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Pubblicato su "Galatea" giugno 2001


La difficile transizione democratica nel paese degli Incas

Perù, quel che resta del sole

La notte della dittatura di Fujimori, durata dieci anni, è finalmente finita. Ma le luci dell'alba sono ancora opache, e il popolo peruviano appare stanco e sfiduciato. Eppure questo potrebbe essere uno dei migliori paesi sudamericani, senza dover rimpiangere troppo l'eredità perduta dell'Impero del sole. Speranze e illusioni di una nazione nella sfida elettorale fra Alejandro Toledo e Alan Garcia

“Il Perù è un mendicante seduto sopra un tesoro”. La metafora, assai famosa da queste parti, viene attribuita ad uno scienziato italiano, tale Antonio Raimondi, che visitò il paese andino nell'Ottocento. Forse anche lui rimase sconcertato dal fascino irresistibile di questo paese, che un secolo dopo continua ad interrogarsi sul suo destino misterioso, come legato ad un sortilegio che gli impedisce di godere della sua ricchezza. Ricchezza naturale, paesaggistica, di risorse materiali, ricchezza di storia, cultura, tradizioni, paradiso di antropologi e naturalisti, di archeologi e storici. Niente da fare. Sembra ci sia una “maledizione peruviana” che mantiene la nazione incredibilmente al di sotto delle sue possibilità. Come se il tradimento di Pizarro ai danni del grande Atahualpa, l'inca (imperatore) dello straordinario “impero del sole”, che andava dalla Colombia al sud del Cile, gridasse ancora vendetta. Il Perù è forse l'emblema di tutta l'America latina, terra di avventura e di avventurieri: qui si cercava il mitico “Eldorado”, qui il miraggio della ricchezza da saccheggiare si è stampato nel DNA della terra, a partire dall'equivoco sul nome. Perù, strana parola che evoca fantasie di tesori (“vale un perù” si dice in diverse lingue), sembrerebbe derivare da “pirua”, termine incaico che indicava, semplicemente, la felce. Perché il tesoro degli inca era il cibo, custodito nei silos sotterranei tappati con le felci, e i figli dell'impero del sole non capirono mai quale strana bramosia avesse preso i conquistadores , allucinati per l'oro e l'argento, per beni che non si mangiano.
La ferita fra conquistatori e conquistati non si è mai sanata del tutto, né qui, né in tutta l'America latina, anche se il Perù è da tempo paese di meticci, miscuglio creativo di stirpi e culture diverse, lontano mille miglia dal regime di apartheid di fatto che vige in Guatemala o anche nel sud del “moderno” Messico. In un paese che presenta una varietà geografica incredibile, dove si passa in poche centinaia di chilometri dalle vette innevate delle Ande alla costa tropicale sull'Oceano Pacifico, dove l'esplosione di verde e di umidità della foresta amazzonica si accompagna alle aree semidesertiche del sud, forse la vera frattura umana è quella che separa Lima dal resto del paese. E' in primo luogo un dato statistico (ovviamente non ufficiale, perché il continuo esodo verso la capitale anticipa qualsiasi censimento): nell'area di Lima vive quasi la metà dei peruviani, circa 12 milioni di persone sui 25 dell'intera popolazione.
Lima è stata la grande capitale del Sudamerica dominato dagli spagnoli, di gran lunga la città più popolosa e importante del continente (fra le prime del mondo) ancora agli inizi dell'Ottocento. Fino ad allora, poteva guardare dall'alto in basso città come New York, Buenos Aires, San Paolo. La rivoluzione industriale la condannò definitivamente alla decadenza, e cancellò l'impero spagnolo dai libri di storia. Oggi Lima mantiene un fascino che tante altre capitali hanno perso o non hanno mai avuto, ma continua ad espandersi disordinatamente a nord e a sud, arrampicandosi sulle colline e sulle montagne che le fanno da corona.
