzzi). Tutto intorno, montagne verdi e nuvole minacciose: qui l'acqua cade abbondante, torrenziale a volte, gran parte della foresta pluviale resta impenetrabile. Non ci sono praticamente strade, ogni città sarebbe isolata senza gli aerei. L'isola, quasi un piccolo continente con solo sette milioni di abitanti divisi in due stati (Irian Jaya e Papua New Guinea, indipendente dal 1975) è chiusa su se stessa, fieramente selvatica, naturalmente ostile agli stranieri, che infatti l'hanno sempre presa alla larga e comunque in modo violento, a volte vittime (missionari ed esploratori), più spesso carnefici.
Qui si praticava il cannibalismo, qui qualcuno pensa ancora di trovare nelle “Central Highlands” o nella Baliem Valley l'uomo all'età della pietra. Ma l'idea del “primitivo contemporaneo” è rifiutata dalla moderna antropologia, anche perché è un concetto che si presta facilmente a distorsioni razziste. Gli aborigeni della vicina Australia ne sanno qualcosa. Trattati per anni come umanoidi, quando avevano una cultura poetica, un rapporto geloso ma libero con la terra, che conoscevano palmo a palmo e rispettavano profondamente (come ha raccontato Bruce Chatwin nelle “Vie dei Canti”).
I papua non si sono fatti chiudere nelle riserve, non sono diventati minoranza a casa loro, non sono stati umiliati dall'alcol e dagli assistenti sociali. Il loro spirito di libertà, mille volte minacciato, sembra essere indomabile. “Si può parlare di un senso religioso della libertà - dice padre Alfons Van Nunen, missionario olandese, francescano di 78 anni, in Irian Jaya - West Papua dal '53 - “con un forte richiesta individuale e collettiva di salvezza, che si manifesta per esempio nei cargo cults”.
I cargo cults sono la risposta originale della religione indigena ai primi contatti con il mondo occidentale. Colpiti dalla straordinaria ricchezza dei beni materiali degli ogai (termine con cui si indicano praticamente tutti gli stranieri) e dal fatto che alcuni oggetti sconosciuti sembravano piovere dal cielo o spuntare dal mare, i papua si “appropriarono” degli oggetti come dono degli antenati celesti e segno dell'imminente venuta (più esattamente del ritorno) di un messia, che avrebbe portato verso un'era di benessere e felicità prima dell'inevitabile fine del mondo. A volte il passaggio dalla sfera materiale a quella spirituale riguardava perfino le parole: tutti gli oggetti concessi da Dio erano pabrik , dall'olandese fabriek (industria). Un'industria divina, gli uomini non c'entravano per niente.
Per i papuani la ricchezza non è tale se non è condivisa, e il bene più grande è costituito dai maiali: i più bravi allevatori devono nutrire molte persone e dare tante feste. Solo così si arriva ad essere considerati “big men”, e con il carisma personale, la capacità di convincere, di farsi ascoltare.
Tutti possono aspirare a diventare “big men”, a guidare cioè il villaggio, ma solo attraverso il consenso della comunità. Il potere non si trasmette per eredità, non può mai prescindere dalle capacità individuali. Questo spirito libertario, quasi anarchico, era (ed è) indubbiamente favorito dalle dimensioni minuscole dei raggruppamenti umani: fino agli anni Sessanta, il novanta per cento degli insediamenti era costituito da comunità che non superavano le cento persone.
Gli abitanti della Nuova Guinea, sparpagliati in centinaia di tribù spesso in conflitto fra loro, costretti a comunicare fra loro solo attraverso lingue altrui, dimostrano però una stupefacente unità di vedute quando si tratta di proteggersi dallo straniero. Questo patriottismo senza patria è stato in qualche modo rafforzato dalla lenta ma inarrestabile diffusione del cristianesimo, la religione degli ogai. Il paradosso è solo apparente: soprattutto dagli anni Cinquanta, quando questa parte dell'isola era ancora sotto il controllo degli olandesi (dall'altra parte c'erano gli australiani), si svilupparono movimenti ispirati dalla figura di Gesù che, cercando la salvezza morale, predicavano anche la liberazione da ogni forma di dominio straniero. La parola chiave è merdeka, termine indonesiano che significa libertà nel senso di indipendenza (la libertà individuale è bebas).
“La nostra indipendenza è stata venduta dall'ONU al presidente indonesiano Sukarno , grazie al sostegno americano” dichiara Benny Giay, docente all'Università di Jayapura (vedi intervista N.d.A).
Sukarno, leader del movimento nazionalista indonesiano dal 1928, aveva guidato la lotta per l'indipendenza dell'enorme possedimento coloniale conosciuto con il nome di Indie Olandesi. Un autentico impero, che andava dall'isola di Sumatra, vicino alla Malesia, fino alla Nuova Guinea, comprendendo Giava, il Borneo, Bali, Celebes, le Molucche e una miriade di altre isole (fra cui Timor, divisa con i portoghesi).
