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Pubblicato su "Galatea" ottobre 2007

Le sirene del capitalismo non incantano più

Lettonia, è qui la festa?

La più alta crescita fra tutti i paesi europei. Una magnifica capitale, Riga, che promette ogni tipo di soddisfazione ai turisti. Un sistema bancario efficiente e discreto, che ricicla denaro in continuazione. Il trionfo del libero mercato. Ma dietro l'apparente euforia lettone, si nasconde una realtà deprimente

“Adesso si vede la differenza fra i ricchi e i poveri: è quello che chiamano democrazia”. L'affermazione arriva sferzante come una frustata, anche perché viene da una giovane insegnante lettone, Elena Gridina, 27 anni, del corso di italiano alla facoltà di Lingue straniere di Riga. E suona ancora più dura, dopo qualche giorno passato nello splendido centro di questa grande capitale europea, a fronte della quale le altre capitali baltiche, Tallin e Vilnius, sembrano simpatiche città di provincia.
Riga. Praticamente una città-stato, perché quasi metà dei lettoni (un milione circa su due milioni e 300mila della popolazione totale) vive qui. Il resto del paese è campagna e boschi. Riga ha la magnificenza e l'eleganza di un'antica città del Nord Europa (appesantita in periferia da mezzo secolo di regime sovietico), e la frenesia notturna di una moderna Babilonia. Sulla guida gratuita “Riga this week”, si contano 18 pubblicità fra locali con spogliarelli e lap-dance, massaggi a chiaro sfondo erotico, call center per accompagnatrici nelle gioie della città. Poi ci sono i divertimenti vari, che vanno dal go-kart ai poligoni di tiro, dalla guerra simulata con pallottole di vernice alle classiche discoteche, e poi pub, ristoranti, night club.
Riga promette di tutto, e non in un clima caotico e pacchiano, ma nell'atmosfera rilassata di una città che, prima ancora di essere lettone o russa, era tedesca, porto di mare della Lega Anseatica, residenza dei baroni baltici, i grandi latifondisti germanici che discendevano dai temibili cavalieri teutonici. Insomma, almeno in apparenza, Riga è il meglio del meglio. Basta pagare. Ci sono banche e cambiavalute dappertutto. In fin dei conti, per gli inglesi (in maggioranza) e gli italiani (un po' meno) che arrivano qui, i prezzi sono quelli che pagherebbero anche a casa, e un volo low cost è alla portata di quasi tutti. La Babilonia lettone, poi, è così elegante che allevia gli eventuali sensi di colpa.
Ma per una come Elena, o per qualsiasi insegnante lettone, gente che guadagna al massimo 300 euro al mese, il Paese dei Balocchi è un miraggio beffardo. Un po'come si è rivelata l'indipendenza, o l'ingresso nell'Unione Europea, per non dire della famosa democrazia. Perfino in un paese così piccolo, dove i leader politici si possono incontrare normalmente per strada, la gente ha l'impressione di non contare nulla. “E' l'economia, baby”, risponderebbero quelli che ce l'hanno fatta, tutti concentrati nel cuore antico della città, dove si vedono più macchine di lusso che nelle città italiane. I numeri sono dalla loro parte: l'economia cresce da anni a ritmi vertiginosi, soprattutto se paragonati a quelli della vecchia Europa. Un vero e proprio boom, che dovrebbe scatenare l'euforia generale, o quasi, e invece, paradossalmente, provoca soprattutto la continua emigrazione dei giovani lettoni dalla propria terra (30mila solo l'anno scorso). Non ci vuole molto per capire dove sta il mistero.
Il boom dell'economia lettone è in gran parte finanziario. Una grande bolla speculativa, determinata dal continuo riciclaggio di capitali (soprattutto russi, e spesso di dubbia provenienza), dagli investimenti immobiliari, dal circuito turistico. La bolla speculativa, ricchezza volatile per l'ennesima “società liquida” (vedi reportage sull'Estonia), è gonfiata dall'inflazione che viaggia oltre il 10 per cento, un dato che per il momento tiene lontana dall'adesione all'euro la fortissima valuta nazionale, il lat (che ha praticamente il valore della sterlina inglese).
