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Pubblicato su "Galatea" luglio 2006

Luci e ombre del nuovo stato europeo

Montenegro Express

Per qualcuno è solo l'ultima follia balcanica. Per altri una repubblica di trafficanti, guidata dal “boss” Milo Djukanovic. Ma l'indipendenza del Montenegro non è affatto il risultato di uno sciocco nazionalismo. Al contrario: questa piccola nazione montanara sull'Adriatico può sbloccare, paradossalmente, l'integrazione europea dei Balcani

L'autobus che si arrampica sulla strada che da Pec (Kosovo) porta a Podgorica, capitale del Montenegro, sembra uscito da un film di Kusturica. Poltrone sgangherate, lattine di birra lasciate in giro, un caldo soffocante perché le finestre sono sigillate e l'aria condizionata non funziona, c'è solo la botola aperta sul tetto a dare un po' di sollievo. “E' il Balkan Express”, scherzano due ragazzi che studiano a Skopje, in Macedonia, e tornano a casa per votare al referendum.
Ci sono due modi di arrivare in Montenegro: da turisti, via mare, abbagliati dalla bellezza dei fiordi montenegrini; o dall'interno, in mezzo a gente che guadagna 200 euro al mese, e vive isolata sui monti. Il mare e la montagna sono un po' le due anime del paese: quella casinista, trafficona, gaudente, “italiana”, della costa; e quella più arretrata ma orgogliosa, ostinata e gentile dei monti.
In mezzo, Podgorica, piccola e dignitosa capitale sul fiume Moracia, che porta ancora chiaro il suo imprinting jugoslavo con qualche tocco di modernità, diciamo con qualche ambizione. Invasa dai corrispondenti di mezzo mondo (si fa per dire), Podgorica mantiene tutto sommato l'aplomb dell'ufficialità, l'austerità notarile impersonata dallo slovacco Lipcka, l'uomo che presiede il referendum e avalla il passaggio storico dell'indipendenza: lo strano quorum imposto da Javier Solana è stato raggiunto, seppure di poco (55,4 per cento), il Montenegro è a tutti gli effetti uno stato sovrano e la festa può cominciare. In realtà, le macchine con le bandiere rosse e l'aquila d'oro avevano già iniziato i loro caroselli senza aspettare i dati ufficiali, con qualche momento di tensione con il gruppo di sostenitori del “no”, che ad un certo punto si lanciano nell'urlo “Srbija, Srbija”, perché i veri nazionalisti sono loro.
Ma la festa autentica del Montenegro indipendente è a Cetinje, e qui lo sanno tutti. Bisogna di nuovo salire sui monti per trovare il cuore storico della nazione, la sua capitale morale. Cetinje è un' affascinante cittadina che sembra vivere un suo splendido isolamento, come fosse custode di un'antica saggezza lontana dagli spettri del Novecento. Qui c'è la residenza della dinastia reale del Montenegro, i Petrovic, qui c'è l'orgoglio dell' antichissima tradizione di indipendenza del Montenegro, ma senza brividi nostalgici o reazionari, come quelli che hanno attraversato la Serbia, senza tentazioni aggressive, per quanto i re montenegrini siano stati i condottieri e le guide spirituali di un popolo guerriero (e sappiamo quanto queste mitologie abbiano funestato la ex Jugoslavia).
Il Montenegro, come e più della Serbia, era terra di confine. Di qui passava la divisione fra Oriente e Occidente, quando Roma si separò da Bisanzio, e quando i cristiani si divisero fra cattolici e ortodossi. Una frattura che sembrerebbe destinata a non saldarsi mai. Il Montenegro, come e più della Serbia, restò successivamente l'avamposto della cristianità (qualcuno direbbe dell'Europa) sottomessa o minacciata dall'Impero Ottomano, dai sultani di Istanbul. Arroccato sulle montagne come un nido di aquile, il minuscolo regno dei re-vescovi montenegrini attraversò i secoli con alterne fortune, piccolo cuneo slavo fra l'espansionismo asburgico a nord e quello turco a sud.
E' la storia che ha fatto dei Balcani un sinonimo di instabilità, tensione, conflitto permanente. E' la storia che ha mescolato in queste terre etnie, religioni, culture. Una storia che si faceva solo e sempre attraverso le guerre, e attraverso i trattati diplomatici. Il Montenegro “moderno” nasce alla conferenza di Berlino del 1878 e finisce, tragicamente, con la Grande Guerra del 1914-18. Questo è il periodo vissuto dall'ultimo re del Montenegro, Nicola, chiamato “il suocero d'Europa”. Re Nicola conduce il suo regno attraverso tutta la “Belle Epoque” fra i tamburi di guerra delle infinite guerre balcaniche e i violini dei valzer viennesi nelle corti europee.
