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Pubblicato su "Galatea" marzo 1999

Il conflitto perenne fra arabi e africani nello stato più grande del Continente Nero
Sudan, la palude del mondo

Una guerra dimenticata, che dura praticamente da quasi mezzo secolo. Il regime islamico di Khartoum sogna la pulizia etnica degli “schiavi” neri del sud, per avere la terra e il petrolio. La lotta per la libertà dei ribelli sudanesi è diventata ormai una guerra su commissione pagata dagli USA. E tutti speculano sulla fame della gente

I sacchi pieni di mais targati “WFP” (World Food Program) riempiono quasi tutta la pancia dell'aereo. Missione umanitaria. La mammella distratta della comunità internazionale si china a nutrire i suoi figli più abbandonati, che aspettano per ore sotto il sole l'aiuto calato dall'alto. Dietro la polvere alzata dalle eliche, centinaia di sguardi fissi valutano il nuovo appuntamento con la provvidenza. Sono giovani soldati in ciabatte, sono donne filiformi, grandi mani, grandi piedi, sono bambini curiosi e spaventati. Questo posto si chiama Akot, una pista di atterraggio e qualche capanna nel grande vuoto del Sudan meridionale. Qualche bianco arriva, qualcuno parte. Tutti passano da Lokichoggio, in Kenya, l'ultimo avamposto di modernità prima di entrare “dentro” (come sono abituati a dire cooperanti, volontari e missionari). Niente più docce, niente più lavandini, né corrente elettrica, né birre ghiacciate o sigarette americane. Fine della normalità all'occidentale, magari in versione africana, ma con banche, automobili, uffici, polizia. “Dentro” non c'è niente, e spesso sembra che non ci sia nessuno. Solo chilometri e chilometri di boscaglia attraversati da ipotesi di strade, che diventano fango per otto mesi all'anno.

Perfino la guerra, l'unica cosa certa nel Sudan meridionale, si lascia solo intuire. La vedi nelle quattro case devastate di Rumbek, nella sua chiesa a cielo aperto distrutta dalle truppe arabe di Khartoum. I governativi erano qui fino al luglio '97 e restano (accerchiati) a Wau e a Juba, sinonimi di città martoriate, di assedi interminabili. Rumbek, centro strategico del nulla, è un pugno di capanne e qualche edificio fatiscente occupato dagli uomini della Sudan People Liberation Army, la SPLA di John Garang, che dal 1983 combatte questa guerra dei poveri contro l'oppressore islamico.

“La nostra non è una guerra di religione - chiarisce Paul Mayom, 45 anni, dirigente SPLA - è semplicemente la lotta per l'autodeterminazione di un popolo discriminato da sempre, un popolo africano che non vuole diventare né arabo né musulmano”. Il Sudan moderno è l'ennesimo mostro creato dal colonialismo: due nazioni completamente diverse che si sono trovate a far parte di un unico stato al momento dell'indipendenza dagli inglesi e dagli egiziani (1956). Gli arabi del nord, più sviluppati, a comandare; i neri del sud (in realtà una babele di etnie, 652 lingue diverse, un'autentica miniera antropologica sparpagliata su un territorio immenso) a servire.

Il primo generale golpista, Ibrahim Abou, dal 1958 cerca di utilizzare la religione islamica come elemento di unificazione nazionale: nel sud il giorno festivo diventa il venerdì invece della domenica, i missionari cristiani cominciano a essere mandati via (fino alla totale espulsione nel 1964), si costruiscono scuole coraniche dappertutto, vengono migliorate le vie di comunicazione (perfino su rotaia: c'era un treno che in cinque giorni portava da Khartoum a Wau, la linea esiste ancora, anche se è quasi sempre interrotta). Ma la gente del sud è considerata alla stregua di manovalanza o servitù “infedele” da convertire, in molti casi i neri (soprattutto dell'etnia dinka) vengono addirittura ridotti in schiavitù.