La moneta forte serve a favorire le importazioni, perché qui non si produce quasi niente: la bilancia commerciale è in profondo rosso. I prestiti invece vanno alla grande, le famiglie lettoni sono indebitate fino al collo, come quelle americane o quelle inglesi (e sempre di più anche quelle italiane, che una volta risparmiavano più di ogni altro paese al mondo, escluso il Giappone). A proposito di banche, l'ambasciatore italiano a Riga, Ferdinando Zezza, ricorda la risposta del giovane governatore della Banca centrale della Lettonia, a fronte delle perplessità sul gran numero di istituti e sportelli in un paese così piccolo: “Le nostre banche non sono niente in confronto al Lussemburgo, che ne ha 400 per mezzo milione di abitanti…”. Il governatore ha ragione. Certo, si potrebbe far notare che la Lettonia ha la metà del PIL pro capite della media europea, che fra l'altro si è abbassata, dopo gli ingressi dei paesi dell'est. Ma sono questi paesi che mostrano meglio di altri in che direzione si muove l'Europa, dal momento che si è stabilito da tempo che capitali e merci sono più importanti delle persone. Se fosse vero il contrario, la Lettonia starebbe ancora bussando alle porte dell'Unione, come fa la Turchia. Basta vedere la questione della minoranza russa, tranquillamente superata da Bruxelles, come fosse un problema secondario. Secondario come la giustizia sociale. O la memoria storica. O i valori fondanti dell'Europa unita, che sono eminentemente politici, così come le sue finalità: l'economia dovrebbe essere lo strumento per realizzarli, ma il rapporto si è clamorosamente invertito. La questione della minoranza russa in Lettonia ne è un esempio quasi scolastico.
“Indipendente dalla Russia, la Lettonia vorrebbe esserlo anche dalla propria storia”, scrive Gabriele Romagnoli nel suo reportage per “Vanity Fair”. E ancora: “I lettoni in realtà non seppero scegliere tra nazisti e comunisti e vorrebbero che tutta la faccenda finisse sottoterra”. Una sintesi estrema, abbastanza efficace. Tradotta nella politica lettone degli ultimi 16 anni, quelli della nuova indipendenza, diventa più o meno così: il comunismo è venuto dalla Russia, ergo i lettoni di origine russa sono colpevoli a priori (“a prescindere”, avrebbe detto Totò); mentre i lettoni volontari nelle SS naziste, gli ex “legionari” , che hanno combattuto fedelmente per il Terzo Reich fino alla fine, erano invece dei patrioti, e non dei criminali di guerra, e possono tranquillamente celebrare la propria festa ogni 16 marzo.
Con queste letture distorte della storia, un'intera classe politica si è legittimata come unica depositaria dei valori nazionali, all'insegna di due soli assi portanti: il nazionalismo (chiamato “difesa dell'identità lettone”) e il liberismo economico. Cioè destra e solo destra, nella variante più moderata o più estrema. Azzerate tutte le istanze sociali, ammutoliti i sindacati impegnati a salvare le loro vecchie proprietà dell'era sovietica dal vento della privatizzazione selvaggia, cancellata la parola “sinistra” dal dizionario politico, e soprattutto, annichilita la minoranza di origine russa, cioè quasi il 40 per cento della popolazione, immediatamente privata di ogni diritto politico. Roba da far impallidire la “caccia alle streghe” del senatore americano McCarthy negli anni Cinquanta. Ma i diritti sono sempre e solo un optional, nell'Europa della finanza e dei consumi: una volta garantita la libertà ai capitali e alle merci, e messa in ordine la contabilità di stato, il più è fatto. Gli stessi eterni nemici russi sono i benvenuti, se portano qui i loro rubli, se investono nel mercato immobiliare che si rivaluta continuamente, se usano il porto di Riga per far transitare un po' di tutto (compreso armi e droga). La Lettonia lava più bianco, proprio come il Lussemburgo, paese modello dell'Unione Europea, tutto banche e protezioni fiscali, anche se decisamente noioso. Qui ci hanno aggiunto tanta bella vita per chi se la può permettere, nella lotta di tutti contro tutti per guadagnare di più (e indebitarsi altrettanto). Ovviamente a pagare di più sono stati i lettoni di origine russa, che in molti casi hanno perso, oltre alla cittadinanza, anche il posto di lavoro, e tuttora non possono accedere ad una gran parte di impieghi pubblici.