Ha dodici figli: tre maschi, piuttosto insignificanti, e nove femmine di sicuro fascino. Fra inchini e brindisi, tesse la sua diplomazia familiare, unendo in matrimonio sette figlie ad altrettanti rampolli delle più importanti dinastie reali europee, dagli Asburgo ai Romanoff di Russia. La più bella e intelligente delle figlie, Jelena, va in sposa al piccolo e meschino erede Savoia, Vittorio Emanuele III, che accanto a lei, la regina Elena, fa la figura del principe consorte.
Tutta questa diplomazia matrimoniale si rivela inutile quando le grandi potenze europee arrivano allo scontro finale, all'”inutile strage” del 1914-18 denunciata dal papa di allora, Benedetto XV. I due grandi imperi, austro-ungarico e ottomano, che incombono su Serbia e Montenegro, stavolta sono alleati. La sconfitta porterà entrambi alla dissoluzione, mettendo fine ad una storia secolare e lasciando conseguenze che si protraggono fino ad oggi.
L'esercito montenegrino si massacra contro gli austriaci, coprendo gli alleati serbi: Cetinje viene occupata dagli asburgici, re Nicola si rifugia all'estero. Non tornerà mai più nel suo paese, e finirà i suoi giorni in un'anonima povertà, abbandonato da tutti i potenti che lo avevano sostenuto. Ironia della sorte, a sfilargli la corona del Montenegro e il titolo di re di tutti gli slavi del sud (gli jugo-slavi), a cui lui ambiva, è un suo nipote, Alessandro Karageorgevic. Alla fine della guerra, Alessandro ottiene in modo semitruffaldino l'annessione del Montenegro alla Serbia e si proclama re del nuovo “Regno di Serbi, Croati e Sloveni” che qualche anno dopo ribattezzerà Jugoslavia.
Re Alessandro convinse, con una buona dose di inganno, i notabili montenegrini riuniti nella famigerata Assemblea di Podgorica a votare per l'esilio del re Nicola e l'unione con la Serbia. La sua Jugoslavia era un regime reazionario, e la fedeltà dei montenegrini venne ottenuta con la violenza dei “cetnici”, le milizie serbe devotissime al re. Ma per la storiografia ufficiale, serbi e montenegrini sono sempre stati popoli fratelli, tanto nella “prima Jugoslavia”, come si dice da queste parti, che nella seconda, quella fondata da Tito. In questa versione si opta solo per la parte buona, quel sentimento di “unità e fratellanza” che era lo slogan della Jugoslavia federale e socialista, e che è sicuramente esistito (anzi, per molti esiste ancora, e non solo fra serbi e montenegrini). Ma le pagine oscure della guerra civile jugoslava, che si scatenò dopo la liberazione dai tedeschi, alla fine del 1943, sono state rimosse.
Per sua fortuna, il Montenegro non instaurò un regime collaborazionista come accadde per la Croazia di Ante Pavelic, una belva assetata di sangue, con i suoi famigerati “ustascia” che cercarono il genocidio di serbi, ebrei, rom e altre minoranze. Il Montenegro era occupato dagli italiani, che provarono a resuscitare un regno fantoccio, ma l'esperimento durò pochi giorni Uno dei figli di re Nicola, proprio per il suo rifiuto di diventare una marionetta nelle mani dei nazifascisti, finì in un campo di concentramento in Germania.
Così, il Montenegro cancellato nel 1918 ricompare come una delle sei repubbliche che compongono la federazione jugoslava nella costituzione del 1946. E non ci si sbaglia di certo nell'affermare che, dei sei stati federali, il Montenegro è il più legato alla Serbia.
E' un legame quasi naturale: i montanari montenegrini vanno a studiare a Belgrado (e spesso si fermano lì), i belgradesi vanno al mare in Montenegro, chi può ci si fa la casa per le vacanze.
L'ondata di nazionalismo che cresce negli anni Ottanta in quasi tutte le repubbliche della Jugoslavia, a partire dalla Serbia, coinvolge anche il Montenegro. Oggi si cerca di minimizzare la follia collettiva di quel periodo buio, prima e durante la guerra, ma ci sono fatti che non si possono ignorare. Per esempio, il fatto che il numero dei volontari montenegrini al fronte era il più alto (in rapporto alla popolazione) di ogni altra repubblica jugoslava. O che Milo Djukanovic, che oggi si atteggia a padre della patria, era negli anni Ottanta un giovane dirigente del partito comunista, brillante e ambizioso, nonché sostenitore di Milosevic.
“Per capire quel periodo bisogna sempre tenere presente che il regime esercitava un controllo assoluto sui media”, spiega Denica Nikolic, giornalista di “Pink TV”. La realtà veniva continuamente distorta, mistificata, e in un paese arretrato come il Montenegro questa influenza nefasta era indubbiamente più forte. D'altra parte, neanche nel resto d'Europa si è capito che cosa stava succedendo in Jugoslavia, tanto che, posti di fronte alla diabolica complessità della situazione, molti liquidavano l'intera faccenda come frutto di atavici istinti balcanici all'odio e alla violenza, e ancora oggi è possibile sentire questa assurda spiegazione “antropologica” anche da queste parti.
