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(pubblicato su “Galatea”, aprile 2005)

Lo sfruttamento del petrolio non sta cambiando niente
Ciad, "aspettando il voto delle bestie selvagge"

Un paese povero, dilaniato dalle guerre civili, finanziate da Francia e Libia fino alla vittoria militare di Idriss Déby, che ha messo tutti d'accordo. Il suo regime è stato legittimato come “democrazia” per non interferire nel grande business petrolifero. Una realtà che sembra uscita dal romanzo di Ahmadou Kourouma, fustigatore dei tiranni africani e dei loro sponsor occidentali

N'Djamena è una capitale simbolo. Simbolo di un'Africa che sembra non cambiare mai. L'aeroporto, per quanto piccolo e modesto, può trarre in inganno: la prima cosa che si scopre arrivando in città è che l'asfalto praticamente è un optional. A parte le poche strade principali, a N'Djamena si cammina sulla sabbia e sulla terra battuta. Difficile trovare un palazzo oltre i tre piani: l'unico edificio moderno è la sede della BEAC, la banca degli stati dell'Africa francofona, di fronte ad una rotonda che è un po' il centro di una città senza centro.

Ci si può consolare pensando che qui il potere è immerso comunque nella povertà. Non c'è una città a parte come in molte capitali del Sud del mondo: giri l'angolo dal palazzo del governo o da un'ambasciata qualunque (quella americana sembra una base militare) e ti trovi nella polvere, con i piccoli venditori immobili sotto un albero o un ombrellone, i taxi tutti uguali, vecchie Peugeot scassate dentro e fuori, un po' di motorini, qualche raro fuoristrada, tanta gente a piedi o in bicicletta ma soprattutto seduta a guardare la vita che passa. Potrebbe essere il Duemila o il 1980, difficile capire che cosa ci può essere di diverso, a parte i telefonini, che hanno rapidamente rimpiazzato una telefonia fissa quasi inesistente, e un paio di internet point con i computer lentissimi.

E' un'Africa datata perfino nei nomi delle strade, eppure a suo modo sincera in modo spudorato: i due grandi viali che attraversano la città e delimitano tutto quello che ha importanza portano i nomi di De Gaulle e di Mobutu. Una sintesi formidabile della politica africana contemporanea: da una parte, il grande generale chiamato a gestire la fine del colonialismo francese, l'uomo che “concede” l'indipendenza al Ciad agli inizi degli anni Sessanta; dall'altra, il dittatore africano per eccellenza, quello che più e meglio di ogni altro ha “privatizzato” una nazione intera, l'enorme Zaire, l'ex Congo belga. L'urbanistica rende omaggio alla verità: le due “avenues” si abbracciano e si sostengono a vicenda, proprio come il prestigioso leader occidentale simbolo della lotta alla tirannia nel suo paese e il grande tiranno africano, sanguinario e corrotto, simbolo della tragedia del suo continente. In mezzo, gli apparati finanziari (qui c'è la sede locale della Banca Mondiale), le caserme militari, i tribunali e la polizia, le ambasciate, gli organismi internazionali e le associazioni umanitarie a dare la parvenza di normalità, a continuare a raccontare la favola dello sviluppo e della cooperazione, della solidarietà e del progresso.

No, non si può capire il Ciad e tutta l'Africa che soffre attraverso le parole dell'ufficialità, gli ottimistici dépliants dei progetti della Banca Mondiale, le dichiarazioni governative sulla lotta alla povertà. Meglio affidarsi ad un romanzo, alla penna geniale di un grande scrittore, Ahmadou Kourouma, recentemente scomparso. “Aspettando il voto delle bestie selvagge” è un capolavoro dell'afropessimismo, ed è sconcertante capire quanta verità storica c'è in un libro che è il canto magico di un griot africano, un profeta-cantastorie che narra le gesta di un despota immaginario ma non troppo, uno dei tanti del continente.

“DeGaulle arrivò a concedere l'indipendenza senza decolonizzare. Ci riuscì inventando e mantenendo presidenti della repubblica che si facevano chiamare padri della nazione e dell'indipendenza, anche se non avevano fatto niente per l'indipendenza della loro repubblica e non erano i veri capi del loro popolo”, scrive Kourouma. Eletti, o meglio, plebiscitati in elezioni truccate, i nuovi leader erano quelli voluti dalla Francia, persone le cui parole “non contrastavano troppo con la tesi colonialista dell'inferiorità del Negro ladro e fannullone”.