Paesaggi quasi lunari, a volte, dove trova spazio la povertà estrema di gente che fu india e ora rischia di essere soltanto “chola” (termine dispregiativo o familiare - secondo chi lo usa e come - per indicare gli amerindi), che parlava quechua e ora mastica lo spagnolo volgarizzato dalla televisione (penosa come in quasi tutti i paesi latinoamericani). Un'umanità paziente e gentile, poco istruita, che mangia poco o mangia male (ci sono moltissimi obesi in giro), nonostante la cucina popolare peruviana sia eccellente. Un'umanità cresciuta storicamente fra lo sfacciato populismo di troppi caudillos (militari o civili) e il disprezzo travestito da indifferenza dei pitucos , i ricchi di origine europea che stanno nel quartiere turistico di Miraflores (insieme alla classe media) o si fanno le ville in colline completamente privatizzate e controllate da gendarmi col mitra in mano. I primi sono la base elettorale di Alejandro Toledo (meno di quanto si pensasse), i secondi hanno votato quasi tutti per Lourdes Flores, al primo turno. Ma tutti, ricchi, poveri e classe media, sono stati attratti in passato dalle promesse di un oscuro ingegnere agronomo, che si presentò nel 1990 come l'uomo del cambiamento (il suo “partito” si chiamava Cambio 90 ), col motto “lavoro duro, onestà, tecnologia”: Alberto Fujimori, detto “El Chino”.
La parabola politica di Fujimori e del suo braccio destro, l'ineffabile Vladimiro Montesinos, rispecchia fedelmente tutti i mali cronici e moderni della società peruviana, che è ben lungi dall'averli risolti, anche se tutti oggi sembrano essere stati accaniti oppositori dello strano dittatore neoliberale.
La verità, senza nulla togliere alla coraggiosa candidatura di Toledo dello scorso anno, è che il regime fujimorista si è semplicemente suicidato, non è stato cacciato né dal voto popolare, né dalla forza delle istituzioni, e meno che mai dall'opposizione della comunità internazionale, che anzi si era già “rassegnata” al suo terzo mandato (come si ammette negli ambienti diplomatici italiani a Lima). La mostruosa macchina di corruzione e ricatto costruita pazientemente da Montesinos, uomo dei servizi segreti considerato la vera eminenza grigia del fujimorismo, alla fine è esplosa, schizzando fango da tutte le parti (i famigerati “vladivideos”, registrazioni filmate che documentavano tangenti e altre bassezze di politici, magistrati, alti ranghi militari). I due (Fujimori e Montesinos) sono fuggiti al'estero, uno in Giappone (e i peruviani hanno appreso via satellite che il loro presidente era da sempre cittadino giapponese), l'altro in qualche paese dell'America latina. Fine ingloriosa di un regime che ha quasi distrutto la società peruviana.
La mancanza totale di entusiasmo per le nuove elezioni presidenziali testimonia una delusione di tanti (di troppi), che a volte si sfoga con acrimonia, come per riscattarsi da un errore, a volte con l'imbarazzo dei sensi di colpa. E non è poi così difficile trovare perfino chi in qualche modo rimpiange “El Chino”, i soliti qualunquisti del “si stava meglio quando si stava peggio”. Nella loro visione banalizzata di Fujimori, offrono comunque una chiave di lettura: “Ha sconfitto il terrorismo; ha domato l'inflazione; ha portato investimenti stranieri e ha costruito tanto”.
Per capire la “resistibile ascesa” di Fujimori e il decennio (1990-2000) di dittatura neoliberale (il termine può suonare contraddittorio, ma in realtà non lo è affatto), bisogna rileggere il decennio precedente e chiarire subito che gli anni Ottanta sono stati gli unici anni di democrazia (per quanto imperfetta) di tutta la storia peruviana.