Nel 1990 l'introduzione multipartitismo apparentemente mette fine al monopolio politico del partito comunista, e dà il via ai vari separatismi. Il Montenegro in quella fase opta per una linea filoserba (cioè pro-Milosevic); ma le varie componenti etniche presenti da sempre sul suo territorio non entreranno mai veramente in conflitto fra loro. Questo non significa affatto che “Djukanovic è riuscito a tenere il Montenegro al riparo dalla guerra”, cosa che ogni tanto si sente dire. A bombardare la vicina Dubrovnik, per esempio, sono essenzialmente i montenegrini (che negli scontri susseguenti avranno circa 200 morti).
Djukanovic, che a 28 anni è già capo del governo, cavalca l'onda nazionalista finché gli conviene. E gli conviene soprattutto in termini di business, come a tutti gli altri leader jugoslavi implicati nella guerra, perché il Montenegro diventa rapidamente un formidabile centro per il mercato nero, un crocevia di affari colossali per tutto il periodo del conflitto e delle sanzioni internazionali.
In quegli anni maledetti, ci sono solo gli intellettuali raggruppati nel partito liberale di Zlavko Perovic ad opporsi strenuamente alla guerra e alla scellerata alleanza con il regime di Milosevic. L'idea dell'indipendenza del Montenegro nasce da loro, gli stessi che invitano apertamente i giovani a disertare la chiamata alla armi, e che devono subire tutti i tipi di insulti (chi è contro la guerra è automaticamente un “ustascia”), di minacce, di oppressioni. Sono, purtroppo, una minoranza, anche se consistente. La loro roccaforte è proprio l'antica Cetinje, dove hanno un consenso plebiscitario. Sono sostenuti anche dalle minoranze etniche, a partire dagli albanesi, spaventati dai deliri nazionalisti della “Grande Serbia”.
I liberali sono all'opposizione. Al governo ci sono i comunisti, rimasti tranquillamente al potere dopo che hanno cambiato nome e operato una riforma di facciata, chiamata pomposamente “rivoluzione antiburocratica”: quanto basta per rimpiazzare la vecchia nomenklatura con le nuove leve, guidate dall'ineffabile Djukanovic. Riescono, manipolando il consenso dei montenegrini, a far prevalere nettamente il “sì”all'unione con la Serbia nel referendum del '92 (che molti qui ritengono una mezza farsa). Il Montenegro va avanti ignorando buona parte delle atrocità della guerra, che finisce, per esaurimento, nel dicembre 1995.
“La gente non ha imparato quasi niente dalla guerra” dicono sconsolati i giovani di un'associazione per il dialogo fra le culture. E aggiungono: “Ancora oggi molte persone non hanno capito cosa è accaduto, e pochissimi sanno che anche in Montenegro ci sono stati casi di pulizia etnica, vicino al confine con la Bosnia”. Forse è per questo che capita di vedere in bella mostra, in alcune edicole, la biografia di Ratko Mladic, il boia di Srebrenica, criminale di guerra ricercato dal Tribunale dell'Aja.
Fatto sta che quello che non era chiaro alla gente, era invece evidente a Djukanovic, che certo non può vantare un alto profilo morale, ma è sicuramente dotato di grande talento politico. Djukanovic capisce infatti con largo anticipo che occorre tagliare i ponti con Milosevic, ora che la guerra è finita. Da vero duro, riesce a epurare la polizia e l'esercito, circondandosi di fedelissimi e neutralizzando la presenza militare della Serbia, anche se ufficialmente resta un alleato di Belgrado. E' grazie alla sua abilità diplomatica e alla sua spregiudicatezza che il Montenegro conquista progressivamente un'indipendenza di fatto, e riesce ad evitare il tremendo tributo di sangue che il vicino Kosovo sta per pagare. Pur considerando l'oggettiva differenza di base delle due situazioni, si può dire che il “figlio di buona donna” Djukanovic riesce laddove il buon Rugosa, con la sua politica della non violenza, fallisce miseramente. Purtroppo in quegli anni la politica nei Balcani è solo gioco di forza, dietro l'ipocrisia diplomatica di tutti i soggetti coinvolti.
La svolta definitiva avviene in due tappe, 1997 e 1999. Nel '97 Djukanovic vince le elezioni, scippando l'idea dell'indipendenza al povero Zlavko Perovic, che, pur di sconfiggerlo (visto che lo considera un boss mafioso), ha accettato un'alleanza con i partiti filoserbi, rimediando un misero nove per cento. I montenegrini in qualche modo hanno deciso che Djukanovic è l'uomo giusto per tirarli fuori dai guai. Non si sbagliano.