Fin dall'indipendenza gruppi di guerriglieri (chiamati anyanya) si battono contro lo strapotere dei sudanesi del nord. Nel 1972, sotto la dittatura del generale Nimeri, viene firmato un accordo ad Addis Abeba: il Sudan meridionale ottiene una larga autonomia, Juba diventa la sede di un parlamento regionale. Nimeri è uno dei migliori alleati del presidente egiziano Sadat, la sua politica è sicuramente filoamericana: ma gli accordi di Addis Abeba non saranno mai applicati veramente, e intanto nel paese cresce il fondamentalismo islamico guidato dal leader carismatico Hassan al Turabi.

Nimeri crede di poter cavalcare la tigre fondamentalista, e si scava la fossa.

Il 1983 è l'anno di svolta: a maggio, la nuova generazione di guerriglieri del sud (chiamati “anyanya 2 ”) si organizza in un vero e proprio esercito, la SPLA. Sono in maggioranza studenti, insegnanti, giovani frustrati, ex funzionari con idee vicine al marxismo-leninismo. La loro lotta è soprattutto la lotta degli esclusi, dei cittadini di serie B. A guidarli è un ufficiale, John Garang, che si è formato nelle scuole militari americane. Il loro sponsor è Menghistu, lo spietato dittatore comunista dell'Etiopia, l'uomo che aveva trasformato il medievale impero di Hailé Selassié in una triste imitazione africana dell'Unione Sovietica. Le basi della SPLA sono in Etiopia, i quadri vengono mandati a formarsi a Cuba e persino in Cina.

A radicalizzare il conflitto ci pensa poi Nimeri, decidendo l'applicazione della legge islamica, la sharia (settembre 1983). La guerra assume i connotati fondamentali che non cambieranno più: da una parte un regime islamico (ancora più rigido dopo il colpo di stato di Omar al Bashir nel 1989) che usa la religione come strumento di potere, dall'altra un esercito che rifiuta di sottostare ad una dittatura politica, culturale e religiosa.

Dal 1983 la tragedia sudanese assume proporzione bibliche. Non c'è flagello che non si abbatta sulla popolazione civile: alla guerra e alla povertà endemica si aggiungono alluvioni, siccità, carestie, epidemie e addirittura un'invasione di cavallette. La popolazione è stremata, la guerra si trascina senza vincitori né vinti, cambiano solo gli alleati: il regime islamico di Khartoum trova la solidarietà dell'Iran e (in parte) della Libia, trasformandosi in un “santuario” del terrorismo internazionale; la SPLA diventa lo strumento degli Stati Uniti per combattere il Sudan, entrato a pieno titolo nella “lista nera” dei paesi nemici di Washington.

“Da quando sono arrivato in Sudan, nel 1981, ho visto le cose andare di male in peggio - sostiene mons. Cesare Mazzolari, vescovo di Rumbek residente a Nairobi - il dialogo con gli islamici di Khartoum è impossibile. John Garang è diventato un dittatore assoluto, non c'è più nessuna tensione ideale, i militari si arricchiscono con gli aiuti umanitari, mentre la comunità internazionale (la Francia più di ogni altro paese) si preoccupa soprattutto dei giacimenti petroliferi nella zona di Bentiu”.