I lettoni “doc”, dal canto loro, devono ancora capire che la questione sociale viene prima di quella etnica, e che condannare la poca sinistra che c'è all'opposizione eterna in quanto “partito dei russi” significa fare il gioco di partiti che dicono e fanno più o meno tutti le stesse cose. L'ostilità fra lettoni e russi, in realtà quasi invisibile nella vita di tutti i giorni, è un capitale politico di sicura rendita, e funziona talmente da essere stato adottato dalla Russia di Putin, con lo stesso identico scopo: costruire consenso, toccare una delle poche corde emotive in elettorati che vedono solo un mondo dove tutto si compra e tutto si vende.
E' vero che etnos e politica si sono sempre confusi, da queste parti. Prendiamo la prima indipendenza lettone, quella del 1918. Il nuovo paese europeo si ritagliò il suo posticino nella Storia infilandosi fra la disfatta delle truppe dello Zar, la successiva sconfitta dell'esercito tedesco del kaiser Guglielmo, e la guerra civile russa fra l'Armata Rossa di Lenin e l'Armata Bianca di quelli che volevano cancellare la Rivoluzione d'Ottobre e vennero invece spazzati via dai bolscevichi.
Karlis Ulmanis, il padre della Patria, si destreggiò con grande determinazione in una guerra di tutti contro tutti, che vide anche l'intervento dell'esercito polacco, e una mini guerra civile lettone. Un caos di appartenenze nazionali e appartenenze politiche: l'aristocrazia lettone di discendenza germanica che controllava il paese temeva di dover pagare il conto per i privilegi di stampo feudale che lo Zar di Russia aveva mantenuto intatti nei secoli. Non a caso il barone Van der Goltz si allea con i russi dell'Armata Bianca contro i connazionali comunisti, che a loro volta fiancheggiano l'Armata Rossa. I lettoni nazionalisti di Ulmanis devono sconfiggere prima gli uni e poi gli altri, e infine ricacciare l'Armata Rossa al di là di quello che sarà il confine ufficiale con la nascente Unione Sovietica fino al 1940.
La giovane Lettonia uscita dalla sua lunga guerra di indipendenza, prolungamento del primo conflitto mondiale, è una democrazia parlamentare che ottiene grandi risultati sia in campo sociale che economico. Negli anni Venti si attua infatti una grande riforma agraria, che in pratica coincide con l'esproprio dell'antica nobiltà teutonica (una rappresentante di quella aristocrazia sposerà il giovane Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vivendo per un periodo con lui a Riga, nella casa che oggi è sede dell'ambasciata francese). I risultati sono straordinari, tanto che negli anni successivi la Lettonia diventa uno dei paesi più prosperi d'Europa, immune dalle conseguenze della Grande Depressione del '29.
Ma i ruggenti anni Trenta vedono ergersi sul continente gli spettri delle dittature di Hitler e Stalin. I paesi baltici, come tutti i paesi dell'est europeo, oscillano fra l'espansione del nazismo e del comunismo. Per non cadere né da un lato, né dall'altro, Ulmanis, il grande leader nazionalista, agronomo di formazione e scrittore per vocazione, prende il potere nel 1934 con un colpo di stato incruento, appoggiato dall'esercito, perché crede che le democrazie parlamentari non possano reggere l'urto della Storia, e instaura un regime personalistico e autoritario di stampo fascista (guardandosi le spalle però anche dai movimenti filonazisti, cioè sbattendo in galera tanto i comunisti che gli estremisti di destra).