Quando arrivano i bombardamenti NATO del 1999, ufficialmente causati dalla crisi nel Kosovo, il Montenegro viene sostanzialmente risparmiato, e la gente comincia a pensare che è arrivato il momento di mandare Milosevic e la Serbia al diavolo.
A fine anno il Montenegro adotta il marco tedesco come valuta, per passare all'euro tre anni dopo. L'adozione di una valuta diversa dal dinaro serbo rende ancora più surreale il passaggio dallo stato che continuava ostinatamente a chiamarsi “Jugoslavia” alla nuova “Unione di Serbia e Montenegro”. Una vera assurdità istituzionale messa in piedi con il solerte contributo di Javier Solana, che farebbe meglio a cambiare mestiere. Serbia e Montenegro erano come due separati in casa; il Montenegro viveva un'indipendenza di fatto, ma in compenso si mantenevano strutture burocratiche prive di significato, fino alla situazione comica per cui ancora adesso ci sono in Montenegro doppioni di tutto, perfino dei vigili del fuoco (un corpo nazionale e uno “federale”, che chiaramente sparirà).
No, l'unione fra Serbia e Montenegro non aveva più alcun senso. Da un lato, un “gigante” di dieci milioni di abitanti, con una classe dirigente che non riesce a chiudere con l'imbarazzante passato nazionalista; dall'altro, un piccolo paese misto di nemmeno 700mila abitanti, che si è lasciato alle spalle il fardello degli anni di guerra per poter entrare il prima possibile in Europa. Certo, il fatto che a guidare il Montenegro indipendente ci sia un uomo inquisito dalla Procura di Bari per traffico internazionale e associazione mafiosa, sembrerebbe avallare l'immagine del Montenegro “repubblica dei trafficanti”, o addirittura “Colombia sull'Adriatico”. Ma questa immagine è profondamente ingiusta nei confronti del popolo montenegrino e della scelta che ha fatto. L'indipendenza del Montenegro è probabilmente la più “europea” rispetto ad ogni altra repubblica della ex Jugoslavia, perché è una scelta politica e non etnica: i montenegrini di origine sono solo il 40 per cento della popolazione. Non è un caso che albanesi, bosniaci, rom e altre minoranze abbiano votato compatti per l'indipendenza. Il Montenegro non è e non sarà la nazione degli slavi o di quelli di religione ortodossa: gli estremisti di destra stavano tutti nella coalizione del “no”. E il fatto che non ci sia stato nessun incidente, e che la correttezza e trasparenza del voto siano stati esemplari, è assai più importante dei problemi di criminalità organizzata del paese, che oltretutto non sono certo un'esclusiva montenegrina (soprattutto visto dall'Italia). Quasi tutti sanno che l'idea dell'indipendenza è nata dall'ala autenticamente liberale, pacifista e filoeuropea fin dall'inizio, per scelta e non per convenienza. Sono in tanti ad essere stanchi di Djukanovic, percepito soprattutto come male minore, scelta necessaria in un periodo difficilissimo. Per questo qualcuno s aspetta addirittura che il carismatico Milo, che viaggia sempre circondato da un codazzo impressionante di “gorilla”, ora che è entrato nella storia (e ha fatto un sacco di soldi), potrebbe anche ritirarsi dalla vita politica. Forse è una previsione ottimistica. Ma tutti sono d'accordo nel dire che finalmente si potrà parlare dei problemi veri del paese, ora che non c'è più l'alibi della Serbia, ora che il grande passo è stato fatto. Il dibattito, in vista delle elezioni di ottobre, non sarà più assorbito dalla disputa sulla sovranità nazionale, ma dovrà riguardare la corruzione, la povertà, lo sviluppo, la lotta al crimine organizzato. Nessuno vuole confini e barriere con la Serbia, visto che tutti hanno amici e parenti a Belgrado, e visto che tutti, serbi in primis, sono stanchi dell'isolamento in cui hanno vissuto per anni, stanchi di visti, ispezioni doganali, limiti alla libertà di movimento, di fatto già quasi inesistenti tanto con la Croazia che con la Bosnia.
Scegliendo l'indipendenza, i montenegrini hanno indirettamente aiutato anche i leader serbi, così stupidamente imbarazzati e renitenti ad accettare il nuovo stato. Si renderanno conto una volta di più di quanto tempo ed energie hanno già perso inseguendo una grandeur che non ha più nessun senso. A volte ci si può separare per unirsi meglio, come già ampiamente dimostrato da Slovacchia e Repubblica Ceca. A volte per andare avanti occorre fare un passo indietro. Nella vecchia e tranquilla Cetinje, piccolo rifugio montanaro della speranza, sembrano averlo sempre saputo.

Cesare Sangalli