L'indipendenza (1821) ottenuta a colpi di cannone dalla Spagna ha inaugurato la mitologia del condottiero che lotta per il suo popolo, cioè un approccio militare alla “democrazia”. Lo stesso celebratissimo Simon Bolivar, il grande libertador del Sudamerica, era un uomo accecato dalle proprie ambizioni, progenitore di tutti i piccoli napoleoni in divisa che in nome del popolo disprezzavano le istituzioni liberali, lo stato di diritto che sembrava dare una legittimità formale alla disuguaglianza economica e sociale (ecco perché molte dittature militari latinoamericane sono stranamente considerate “di sinistra”). “La tradizione negativa del caudillo ha fatto sì che lo stesso servilismo che circondava il re, nell'epoca moderna accompagna il presidente della repubblica”, sostiene il costituzionalista Enrique Bernales. A ogni colpo di stato, magari spacciato per rivoluzione, si fa una nuova costituzione. Ogni tentativo di riforma, quando c'è, arriva dall'alto, e viene imposta con la forza delle armi. Questo accade perché a difendere le istituzioni della democrazia liberale non c'è mai una borghesia illuminata, che lavora per estendere la vera cittadinanza a parti sempre più consistenti della popolazione, ma un'élite preoccupata solo di difendere le proprie rendite, i propri privilegi. Non a caso in Perù è il generale golpista Velasco (1968 - 1975) a fare la riforma agraria, a nazionalizzare le industrie, ad aumentare, nel bene e nel male, il peso dello Stato. Sempre e solo militari.
Dall'altra parte, l'opposizione storica, irriducibile, del partito della sinistra peruviana, l'APRA (Alianza Popoular Revolucionaria Americana), bandito dai militari dal 1931 al 1956, e del suo leggendario fondatore, il dottor Victor Raùl Haya De la Torre. E' proprio il vecchio leader aprista , dopo mezzo secolo di lotta, a presiedere l'Assemblea Costituente che nel 1979 segna il ritorno del potere alla società civile. Ma alle elezioni presidenziali dell'anno seguente vince un altro leader storico del Perù, il democristiano Fernando Belaùnde Terry, già presidente “sotto tutela” dei militari dal '63 al ‘68, che incomincia a smantellare lo statalismo ereditato da Velasco.
La nascita della democrazia peruviana coincide esattamente con quella del movimento guerrigliero che la funesterà come un incubo mostruoso: Sendero Luminoso. “La mentalità di Sendero Luminoso è più vicina alla religione che alla filosofia e alla politica” scrive Mario Vargas Llosa in “Desafios a la libertad”. “Il suo maoismo radicalizzato è un rosario di atti di fede, di comandi emotivi, deliri messianici, ragionamenti tautologici e proclamazioni iperboliche che sconcertano per la grossolanità, la banalità e la confusione”. Sendero Luminoso nasce proprio quando la parabola dei movimenti guerriglieri latinoamericani inizia la sua fase calante. Le sue prime azioni fanno pensare ad un minuscolo gruppo di fanatici che obbediscono ciecamente al proprio “leader, ideologo, stratega e santone”, Abimael Guzmàn, detto “il compagno Gonzalo”, isolati nelle aree sperdute del Perù profondo. Il governo di Belaùnde commette il tragico errore di sottovalutare la forza di Sendero Luminso, sostiene che il presunto “terrorismo” in Perù sia solo “petardismo”, e consente a Guzmàn e compagni di acquistare forza e radicarsi nel territorio. Inizia una guerra fatta di attentati nelle città e di spietato controllo nelle campagne, una guerra che avrà un bilancio di circa 30mila morti e causerà perdite economiche per 20mila milioni di dollari.
Alla violenza delirante di Sendero Luminoso si aggiunge, sempre negli anni Ottanta, quella più mirata e tradizionale del Movimiento Revolucionario Tupac Amaru (MRTA). La risposta dello Stato si fa più dura, sconfinando abbondantemente nell'illegalità: le denunce di Amnesty International e delle organizzazioni dei diritti umani coinvolgono sia il governo di Belaùnde sia quello successivo di Alan Garcìa, il primo governo di sinistra della storia peruviana.