Il vescovo di Rumbek e i suoi missionari (quasi tutti comboniani) si sentono accerchiati: da una parte il fanatismo islamico che minaccia la minoranza cristiana del nord e opprime il sud; dall'altra i militari sempre più corrotti e prepotenti della SPLA e delle altre fazioni ribelli. Se parlano, rischiano l'espulsione o la prigione. Se tacciono, rischiano di farsi complici di un sistema perverso.
Perché la fame in Sudan è diventata uno strumento di lotta e di ricatto, la tragedia di un popolo si è trasformata in business. Non è la prima volta che succede, e molti sostengono che non ci sono alternative: l'Operation Lifeline Sudan (OLS), la più grande missione umanitaria nel continente, ha salvato indubbiamente centinaia di migliaia di persone e continua a farlo. Ma nessuno può negare che la “solidarietà internazionale” venga usata per prolungare l'agonia sudanese all'infinito.
E' un triste schema ormai consolidato in Africa: una situazione politica ed economica vergognosa crea i presupposti per la guerra; la guerra ricade soprattutto sulla popolazione civile, costretta a fuggire, impossibilitata a coltivare, abbandonata alla fame e alle malattie. I mass media intervengono solo in questa fase, nell'emergenza, fornendo al cittadino occidentale immagini che parlano di una drammatica fatalità, quasi una calamità naturale. Scatta la solidarietà internazionale, che paga soprattutto chi la fa (pensate solo ai guadagni delle compagnie aeree private che gestiscono l'interminabile ponte aereo per il Sudan) e ingrassa i “signori della guerra” (che non a caso tendono a moltiplicarsi, perdendo di vista qualsiasi strategia che non sia l'interesse personale). E mentre decine di agenzie delle Nazioni Unite, ONG, associazioni varie, lavorano sovrapponendosi, disperdendosi in centinaia di microprogetti sporadici e qualche volta facendosi addirittura concorrenza, i governi e gli imprenditori degli stessi paesi “donatori” cercano di accaparrarsi gli affari migliori anche a costo di venire a patti con il diavolo in persona (e i diplomatici chiamano questa squallida politica “protezione degli interessi nazionali “).
Così, mentre l'Italia assume l'iniziativa diplomatica per la pace nel Sudan, la Dalmine cerca di vendere turbine al governo di Khartoum; mentre il Canada si impegna generosamente negli aiuti umanitari, una compagnia canadese, la Talisman, si occupa di cercare il petrolio con cui il governo islamico continuerà a finanziare la guerra. Ma queste notizie non verranno mai lette in nessun telegiornale del mondo. Se proprio va bene, si parlerà ancora e sempre di fame (solo in presenza di morti sopra le decine di migliaia, altrimenti “non c'è notizia”), con le stesse immagini delle stesse mamme avvizzite, degli stessi bambini scheletrici.
“E' incredibile come siano diversi i tempi della comunità internazionale - spiega Giovanni Tonucci, nunzio apostolico a Nairobi - Prendiamo il caso dello Zaire: le prime missioni commerciali, che poi erano missioni diplomatiche, sono partite appena Kabila ha conquistato le prime città. Non era ancora a metà della sua conquista e già le compagnie minerarie europee compravano le azioni delle miniere d'oro”. La lentezza della diplomazia ufficiale è, invece, esasperante.
La posizione della SPLA è bloccata da più di dieci anni su un'unica richiesta : la sospensione della legge islamica e la creazione di uno stato laico, un Sudan unito ma libero, tollerante e democratico. Viene in mente uno slogan degli anni Settanta: “siate realisti, chiedete l'impossibile”. E' chiaro che su questo terreno non ci può essere un'intesa, perché il regime islamico di Omar al Bashir e Hassan al Turabi non ha una grande propensione al suicidio politico. Mentre potrebbe accettare, sia pure cercando di tenersi le regioni del petrolio, un secessione del sud. “Nei colloqui di pace dello scorso anno, il governo di Khartoum per la prima volta ha accennato alla possibilità di un referendum popolare sull'unità del Sudan” dice l'ambasciatore italiano a Nairobi, Alberto Balboni. Ma l'ultimo round delle trattative, a Roma, si è concluso con l'ennesimo nulla di fatto. Unico risultato positivo è il prolungamento del cessate il fuoco “per garantire le azioni umanitarie”.
I famosi sforzi della comunità internazionale: l'ONU delega la faccenda all'IGAD, gruppo di stati africani dell'area, che a sua volta delega la questione a quattro paesi (Kenya, Etiopia, Eritrea e Uganda) di cui due sono in conflitto aperto fra loro (Etiopia ed Eritrea) e tre (Etiopia, Eritrea e Uganda ) hanno relazioni ai limiti del conflitto con il Sudan. Praticamente tutti contro tutti, mentre il sud ribelle si sta sfaldando in tante fazioni diverse, ognuna con il suo piccolo despota, che cominciano a combattersi fra loro. I signori della guerra più ricchi, come John Garang o Kerubino Bol, cercano di eliminarsi reciprocamente a Nairobi, dove vivono nelle loro ville lontani dalle miserie del sud Sudan. “Dentro”, sul territorio, i loro scagnozzi più o meno fedeli, più o meno onesti gestiscono pressoché indisturbati la gestione degli aiuti.
I silenzi e le ipocrisie sul Sudan arrivano a tal punto che ci sono organizzazioni americane, come “Love in action”, che via Internet descrivono la guerra come una crociata contro il nuovo “Impero del male” (l'Islam): “...La bandiera cristiana si vede dovunque, e molte divisioni della SPLA marciano sotto quell'insegna, anche negli attacchi! Molti soldati portano con sé la Bibbia, costruiscono chiese al fronte, e passano molto tempo pregando”. Di tutte le sciocchezze, questa è la più vergognosa: qui la religione non c'entra per niente.
Nelle paludi sudanesi, dove non esiste niente che possa assomigliare vagamente ad uno stato, vige semplicemente la legge del più forte. I soldati “cristiani” scaricano la propria frustrazione sulla popolazione, chi non fa parte delle famiglie o dei clan degli ufficiali (ma forse sarebbe più onesto chiamarli “boss”) rischia di non accedere agli aiuti o deve comunque accontentarsi delle briciole. Tanto non c'è praticamente nessuno a controllare, a parte qualche stoico missionario che ogni tanto cerca di fare sentire la voce dei più deboli.
“A volte ho l'impressione che anche noi sacerdoti stiamo perdendo il senso della nostra presenza. Abbiamo mille mansioni, dalla catechesi alle scuole, e ora anche gli aiuti umanitari: rischiamo di vivere una quotidianità sempre più ottusa. Cosa raccontiamo ai nostri studenti, se ci interrogano sul loro futuro? Che non c'è nessuna alternativa a questo schifo?” Padre Michele Stragapede è un giovane sacerdote “prestato” alla missione di Agangrial. Viene dalle realtà difficili del sud italiano e soffre chiaramente per la totale assenza di prospettive. “Qualsiasi attività che faccia opera di vera coscientizzazione, che abbia cioè risvolti anche solo vagamente politici, viene soffocata sul nascere. D'accordo, siamo vicini alla gente che soffre, ma io non sono convinto che questo sia il modo migliore. Forse sarebbe meglio farsi cacciare, piuttosto che assistere muti e impotenti a questa tragedia...”