Nella altre repubbliche baltiche (Estonia e Lituania) si fa altrettanto: la democrazia viene cancellata dagli “uomini forti” della destra nazionale, ma questo passaggio non servirà a salvare nessuno dei tre paesi. Hitler e Stalin decidono infatti d'amore e d'accordo di spartirsi l'intera regione: ai tedeschi la parte occidentale della Polonia, compreso Varsavia; ai russi la parte restante della Polonia e i paesi baltici. Nell'estate del 1940 l'occupazione era cosa fatta. Ma solo un anno più tardi, i sovietici furono cacciati dai nazisti, e non pochi lettoni pensarono di essere stati liberati, tanto da collaborare alacremente sia allo sterminio degli ebrei, sia alla guerra sul fronte orientale. Altri tre anni, e la situazione si rovescia di nuovo: tornano i sovietici, e ancora una volta una parte della popolazione si schiera con i vincitori. E una parte invece viene deportata in Siberia in un viaggio senza ritorno. E' successo un po' a tutti, in queste aree: a polacchi, ucraini, bielorussi, russi. Ma anche a bulgari, romeni, slovacchi, cechi, ungheresi: uccisi dai nazisti o dai collaboratori dei nazisti; e poi dai comunisti o dai collaboratori dei comunisti. Ognuno di questi paesi al confine fra i due potenti totalitarismi europei del Ventesimo secolo ha probabilmente più vergogne da perdonare che eroismi da esibire; e gli ebrei che vivevano numerosi in queste terre potrebbero testimoniarlo ampiamente. Chissà perché, invece, i musei e i monumenti della Shoa sono piccoli e quasi nascosti dovunque, nei paesi baltici. Mentre sono rimasti i monumenti dell'Unione Sovietica, tronfi e arroganti come la menzogna comunista (a parte il povero milite ignoto sovietico rimosso in Estonia), a cui qualcuno voleva (e vorrebbe) contrapporre altrettanti monumenti dell'anticomunismo, o almeno le sue celebrazioni, come la grottesca, vergognosa parata dei veterani delle SS, accompagnati dai nazionalisti lettoni. Tutti a difendere o a rimpiangere un'idea di patria che non si sa bene che cosa sia. Non lo sanno certo i (pochi) nostalgici dell'URSS, che forse non accettano, più della povertà o dell'emarginazione, la verità sulle proprie vite sprecate, sulle proprie coscienze eternamente dormienti. Ma almeno a loro va la pietà che si concede agli sconfitti. Il nazionalismo cialtrone, invece, forte con i deboli (la minoranza russa) e debole con i forti (i mercati internazionali), che sproloquiava di libertà e democrazia quando pensava solo a come arricchirsi meglio nelle privatizzazioni, non meritava la comprensione interessata dell'Unione Europea, ma una severa lezione, la stessa che molti giustamente vorrebbero impartire alla Turchia sui diritti umani. E invece no. Alla Lettonia verrà perdonato di tutto, di più.
La preparazione all'indipendenza segue passo passo la perestrojka di Gorbaciov, cioè le progressive aperture democratiche che porteranno il regime alla svolta del 1991, quando fallisce il tentativo di colpo di stato restauratore e Boris Eltsin liquida i golpisti, il Partito comunista russo e l'Unione Sovietica in poche settimane.