Alan Garcìa è il giovane successore del mitico Haya De la Torre. Alle elezioni presidenziali del 1985 porta l'APRA ad una vittoria storica, dopo 55 anni di opposizione. E' un leader ambizioso, grandissimo oratore (lo chiamano “lengua de plata”, lingua d'argento), piglio deciso e “look” piacente (molte donne stravedono per lui). Sembra seguire l'ondata socialista europea, tutta determinazione e spregiudicatezza (Mitterrand, Gonzales, Craxi). A soli 35 si trova a dirigere il paese in un momento delicatissimo; ma nonostante le buone intenzioni, il suo governo avrà risultati catastrofici.
I suoi due obiettivi prioritari, risollevare l'economia e mettere fine al terrorismo, sono destinati a fallire miseramente. Alan Garcìa vuole che sia lo Stato a dirigere e controllare l'economia: inizia una politica di nazionalizzazioni che riguarda soprattutto le banche, le assicurazioni, il settore finanziario. Piazza dirigenti dell'APRA un po' dappertutto, aumentando la burocrazia. Ma soprattutto si ribella alla “dittatura” del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, e cerca di opporsi alla globalizzazione incipiente limitando le importazioni e proteggendo la produzione nazionale. Risultato: un'inflazione a tre cifre, la disoccupazione che rimane elevata, la corruzione che continua come prima, e negli ultimi anni perfino i prodotti alimentari razionati, le lunghe code per il latte e il riso, mentre il terrorismo mantiene il paese in una cappa di paura.
Come se non bastasse, Alan Garcìa rimane coinvolto in una storia di tangenti (ci sono di mezzo proprio i socialisti di Craxi) per la costruzione affidata ad una ditta italiana del treno veloce da Lima sud a Callao, dove c'è l'aeroporto internazionale e il porto marittimo. A tutt'oggi l'opera incompiuta si staglia sulle povere case di VillaMaria, con un treno vuoto che passa ogni tanto (per fare manutenzione, dicono). Insomma, il leader aprista si presenta alle fatidiche presidenziali del 1990 con un bilancio completamente negativo (anche se probabilmente la finanza internazionale ha cercato di affossarlo). Il favorito a questo punto sembrerebbe proprio lo scrittore Mario Vargas Llosa, liberale e liberista convinto, grande ammiratore di Margaret Thatcher, che ha coalizzato i pitucos (la borghesia finanziaria) e i democristiani. Ma lo spirito anglosassone, quasi calvinista, che Vargas Llosa vorrebbe introdurre in Perù è ancora assai estraneo ai discendenti degli Incas. Vogliono un uomo che sappia promettere, vogliono sognare miracoli peruviani portati come per magia da un solo uomo. E piuttosto che votare la destra moderata, anche gli apristi delusi si orientano verso l'ambigua demagogia del “Chino” Fujimori. Il nuovo per il nuovo, ci si butta in un'incognita e si sta a vedere. E siccome il buon giorno si vede dal mattino, arriva subito la prima terrificante batosta: lotta all'inflazione, via tutti i sussidi ai consumi, via i prezzi controllati, i prodotti alimentari aumentano del 600 per cento, la benzina del 3.000 per cento. Roba da sciopero generale, da insurrezione di massa: invece non succede assolutamente niente. Qualcosa di simile a “lo abbiamo votato, adesso ce lo teniamo”. Fujimori ci prende gusto, e in 150 giorni, a colpi di decreto legge, privatizza l'impossibile: banche, industrie, miniere, compagnie marittime, aeree, ferroviarie (perfino il famoso trenino da Cuzco a Machu Picchu viene appaltato ad un'impresa cilena di cui si dice che Fujimori sia azionista, e il prezzo politico schizza a 50 dollari). Poi è il turno delle telecomunicazioni, delle poste, e infine crollano gli ultimi bastioni, scuola e sanità. Ecco che gli investimenti stranieri arrivano a pioggia, il debito estero comincia a crescere vertiginosamente, così come le importazioni, e Lima diventa un