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Pubblicato su "Avvenimenti" giugno 1997

I segreti della “Firenze del Caucaso”

Gaumargios, Tbilisi

“I georgiani sono seri solo quando brindano”. Forse è questo il loro segreto: tre anni di guerra civile, settanta di comunismo, la mafia che spadroneggia, l'economia paralizzata, non hanno cancellato la straordinaria ospitalità di questa gente. Viaggio in una “società conviviale”


TBILISI- Quaranta volte distrutta e quaranta volte risorta dalle sue ceneri, Tbilisi incarna lo spirito della Georgia, il suo genius loci: una tenerezza a prova di bomba, nel senso letterale del termine, visto che solo quattro anni fa da una parte all'altra di via Rustaveli, la principale arteria della capitale georgiana, si affrontavano le due fazioni in lotta per il potere a colpi di bazooka, i carri armati al posto degli autobus. E' come immaginare una guerra civile in via del Corso a Roma, un partito a Piazza del Popolo, l'altro in Piazza Venezia, il potere dell'uno o dell'altro che avanza metro per metro, il resto della città che aspetta la fine del “match” continuando una vita il più possibile ordinaria. Gli zviadist , i sostenitori di Gamsakhurdia (mediocre poeta megalomane diventato eroe dell'indipendenza con il collasso dell'Unione Sovietica), asserragliati nel grande palazzo governativo costruito dai tedeschi all'inizio del secolo; gli mkhedrioni, i “cavalieri” guidati dal bandito Joseliani e da Kitovani (architetto già condannato per omicidio divenuto comandante della Guardia Nazionale) installati nel grattacielo dell'hotel “Iberia”, attualmente occupato dai profughi di un'altra guerra assurda, quella separatista dell'Abkhazia (la Cecenia georgiana). Vinsero Joseliani e Kitovani, che appoggiarono il ritorno in Georgia di Shevardnadze, il ministro degli esteri di Gorbaciov. Da grandissimo uomo di potere, Shevardnadze iniziò una partita a scacchi con gli alleati-nemici, risolta in tre mosse (arrestati Joseliani prima e Kitovani poi, costretto all'esilio Georgadze, capo dei servizi segreti controllati da Mosca) e conclusa con la sua elezione a presidente della Georgia con voto quasi plebiscitario, esattamente un anno fa.
Tbilisi e i suoi cittadini non hanno comunque perso la loro tradizionale ospitalità, questa tranquilla joie de vivre che si respira ad ogni angolo della città, definita dai russi la “Firenze del Caucaso”.
Il centro storico della città comincia con il quartiere musulmano, Meidan, dominato dalla fortezza costruita dai persiani e protetto alle spalle dall'enorme giardino botanico. Un grappolo di case, bianche, rosa, azzurre, ocra, divide la moschea dalla chiesa armena di San Giorgio: due minoranze a rischio, gomito a gomito ma senza alcun problema; d'altra parte la cristianissima Georgia ha ottimi rapporti con l'Azerbaigian musulmano (un po' meno con l'Armenia ipernazionalista e fedele alleata della Russia). Una piazza tranquilla, Gorgasalis Moedani, rappresenta lo spartiacque fra Tbilisi est e ovest, proprio come la Georgia eternamente sospesa fra Europa e Oriente. Questo era l'ombelico del mondo, qualche secolo fa, per le carovane di cammelli che inseguivano la seta lungo la via Tbilisi-Tabriz-Teheran-Samarcanda: un po' caravanserraglio, un po' centro dell'attività commerciale (il “mercato del diavolo”, per la strage di bambini ordinata dallo scià di Persia Abbas nel V secolo) , crogiolo di lingue ed etnie (ce ne sono ancora oggi circa 80 a Tbilisi, estoni e kurdi compresi), simbolo di una convivenza pacifica molto più ostinata della violenza. Non si fa in tempo a lasciare la moschea e i bagni turchi (Tbilisi è città termale, le sue acque sulfuree sono state raccontate da Alexandre Dumas) che alcuni vecchi ebrei con la kippà in testa invitano a visitare la sinagoga. Molti di loro sono tornati in Israele, ma nella nuova patria muoiono di nostalgia.