I primi gruppi di dissidenti si organizzano nel 1986, e dal 1988 si uniscono in un unico movimento indipendista, il Fronte Popolare della Lettonia. Ne fanno parte anche molti cittadini di origine russa, perché sono convinti che in una Lettonia indipendente sarà più facile costruire una vera democrazia. Tutta la prima fase del cammino verso l'indipendenza avviene politicamente all'interno del Soviet di Riga, dove 26 parlamentari su 34 sono stati eletti nel 1989 con il voto del Fronte Popolare. Perfino il vecchio Partito comunista lettone è ormai schierato su posizioni filoindipendentiste, anche se vorrebbe un distacco graduale e non definitivo da Mosca. Soltanto i nazionalisti radicali vogliono delegittimare il parlamento sovietico, ed eleggono un proprio Congresso riservando il voto ai lettoni “doc”. Un po' come ha provato a fare in Italia la Lega con quella pagliacciata del parlamento padano. Immaginate lo sconcerto dei poveri lettoni di origine russa, che avevano partecipato alla lotta per l'indipendenza e che in svariati casi venivano da famiglie che avevano subito le persecuzioni del regime sovietico, quando Ivars Godmanis, capo del governo della Lettonia indipendente, annuncia dopo una turbolenta sessione del parlamento che le prime elezioni del nuovo paese saranno riservate a chi era cittadino lettone prima del 1940 e ai suoi discendenti. “Un giorno, ciò che state decidendo sarà unanimemente riconosciuto come illegale”, dichiara Costantin Matveyev, docente di diritto all'Università e membro del parlamento, che verrà privato della cittadinanza, così come la moglie, pur essendo nato e cresciuto a Riga. Le storie dei cittadini esclusi dalla cittadinanza sembrano un romanzo di Kafka: a volte a fare la differenza basta un nonno sbagliato, e la perdita della cittadinanza non significa solo non avere diritto di voto, ma anche essere licenziati in tronco se si lavorava per lo stato, o essere cacciati dalla casa di epoca sovietica per far posto ai nuovi proprietari: i processi di privatizzazione in molti paesi dell'est sono stati tutto tranne che trasparenti (e all'origine di molti arricchimenti a venire).. E spesso le proprietà di stato sono passate nelle mani degli ex dirigenti comunisti, diventati di colpo difensori della proprietà privata e del capitalismo. Yuri Sokolovski, giovane portavoce del partito dei diritti umani, conosce bene l'atteggiamento dei nazionalisti lettoni: “Io che ho avuto un nonno condannato al lager da Stalin, mi sono sentito dire che ero responsabile, come tutti i russi, dei crimini stalinisti, dall'esponente del partito di estrema destra “Patria e Libertà”, Peteris Tabuns, uno che era stato responsabile dell'ideologia per il Partito comunista lettone e lavorava alla radio di stato ai tempi dell'URSS”.
Le testimonianze dei lettoni di origine russa sono state raccolte in un libro, dal titolo significativo “Gli ultimi prigionieri della Guerra Fredda”. Storie di ordinaria ingiustizia, che continuano ancora oggi. Per capire quanto sia stato accondiscendente l'atteggiamento dell'Unione Europea, basta dire che la Lettonia ha ottenuto lo stato di membro associato già nel 1995, mentre era ancora vigente la pena di morte (che il parlamento lettone confermò nel 1998, per abolirla solo un anno più tardi). Il tutto mentre fra i partiti più votati c'era quello di Joachim Zigerists, un tizio vicino ai movimento neo-nazisti, già condannato in Germania per incitamento all'odio razziale. Un bell'esempio di democrazia, la Lettonia.
Il paradosso è che i vari partiti di destra litigavano continuamente fra loro, i governi andavano e venivano, in un clima di instabilità permanente. E nonostante tutta l'enfasi sull'identità lettone, per creare un po' di armonia c'è voluta una donna, Vaira Vike Freiberga, che fino a dieci anni fa viveva in Canada, dove lavorava come psicologa. In effetti, per capire i motivi delle tante crisi di governo serviva più una psicologa che una politica, anche perché, in assenza di vere differenze ideologiche, erano i personalismi dei vari leader a creare i dissidi.
Il carisma dell'energica Vike Freiberga, capo di stato molto amato dai lettoni, è servito anche a cancellare le ultime perplessità sull'adesione all'Unione Europea, avvenuta in perfetta sincronia con l'ingresso nella NATO, tre anni fa. Non è un caso. Molti paesi dell'Est, a partire dall'impresentabile Polonia dei fratelli Kascynski, sono assai più vicini a Washington che a Bruxelles. In questa parte d'Europa, purtroppo, i fantasmi della Guerra Fredda funzionano ancora. Ma la vera Europa nascerà quando i nostri leader sapranno dire agli Stati Uniti: “Arrivederci e grazie, non abbiamo più bisogno della vostra tutela”. Fino a quel giorno, paesi come la Lettonia potranno tranquillamente essere indicati a tutti noi come modello da seguire. E i turisti che visitano Riga potranno confermare tutte le meraviglie del libero mercato. Basta non svegliarsi mai dalla dolce amnesia dei consumi, dalla sbornia di musica, belle auto e belle donne. Che volete di più dalla vita?

Cesare Sangalli