Tre secoli e mezzo di assoluto dominio olandese vennero spazzati via dall'invasione giapponese del 1942. I giapponesi volevano risvegliare l'orgoglio asiatico contro gli occidentali in tutti i loro nuovi possedimenti, ma il loro imperialismo era talmente brutale che scatenò quasi ovunque (dal Vietnam alla Nuova Guinea) le forze di resistenza nazionale.
Sukarno aveva uno straordinario carisma, e si propose più come leader messianico che come leader politico, facendo leva sull'oscuro e radicato senso religioso di popoli solo apparentemente musulmani (la maggioranza) o cristiani (la minoranza). Pochi giorni dopo la resa dei giapponesi, il 17 agosto 1945, l'Indonesia proclamava la sua indipendenza. Ma la democratica Olanda appena uscita da cinque anni di occupazione nazista non ne voleva sapere di perdere le sue colonie, e si avventurò in una sporca guerra di cui non è quasi rimasta memoria storica (contrariamente ad altre lotte indipendentiste, dal Vietnam all'Algeria).
Alla fine del 1949, gli olandesi mollarono la presa, l'Indonesia divenne indipendente con un progetto di stato federale e con presidente Sukarno.
La parte occidentale della Nuova Guinea, la futura Irian Jaya, la zona più negletta delle Indie Olandesi, rimase fuori dal nuovo stato indonesiano, che abbandonò quasi subito il progetto federale per diventare una dittatura di stampo populista, totalmente centralizzata, caratterizzata da un nazionalismo aggressivo e basata sul ruolo dominante dell'esercito.
Sukarno aveva ottimi rapporti con la Cina di Mao, inizialmente, e si propose come catalizzatore dei “paesi non allineati”, alfiere del Terzo Mondo che entrava nella Storia. La conferenza di Bandung del 1955, nell'isola di Giava, resta una pietra miliare nel percorso politico che porterà le ex colonie a conquistare la maggioranza all'ONU nel 1961. Negli anni Cinquanta Sukarno era uno dei campioni del mondo “estraneo” alla Guerra Fredda, insieme a Tito, Nasser, Nehru, l'arcivescovo Makarios.
Il dittatore indonesiano sposò comunque logica del libero mercato e si spostò decisamente verso il mondo occidentale, anche perché doveva fare i conti con il più forte movimento comunista di tutto il sud-est asiatico, con forti infiltrazioni nell'esercito. E' in questo contesto che troverà il sostegno incondizionato degli USA, ossessionati dall'incubo sovietico, dallo smacco subito a Cuba e sempre più coinvolti nel conflitto vietnamita.
Ed è in questo contesto che si consuma il sogno dell'indipendenza del popolo papua. L'anno di svolta è il 1961. Un anno fondamentale per tutto il mondo: secondo lo storico inglese Geoffrey Barraclough si potrebbe considerare l'inizio della Storia Contemporanea. E' l'anno del primo uomo nello spazio, dell'inizio della presidenza Kennedy, ma soprattutto del primo rovesciamento di prospettive storiografiche: il punto di vista sul pianeta non è più esclusivamente quello delle potenze coloniali, e ben presto non sarà più neanche quello fra Est e Ovest, impero americano contro impero sovietico.
Ma la Guerra Fredda nel 1961 si combatte ancora ai quattro angoli del pianeta, perfino nei Mari del Sud. Così, gli olandesi illudono i papuani concedendo loro le prove tecniche di indipendenza, a partire dall'inaugurazione del Concilio della Nuova Guinea, un fantastico esperimento di “democrazia primitiva”: i membri dell'assemblea erano esponenti di tutte le tribù e clan, nominati dalla gente con i criteri tradizionali (non certo con improbabili urne e schede elettorali).
Il 18 novembre 1961viene riconosciuta ufficialmente la bandiera della West Papua (stella bianca in campo rosso e strisce orizzontali bianche e blu, praticamente identica a quella di Cuba) e l'inno nazionale: Hai tanakhu Papua.
Troppo bello per essere vero. Il sogno dell'indipendenza dura poco più di un anno: il tempo necessario alle Nazioni Unite per spalancare le porte agli indonesiani, che arrivano nel maggio del 1963. Sukarno otteneva ciò che aveva fortissimamente voluto, con l'appoggio determinante della diplomazia americana. Sostenere quasi incondizionatamente, in nome dell'anticomunismo, i peggiori macellai sparsi ai quattro angoli del pianeta è una specialità statunitense: la dimostrazione in Indonesia avviene con il massacro indiscriminato di comunisti e simpatizzanti della sinistra in seguito al fallito colpo di stato (attribuito ai settori comunisti dell'esercito) dell'autunno 1965: i morti furono probabilmente 500mila. Per essere più sicuri, i militari guidati dal generale Suharto mandarono in pensione il vecchio boia nel 1967. Ma anche il nuovo aveva vocazioni misticheggianti e stabilì, insieme al dominio incontrastato della sua famiglia e del partito-stato (il Golkar), i cinque principi del sistema di vita nazionali (pancasila), ponendo in cima alla lista la fede in un Essere Supremo.