I georgiani sono troppo legati alla loro terra: sembra non esserci illusione di benessere capace di strapparli da qui. L'estrema povertà, il caos politico, la guerra non sembrano aver provocato alcun cedimento morale: la prostituzione è pressoché inesistente, le decine di migliaia di profughi provenienti dall'Abkhazia non si sono mai sentiti abbandonati, pochissimi sono i mendicanti. “Eppure stiamo cambiando, non so se reggeremo l'impatto con lo sviluppo capitalistico. L'isolamento ci ha reso sicuramente diversi, siamo un popolo che sta uscendo dall'infanzia, e l'impatto sarà molto duro, vista la nostra arretratezza”: il professor Alexander Rondeli, docente di relazioni internazionali all'università di Tbilisi, sembra già rimpiangere il buon tempo andato (ma non certo il comunismo, vissuto come una iattura dalla stragrande maggioranza dei georgiani), quando la gente poteva davvero dimostrare la proverbiale ospitalità. Intanto il professore paga il nostro conto al bar, lui che guadagna duecento dollari al mese. E' quello che vorrebbero fare tutti, chi non può se ne vergogna. Qualcuno si “allarga” coi beni di Stato (più volte non ci hanno fatto pagare la telefonata dai posti pubblici), altri si accontentano di piccoli gesti; se non ci credete, fate la prova del bicchiere d'acqua: entrate in un cortile a caso, uno dei mille cortili circondato da balconi in legno, verande di vite americana, piccoli porticati coperti da rampicanti, i cortili della vecchia Tbilisi che rifiuta la modernizzazione a costo di cadere a pezzi; fate capire con un gesto che avete sete: se vedete sparire la donna o l'uomo che vi hanno visto è solo perché stanno andando a prendervi un bicchiere. L'acqua del resto è la vita di Tbilisi: acqua calda dalle viscere della terra, acqua medica dalle mille fontanelle sparse per la città, acqua miracolosa che piove dalle pendici del castello di Sachino, dal verdissimo promontorio accanto alla chiesa di Metheki, sorvegliata dal leggendario re Vachtang, fondatore della città. Qui il freddo “sovietico” è sconosciuto; qui non nevica mai; forse è più difficile essere tristi, quando il sole splende e il vento porta il profumo dei pini: ma certo le facce che si incrociano a centinaia nella grande metropolitana (di una profondità sconvolgente, rispetto a Londra, Parigi o Milano) sono visibilmente preoccupate, per non dire angosciate.
L'economia è ferma. La Georgia non produce quasi nulla, a parte i prodotti alimentari, e i turchi stanno facendo affari d'oro esportando di tutto, dalla birra (che pure la Georgia ha sempre prodotto) alle prese elettriche. Il livello dei servizi è penoso, a volte peggiore degli standard africani (le banche, la posta, i trasporti): pochi georgiani sono convinti di poter ricevere regolarmente pacchi e lettere dall'estero. Moltissimi si lamentano del governo corrotto e mafioso, che pure hanno votato per crudo realismo. C'è una grande passione per la politica, i quotidiani si vendono letteralmente come il pane (cioè ad ogni angolo della strada) anche se molti leggono e poi ripongono gentilmente il giornale, ma tutto ciò non significa ancora un'autentica coscienza democratica.