Alternativa tremenda, scelta drammatica fra opzioni comunque negative. E' questa la sensazione opprimente del Sudan del sud: la perdita della Storia, del Tempo: oggi è uguale a ieri, domani sarà uguale a oggi. La razionalità di chi cerca di capire, per poter fare qualcosa, si lascia piano piano avvolgere da una concezione tragica e rassegnata dell'Africa. E' tutto così estremo, così assurdo, così radicalmente diverso dal nostro mondo, che si fatica a non perdersi completamente, perché la mente viene sopraffatta dalle viscere.

Persone che dovrebbero essere disperate, entrano in chiesa ballando e cantando. I soldati in ciabatte con grotteschi cappellini da carrista e divise tragicomiche si fanno fotografare a bordo di un carro armato russo conquistato al nemico, uno di loro consegna sorridendo il suo mitra ad un prete tanzaniano per la foto ricordo. A Mapourdit, fra donne scheletriche, lebbrosi che salutano con i loro moncherini, vecchi ciechi portati a spasso da ragazzini con una canna, capita di vedere un film di Truffaut (“I quattrocento colpi”) sotto un cielo che sembra dipinto da Magritte. La domenica pomeriggio, in un villaggio deserto, nel silenzio totale, una radio trasmette “Tutto il calcio minuto per minuto”. Surreale, assolutamente surreale. “Dentro”, le parole non bastano più. Le idee, i concetti, le decisioni affondano lentamente nel vuoto. Dal sud Sudan, dalla melma del mondo, si alza una silenziosa, smisurata preghiera.

Cesare Sangalli