Negli stessi anni si segnalano le prime ribellioni dei papua, subito represse nel sangue. Il referendum sull'adesione o meno all'Indonesia, stabilito nel 1963 dall'ONU (“Act of free choice”) che si doveva tenere nel 1969 , sotto la segreteria del birmano U Thant, diventò una pagliacciata inscenata dalle autorità indonesiane, che scelsero un migliaio di persone per far votare all'unanimità l'adesione all'Indonesia. Nel 1973 Suharto regalò alla colonia il nome di Irian Jaya. Al popolo papua venne spiegato che l'indipendenza l'avevano già ottenuta il 17 agosto 1945.
Nel frattempo, gli indonesiani avevano distrutto quantità industriali di conchiglie (la moneta locale) per far avanzare l'uso della rupia, avevano proibito di portare con sé archi e fracce, e in alcune aeree avevano perfino introdotto il divieto di indossare la koteka, il cilindro che nasconde il pene, legato al collo o alla vita, che per molti indigeni era in pratica il solo abbigliamento maschile (i testicoli non vengono coperti), per diffondere l'uso degli abiti indonesiani.
Una reazione organizzata militarmente nacque nel 1977, con le prime incursioni firmate OPM, “Organisasi Papua Merdeka” (Organizzazione della Papua libera”). Il nucleo originario era composto da ex militari papua dell'esercito olandese che si riunirono a Manukwari, nella penisola di Bird's Head. Oggi esistono sei gruppi attivi in tutte le province della West Papua.
“Eravamo armati solo di archi e frecce - dice Apumbakar Kenda Wenda, segretario del gruppo numero 6 - a volte riuscivamo a prendere le armi dagli indonesiani”. Sono riusciti poi ad avere qualche fucile mitragliatore dai separatisti dell'isola di Bougainville, ma il loro arsenale resta assai scarso. Tutti quelli del gruppo sono originari della Baliem Valley, o della città di Wamena, nel cuore della West Papua, autentico epicentro della rivolta e teatro delle repressioni più violente. Adesso vivono oltre il confine con la Papua New Guinea, ospiti, insieme a molti rifugiati, dei fratelli di lingua inglese o pidgin che vivono nella parte fortunata dell'isola, quella indipendente influenzata (e sfruttata economicamente) dall'Australia. Conoscono la foresta come le loro tasche, unica vera difesa contro le incursioni dell'esercito indonesiano (prima bombardano, poi fanno arrivare gli elicotteri che mitragliano i villaggi, e infine le squadre speciali per fare terra bruciata).
Ognuno di loro ha una storia drammatica da raccontare. Spesso hanno perso tutta la famiglia, hanno visto cadaveri sventrati, chiese bruciate, persone torturate. Sanno che molti dei loro bambini sono stati gettati in mare dagli aerei o dagli elicotteri indonesiani., secondo una tecnica tristemente nota in Sudamerica.
Da un anno a questa parte, in seguito ad un accordo con il governo del nuovo corso indonesiano del presidente Wahid, le violenze sono quasi finite. Ma solo poche settimane fa la polizia indonesiana ha aperto il fuoco su una folla di manifestanti a Jayapura che aveva “osato” innalzare la bandiera della West Papua (nome che dovrebbe essere riconosciuto ufficialmente). I simboli sono importanti, i papua hanno solo quelli.
L'OPM ha portato la sfida sul piano politico: nessuno vuole continuare la guerra. Però, mentre i papua ripetono in coro “full indipendence”, il console indonesiano di Vanimo, Markus Budi, che ha fama di essere uomo aperto e progressista, ribadisce con sconcertante candore la linea politica ufficiale: una sola Indonesia, forte e compatta, non si accetta nemmeno l'idea di federazione. E intanto si segnalano strani movimenti di truppe in direzione dell'isola.
La lezione di Timor potrebbe essere stata inutile. I militari indonesiani sono dei massacratori in guanti gialli, addestrati, armati e inquadrati (soprattutto le famigerate milizie speciali del Kopassus ) dagli esperti militari americani. Non c'è praticamente corpo di peacekeeping che non veda la bandiera rossa e bianca dell'Indonesia, dalla Cambogia alla Bosnia, il che la dice lunga sugli appoggi diplomatici di cui dispone questa emergente Tigre dell'Asia, la quarta nazione del mondo con oltre 200 milioni di persone.