“Il comunismo era una grandiosa messa in scena, che in Georgia assumeva connotati grotteschi ,- spiega Rondeli - nessuno ha mai creduto all'ideologia da queste parti. Non è nel nostro carattere”. Forse è per questo che i georgiani amano visceralmente l'Italia e sembrano fra i pochi stranieri in grado di apprezzare (moltissimo) Totò. L'esperienza sovietica è stata percepita per lo più come una colonizzazione, vissuta comunque nella posizione migliore: la Georgia era tutto un festival di cinema e teatro, continuava a sfornare pittori, musicisti, scrittori (fra cui il padre di Gamsakhurdia, Kostantin, considerato un grande romanziere), architetti e ad ospitare la nomenklatura moscovita in vacanza. No, i georgiani non hanno mai avuto l'ossessione per il lavoro: l'elettricità va e viene, nei condomini non funziona il riscaldamento, ma il Teatro dell'Opera continua a fare il tutto esaurito, e la compagnia di arte drammatica “Rustaveli” a recitare Shakespeare in tutto il mondo. “Il nostro è un mondo paradossale, condannato ad essere estremo - lamenta Giovanni (Ivan) Vapkhadze, pittore- i georgiani sono terribilmente seri quando pronunciano i loro interminabili discorsi per un brindisi, e assolutamente comici quando ci sarebbe da piangere”.
Da sempre l'umorismo è il miglior antidoto contro la depressione. Nei georgiani può diventare feroce ironia, come nell'ultimo film di Otar Josseliani, “Brigands”, una comica, amara parabola sul potere, girato in Georgia pensando alla Georgia. Un paese maltrattato dalla Storia molto al di là dei suoi demeriti.
. La Georgia è stato il primo paese al mondo dove un partito di sinistra moderata è andato al potere con il voto popolare: era il 1918, i menscevichi (socialdemocratici), che avevano radici solidissime nel Caucaso, vinsero nettamente le prime elezioni libere della Georgia, che aveva proclamato l'indipendenza dopo la caduta dello zar. Il sogno democratico durò solo tre anni: il 25 febbraio 1921 la bandiera rossa dei Soviet sventolava sul palazzo di piazza Iberia (poi denominata piazza Lenin e oggi piazza della Libertà), a seguito dell'invasione di undici divisioni dell'Armata Rossa.
Negli anni dell'URSS, il georgiano Stalin non ha mai avuto un occhio di riguardo per i suoi compatrioti; e nella Seconda guerra mondiale il tributo pagato dai “khartveli” (che pure non hanno mai conosciuto l'occupazione nazista) è stato enorme: 300mila morti, un decimo dell'intera popolazione).
Russia e comunismo, due facce dello stesso incubo, per la Georgia. Ma non c'è odio, da queste parti: la minoranza russa non ha mai subito oppressioni come in molte altre repubbliche ex-sovietiche , magari più sviluppate e moderne (Estonia, Lettonia, Lituania).
I giovani continuano a parlare tranquillamente in russo fra loro, e anche se sono scomparse quasi tutte le scritte in cirillico (il georgiano, che non è una lingua slava, ha un proprio alfabeto) il legame culturale e politico con Mosca è ancora molto forte. E le analogie, purtroppo, si sprecano: criminalità organizzata, rigurgiti nostalgici (c'è un partito monarchico che ha il 10 per cento di consensi), governo connivente, Eltsin come Shevardnadze, l'Abkhazia come la Cecenia (anzi peggio, visto che gli abkhazi erano solo un terzo della popolazione, prima della “purificazione etnica”contro i georgiani, una strage di cui quasi non si è parlato).
Ma gli anticorpi morali dei georgiani sembrano molto più forti, grazie alla misteriosa forza della tradizione, il segreto di un'identità cristiana sempre minacciata, sempre vincente. Una consapevolezza orgogliosa ma dolce, che guarda sprezzante all'”homo novus” che si sta creando a Mosca e dintorni. A Tbilisi circolano decine di barzellette sui “nuovi russi”. “Un nuovo russo entra in negozio di arte sacra e resta affascinato da una crocifisso con il Cristo. Decide di acquistarlo, e dice al commerciante: L'oggetto mi piace molto, ma potrebbe per favore farci togliere l'atleta che c'è sopra?”.
Chissà se lo sviluppo capitalistico riuscirà laddove hanno fallito tutti, dai mongoli di Gengis Khan ai comunisti dell'ateismo di Stato. La Georgia si è sempre opposta con l'arma dell'accoglienza, dell'ospitalità, della tenerezza. Nella solennità degli interminabili brindisi, c'è tutto lo spirito di una società conviviale. Gaumargios (cin cin), Tbilisi.

Cesare Sangalli