cantiere, strade, grattacieli, shopping center. Una vetrina ricca per nascondere un paese che continua a impoverirsi in modo brutale (tranne le solite classi privilegiate). Questa è la dittatura neoliberale, che si completa nel 1992 con il cosiddetto autogolpe: per sbarazzarsi degli ultimi impicci di un Parlamento che, nonostante la maggioranza fujimorista, non lo “lascia lavorare”, il “Chino” sospende la Costituzione del '79, scioglie il Parlamento, dichiara lo stato di emergenza e convoca l'Assemblea Costituente. Ha l'esercito compatto dietro di sé, grazie al lavoro dell'instancabile Montesinos: le truppe circondano il Parlamento, i principali leader politici e sindacali vengono posti agli arresti domiciliari come “misura temporanea”, Lima viene blindata. Ma non c'è bisogno di sparare un solo colpo: Fujimori gode comunque di un ampio consenso, il suo dinamismo illude ancora tanta gente. Il terrorismo comincia ad arretrare, e quando viene catturato Abimael Guzmàn (un colpo mortale per Sendero Luminoso), che sarà esposto in gabbia come un animale per diversi giorni, la dittatura neoliberale raggiunge l'apoteosi.
Fujimori è trionfalmente rieletto nel '95 contro l'ex segretario dell'ONU Perez De Cuellar. La sua fama di “duro” aumenta ancora dopo il blitz che pone fine al sequestro del personale dell'ambasciata giapponese ad opera di un commando del MRTA (dicembre '96 - aprile '97). Il presidente peruviano ha illuso in una lunghissima trattativa il leader del commando, Nestor Cerpa Cartolini, avvalendosi della mediazione dell'arcivescovo Cipriani: il fatto che quasi tutti i guerriglieri probabilmente siano stati uccisi a freddo dopo essersi arresi non sembra interessare a nessuno.
Nel frattempo, i poveri diventano sempre più poveri, le piccole e medie imprese chiudono, strozzate dagli interessi usurari delle banche (molte delle quali controllate da Fujimori) e cancellate dalla concorrenza straniera. La produzione agricola crolla, i contadini disperati abbandonano le campagne e vengono a vivere di espedienti in città. Il divario sociale, già grande, si fa mostruoso. Ma Fujimori ha il paese in pugno, riesce a far passare, di forza, la sua candidatura per un terzo mandato. Ormai non si fida più di nessuno, la moglie (che si diceva avesse una grande influenza su di lui) lo lascia, è sempre più solo: “Una persona lontana dalla realtà (il risultato di anni di isolamento), circondato di adulatori, mediocri e opportunisti. Lavora in maniera assoluta e ossessiva tutto il giorno. Ha l'allucinazione di condurre una crociata per questo paese per cui sente di aver fatto tanto”. Così lo descrive “Caretas”, uno dei pochi media rimasti indipendenti negli anni Novanta. Fujimori vuole vincere a tutti i costi le presidenziali per la terza volta.
La candidatura a sorpresa di Alejandro Toledo rompe la stasi in cui versa il Perù. Toledo, 55 anni, è un “cholo” (come ama definirsi) di famiglia poverissima e numerosa, originario di Ancash, località sperduta nell'interno del paese. E' stato venditore ambulante e lustrascarpe, ma le sue eccezionali capacità scolastiche gli hanno permesso di ottenere una borsa di studi per gli Stati Uniti, dove si laurea in economia all'università di San Francisco, con successiva specializzazione a Stanford. Dopo aver lavorato per la Banca mondiale e il FMI, si sposa con Eliane Karp, un'antropologa belga che conosce bene il Perù (circola la battuta che lei parla meglio il quechua di lui).
In altre parole, ha un'anima divisa in due: da un lato le origini, di cui è orgoglioso, e che ha abbondantemente utilizzato come richiamo elettorale (si fa chiamare Cachaputec, uno degli ultimi incas che si ribellarono agli spagnoli); dall'altro, una formazione d'élite, che lo avvicina molto ai pitucos che possono ancora snobbarlo, ma certo non ne sono spaventati.