Così era François Tombalbaye, primo presidente del Ciad indipendente nel 1960. Capitolo primo della triste storia di una ex colonia africana, forse la più povera di tutte le colonie francesi, almeno fino alla scoperta del petrolio. Un avventuriero da quattro soldi riesce ad accentrare in quattro e quattr'otto tutto il potere nelle sue mani, sotto lo sguardo benevolo dei militari francesi che ancora controllano il paese. Una e una sola è l'esigenza della Francia: mantenere il controllo su un paese strategico per la sua posizione geografica, nel cuore dello scacchiere africano. Dal Ciad si può facilmente intervenire in cinque diversi paesi, e i francesi lo faranno ogni volta che lo riterranno opportuno. La capitale N'Djamena, che non a caso si chiamava Fort Lamy, è un perfetto quartiere generale.

Tombalbaye comincia a lasciare una lunga scia di sangue nel corso della sua “presidenza”. Uccidendo, torturando, imprigionando ed esiliando ogni possibile avversario, si inimica famiglie, clan, a volte intere regioni. In un paese tanto esteso e con culture così diverse non è difficile strumentalizzare frustrazione e odio secondo una linea etnica, geografica, religiosa. Nasce il mito del conflitto permanente Nord – Sud, che ancora oggi viene sistematicamente utilizzato come prima chiave di lettura della realtà ciadiana. La versione alimentata in primo luogo dai padroni francesi parla di un sud di agricoltori sedentari, a lungo schiavizzati dal nord di pastori nomadi organizzato nei potenti califfati islamici. Ostili alla penetrazione della religione cristiana e alla cultura francese, i nordisti si erano ritrovati esclusi dall'amministrazione coloniale, basata sui più malleabili sudisti, che avevano accettato istruzione e battesimo. Il “Sud utile”, si diceva, visto che lì c'era il cotone, l'unica cosa che il poverissimo paese produceva. Questa versione in parte è vera . Ma la sequenza impressionante di complotti, colpi di stato, guerre fra le diverse fazioni (i cosiddetti “movimenti politico-militari”) non si spiega minimamente con questa semplificazione. E' l'idea stessa dello Stato che nasce malata, in tutta l'Africa. Lo Stato è quasi ovunque una grottesca rappresentazione, il semplice strumento per saziare la voracità dei presunti “padri della nazione”, una galleria inquietante di criminali, capaci soltanto di garantire a tutti gli interessati a livello internazionale lo sfruttamento selvaggio del continente. Si possono invertire i fattori, cambiare i personaggi, le alleanze, le colorazioni politiche: il risultato, in paesi come il Ciad, è sempre lo stesso, gli stessi vincitori (i paesi occidentali, USA e Francia in primis), gli stessi vinti: la gente, cristiana, musulmana, animista, del nord, del centro e del sud, della savana e della foresta, del deserto o del fiume, agricoltori o pastori, nomadi e sedentari.

“La prima bestia cattiva che minaccia un capo di stato e presidente di un partito unico nell'Africa indipendente della guerra fredda – spiega il dittatore anziano all'apprendista tiranno del romanzo di Kourouma – (…) è l'irritante inclinazione all'inizio della carriera a separare la cassa dello Stato dalla cassa personale”.

Un capo africano deve apparire come l'uomo più ricco e generoso della nazione. Deve continuamente temere i complotti, che spesso nascono in seno alla sua stessa famiglia, o nella cerchia dei più stretti collaboratori. Per questo deve disporre di potenti amuleti e avvalersi dei consigli e delle divinazioni dei più bravi indovini (i marabouts , i feticheurs ).

Il presidente Tombalbaye rimane affascinato dal collega Mobutu, e dalla sua grottesca campagna per “l'autenticità” agli inizi degli anni Settanta. Tanto più sono tronfi e virulenti i proclami contro la civiltà dei colonizzatori che ha impoverito l'Africa, tanto meno hanno contenuto concreto, con poche eccezioni. Le potenze occidentali lasciano fare, tollerano ogni bizzarria. Sanno che, all'occorrenza, nel momento in cui dovessero essere messi davvero in discussione i rapporti di forza, si può favorire il nuovo aspirante dittatore, visto che ce n'è sempre uno dietro l'angolo. Quando Tombalbaye si mette il cappellino di leopardo (come Mobutu), si cambia il nome cristiano (come Mobutu ) da François a “Ngarta” (“infine il capo”), e impone lo stesso ai ciadiani, arrivando a rendere obbligatoria l'iniziazione al vodoun dei suoi collaboratori, secondo i dettami del dottor Vixamar, stregone haitiano, il suo destino è già segnato.