Ma i timidi, gentilissimi guerriglieri papua sono consapevoli di tutto ciò. Per questo pregano dopo ogni riunione, ogni discorso politico. Sanno che in queste situazioni, la lotta è la lotta della speranza. Sanno di un piccolo popolo oppresso che si liberò dalla schiavitù del Faraone d'Egitto. Un grido inascoltato dagli uomini sale comunque in Cielo. Il grido dei nostri fratelli con la pelle nera e i capelli crespi è: Papua Merdeka ! Cesare Sangalli
La tranquilla determinazione del prof. Giay
Non passa lo straniero
Benni Giay non è un big man , anche se suo padre lo era, anche se insegna all'università di Jayapura. “Non possiedo maiali”, spiega sorridendo. Si fa fotografare in maglietta e ciabatte, del prestigio accademico sembra fregarsene, nonostante la specializzazione fatta negli Stati Uniti.
Insegna storia, antropologia e teologia (è protestante). Chissà se quando torna al suo villaggio nelle Central Highlands, indossa anche lui solo il koteka , l'astuccio per il pene. Benni Giay ha solo 50 anni, ma sembra godere della reputazione di un Grande Vecchio. Il governo indonesiano ha bandito uno dei suoi libri recenti, però finora lo hanno lasciato in pace. E lui tranquillamente esprime le sue idee indipendentiste, con una voce sommessa e uno sguardo che si potrebbe definire “gandhiano”.D- Lei sostiene che l'esigenza di libertà politica è fortemente radicata nel suo popolo. Ma ci può essere un'identità nazionale fra tribù che parlano 250 lingue diverse?
R- E' un'identità che nasce da un'esperienza comune, quella della resistenza al dominio straniero. Prima ancora che arrivassero gli olandesi in questa zona, c'erano sultanati islamici in Indonesia (come quello di Tidore) che cercavano di imporre tributi e che ridussero in schiavitù molti dei nostri antenati. Questa ha rafforzato il senso di rifiuto nei confronti di ogni influenza straniera, percepita quasi sempre come un'aggressione. E' una coscienza che puoi riscontrare in città come nel cuore della foresta, anche in persone prive di qualsiasi istruzione: tutti vivono oggi come un fardello insopportabile la presenza dell'esercito indonesiano. E questo approccio tradizionale si innesta nella coscienza religiosa.
D- In che modo?
R- La religione tribale è un mezzo per esprimere il desiderio di liberazione. I cosiddetti “cargo cults” o “cargo movements” , ne sono un esempio: erano movimenti di salvezza, profetici, millenaristi, e diventavano tanto più intensi quanto più forte era la repressione degli olandesi prima, degli indonesiani poi.
D - Qual è stata l'influenza della evangelizzazione?
R - La prima evangelizzazione seguì la colonizzazione tedesca della costa settentrionale. I primi missionari furono i pastori protestanti Ottow e Geisler, che arrivarono nel 1855. L'impatto fu completamente negativo, perché la gente vedeva i missionari come agenti del sultano indonesiano di Tidore, che, pur essendo musulmano, concedeva una sorta di “licenza” ai missionari cristiani. Questa politica ambigua era gestita dall'Olanda, che usava il sultano come ostacolo all'espansione coloniale tedesca e inglese. Agli olandesi non interessava minimamente la Nuova Guinea: il loro scopo era di proteggere le Molucche, il vero centro nevralgico della situazione in questi mari, allora come oggi. Resta il fatto che per molti decenni i missionari mantennero un atteggiamento di duro confronto con la religione tradizionale. La cristianizzazione avvenne fra mille difficoltà. Fino agli anni Cinquanta, erano forse più i religiosi morti (soprattutto per le malattie) dei convertiti. Ma oggi la religione cristiana aiuta lo spirito di indipendenza. Sia la chiesa cattolica che le varie chiese protestanti sono unite nella difesa dei diritti del popolo papua.
D - Come valuta la situazione politica? Quali sono le prospettive per una West Papua indipendente?
R - Bisogna subito chiarire che gli indonesiani rappresentano un potere neocoloniale. L'esercito è presente in modo massiccio, anche se resta nelle caserme, per cui non si nota molto. L'immigrazione degli indonesiani continua, fa parte della politica nazionale. L'integrazione della gente è solo apparente, in realtà gli indonesiani sono un gruppo totalmente a parte e anche se sono nati qui vengono percepiti come stranieri. Molti di loro sono armati, pronti a reagire violentemente. Ma l'OPM e tutte le altre componenti della società papua cercano una via assolutamente pacifica per affermare il nostro diritto all'autodeterminazione, già riconosciuto dalle Nazioni Unite e umiliato con il finto referendum del '69. Abbiamo fiducia nel cambiamento in corso con il nuovo presidente Wahid. La nostra resistenza, comunque, non finirà mai.
Cesare Sangalli