L'anno scorso è riuscito in poco tempo a coalizzare l'opposizione contro Fujimori e a dimostrare che il “Chino” si poteva battere. Solo i vergognosi brogli elettorali, denunciati dagli osservatori europei e sudamericani, hanno permesso a Fujimori di passare al secondo turno in vantaggio e poi di vincere in assenza dell'avversario (Toledo si era ritirato per non legittimare le false elezioni). Così, dopo lo scandalo dei video di Montesinos e la fuga di Fujimori, Toledo si è ritrovato in testa a tutti i sondaggi, protagonista della fine della dittatura.
Ma le elezioni dell'aprile scorso hanno riservato più di una sorpresa. La campagna elettorale è stata condotta a colpi bassi, con continue rivelazioni scandalistiche sui candidati. I due avversari principali sembravano appunto Toledo e Lourdes Flores, una “single” proveniente dal partito democristiano, avvocato, che rappresenta soprattutto l'élite finanziaria, ma che ha raccolto molti voti anche nella classe media. In mezzo ai due contendenti, che non sembravano poi così distanti nei contenuti politici (anche se Lordes si era attirata l'accusa di “continuismo” per aver accettato nel suo partito molti esponenti del passato regime fujimorista), si è inserito in modo rocambolesco il “vecchio” Alan Garcìa, tornato dal suo esilio volontario in Colombia pochi mesi prima del voto e accredidato inizialmente di un misero 10 per cento.
Con una campagna abile e puntigliosa, Alan Garcìa è riuscito a sfondare a sinistra, superando sul filo di lana Lourdes Flores. Le elezioni, correttissime e trasparenti (dato notevole per un sistema manipolato fino all'anno scorso) hanno visto il vantaggio di Toledo (36 per cento) su Alan Garcìa (26 per cento) e Lourdes Flores (23 per cento).
Il ballottaggio fra Alejandro Toledo e Alan Garcìa si preannuncia appassionante (e forse finalmente si parlerà di programmi). Toledo rappresenta la novità, ma nonostante sia stato l'eroe della caduta di Fujimori, non ha mai preso esplicitamente le distanze dalla politica economica del “Chino”. Non ha saputo reagire bene ad un paio di scandali che l'hanno coinvolto (una figlia naturale che lui non riconosce; un festino a base di donnine e cocaina all'Hotel Melody). I suoi comizi sono francamente penosi, pieni di slogan ripetitivi e di puro effetto emotivo, di fronte a masse di persone che quasi non lo ascoltano e si limitano ad acclamarlo. Gente che sicuramente proviene dagli strati più bassi della popolazione; gente che, in molti casi, è la stessa che acclamò Fujimori.
Dall'altra parte, Alan Garcìa “lingua d'argento”, odiato dai peruviani che ricordano gli anni del suo governo e lo considerano un disonesto, amato soprattutto dai giovani, temuto come la peste dai ceti più ricchi. Garcìa sembra aver imparato la lezione e si presenta più moderato, ma puntando sempre e comunque sulla giustizia sociale e criticando con molta lucidità le vergogne dell'iperliberismo di Fujimori.
Chiunque vinca, si ritroverà senza maggioranza assoluta al Congresso, il 28 luglio. E quel che è peggio con una Costituzione che disegna un presidenzialismo autoritario e perverso, avendo annullato le cose migliori della Carta del '79 (soprattutto per quanto riguarda i diritti sociali). Ma i due fattori possono anche combinarsi positivamente: occorre comunque un governo di unità nazionale, e forse la maggioranza di coalizione sarà anche in grado di ridisegnare il Perù democratico del Terzo Millennio. Il resto, è un lungo cammino tutto da fare: creare una vera cittadinanza, una società senza esclusi. Oppure continuare ad essere “il mendicante seduto sopra un tesoro”.


Cesare Sangalli