Segnato all'interno del suo stesso apparato, visto che l'esercito sta organizzando il colpo di stato, e segnato all'esterno, da un gruppo di presunti rivoluzionari che si chiama “Frolinat”(Fronte di liberazione nazionale ciadiano). Il Frolinat è uno strano miscuglio di marxisti e islamici, per lo più nordisti, che dopo aver flirtato con la Cina , riceve aiuto dall'uomo che riesce (bontà sua) a coniugare islam e socialismo, l'astro nascente Muammar Gheddafi.

Inizia il lungo braccio di ferro fra Francia e Libia per il Ciad, un'allucinante partita a scacchi in cui ogni alleanza è reversibile, e ci si può fare la guerra oggi per concludere ottimi affari domani.

Tombalbaye, l'uomo che pretendeva per sé “autorità paterna e di ordine sacrale”, viene ucciso come un cane nel colpo di stato del 1975. Inizia la guerra civile permanente. Un esercito di qui, un esercito di là, uno a destra, uno a manca, sigle che sembrano filastrocche, : le “Fat”, le “Fan”, le “Fant”, le “Fap” , tutte “Forze armate” che sono “nazionali”, “ciadiane”, “popolari”, “nazionali ciadiane”.

Inutile cercare di riassumere tutti i passaggi. Tutto si risolve con due uomini forti, due regimi che si spartiscono gli ultimi vent'anni del secolo: Hissène Habré, dal 1979 al 1990, e Idriss Dèby dal 1990 a oggi. Habré, un musulmano del nord, era stato un leader del Frolinat, appoggiato dalla Libia all'inizio, dalla Francia alla fine; Déby, un musulmano del sud, era un alto ufficiale dell'esercito anche sotto il governo Habré ; appoggiato dalla Libia all'inizio, dalla Francia alla fine.

In sintesi, la Libia , che aveva mire espansionistiche sul Ciad, ha raccolto una lunga serie di sconfitte, ma Gheddafi se lo poteva tranquillamente permettere, visto che è un destabilizzatore di professione che non ha nulla da temere a casa sua. Considerato una minaccia per l'umanità per un quarto di secolo, il leader libico adesso è diventato un “baluardo della libertà”. Ma in Ciad già da tempo aveva raggiunto l'intesa con Parigi.

Per la Francia , dopo alcuni spettacolari valzer di alleanze, non è cambiato assolutamente niente: adesso il presidente è Déby, quindi lunga vita a Dèby. L'uomo è sicuramente meno feroce del suo predecessore Habré. Riesce a riportare, con molta fatica, un po' di stabilità nel martoriato paese e inaugura un percorso politico che dovrebbe sfociare nella classica “riconciliazione nazionale”, nella solita nuova costituzione, per approdare infine alla famosa democrazia. Il gioco funziona, la stabilità consente di occuparsi finalmente del petrolio.

Del petrolio si sapeva fin dai tempi di Tombalbaye.Era difficile però valutare l'entità dei giacimenti e quindi del business, anche perché il Ciad è molto lontano da qualsiasi sbocco al mare. Un investimento a rischio in un paese a rischio. Per questo la Elf Aquitaine , la compagnia francese che “giocava in casa”, si sfila dall'affare. Sulla questione c'è ancora un po' di mistero, ma, secondo una fonte che conosce bene la compagnia, ci fu un cambio al vertice che spiega la linea rinunciataria: il nuovo presidente veniva da una grande banca e non dal settore petrolifero, non amava il rischio e detestava l'Africa per la sua instabilità. Elf era già pesantemente coinvolta nella guerra in Congo Brazzaville, forse il paese dove il legame fra petrolio e guerra civile è emerso nel modo più spudorato (i due leader, Lissouba e N'Guesso si sono venduti cash la quota di produzione del paese, che era del 25 per cento), e anche la Francia stava vivendo una fase di transizione politica, fra Mitterrrand, Chirac e Balladur. Sono gli americani della ExxonMobil e della Chevron Texaco a occuparsi della faccenda, in consorzio con la malese Petronas.

Restano due questioni da risolvere, perché si possa sfruttare il petrolio in Ciad: trovare il finanziamento per il costoso progetto di un oleodotto di oltre mille chilometri che porti l'oro nero dal bacino di Doba alla costa del Camerun; e superare l'opposizione crescente della società civile (dalla Chiesa cattolica fino alle associazioni ambientaliste), che approfitta delle aperture democratiche per far sentire la sua voce e che teme di ripetere l'esperienza degli altri paesi africani.

A far quadrare il cerchio interviene la Banca Mondiale : finanzierà la costruzione dell'oleodotto, ma vincolerà l'uso del denaro ricavato dal governo ciadiano alla costruzione di infrastrutture, e al miglioramento di istruzione, sanità, e ambiente.

“ La Banca Mondiale , che sta sostenendo il progetto, intende evitare le pratiche opache di altri stati africani produttori di petrolio”, si dichiara ufficialmente all'ente, che dice di voler aiutare il Ciad ad uscire dalla sua povertà endemica.

I vescovi degli stati dell'Africa centrale usano termini meno diplomatici: “I contratti che i nostri stati firmano con le compagnie petrolifere sono redatti nel più assoluto segreto, a esclusivo vantaggio di queste ultime e di una piccola casta, rinforzando la nostra dipendenza economica, mentre pochi dividendi che se ne traggono non servono mai a combattere la povertà…Il petrolio finora è servito a pagare l'acquisto delle armi e le milizie private che hanno alimentato in questi anni un'insicurezza che è costata migliaia di vittime”.

Tanto per non smentirsi, il presidente Déby , a progetto appena firmato (giugno 2000) spende una bella fetta del bonus anticipato al governo del Ciad in armi. Il parlamentare che lo denuncia, Yorongar, finisce in galera. Anche la Banca Mondiale lo richiama all'ordine, si parla di 3 milioni di dollari, ma solo i tre elicotteri russi da combattimento e presto distrutti da forze ribelli del nord costano oltre 15 milioni.

Nessuno conosce davvero i contenuti della convenzione fra il governo ciadiano e il Consorzio delle compagnie petrolifere. Si sa che non è un accordo di production sharing , cioè non ci sarà una quota di petrolio gestita direttamente dal Ciad, ma solo una percentuale sui guadagni (dovrebbe essere un misero 5 per cento): le sorprese non mancheranno, quando Déby e i suoi passeranno all'incasso. Si sa anche che il paese è arrivato del tutto impreparato alla negoziazione, e tutti gli esponenti della società civile chiedevano di procedere più lentamente. La Banca Mondiale , che prima del prestito poteva davvero dettare le condizioni (e non solo al lato debole della trattativa, cioè il governo del Ciad), ha invece stretto i tempi, seguendo l'”efficienza” voluta dal mercato, anche se sostiene ipocritamente il contrario (cioè di avere studiato la questione con la società civile fin dal 1992).

Fatto sta che l'oleodotto è stato realizzato a tempo di record, e che dall'ottobre del 2003 il petrolio scorre dal Ciad ad un ritmo di 225mila barili al giorno, ormai prossimo alla piena capacità di sfruttamento (250mila barili ). Siamo già nell'Anno Secondo dell'Era Petrolifera, però i conti non tornano affatto (tranne che per i soliti ottimisti della Banca Mondiale).

Innanzi tutto, i conti li fanno le compagnie, che scalano dal prezzo i costi di produzione (che in un anno sono già triplicati) e quelli di trasporto (che sono passati da 6,5 dollari al barile a 10,5). “Però non vogliono dire dove vanno a vendere il petrolio, per cui anche l'aumento del trasporto può essere stabilito arbitrariamente”, denuncia amareggiato Dobian Asingar, presidente della Lega dei Diritti Umani e membro del collegio che dovrebbe controllare l'utilizzazione dei fondi petroliferi. “Non riusciamo a sapere niente neanche sulle condizioni di sfruttamento dei nuovi bacini in fase di esplorazione”, e conclude amareggiato, con riferimento alla situazione politica: “Tutta la comunità internazionale è perfettamente a conoscenza della situazione del paese e la nasconde”. Quando ha denunciato gli atteggiamenti autoritari di Déby ai rappresentanti dell'Unione Europea, questi non hanno battuto ciglio. Il fatto è che il Grande Presidente, dopo aver vinto elezioni largamente fraudolente per due volte di fila, ha pensato bene di modificare la costituzione, che gli impediva di presentarsi per un terzo mandato alle elezioni del 2006. Figuriamoci se vuole ritirarsi ora che arriva il grosso della manna petrolifera. Così quest'anno si voterà la modifica in un referendum popolare, che i pochi partiti di opposizione vorrebbero boicottare, ma che sicuramente andrà in porto e accompagnerà il Grande Presidente alla terza vittoria elettorale consecutiva.

Il finale della storia sembra già scritto, proprio come nel romanzo di Ahmadou Kourouma. La guerra fredda è finita, spiega il cantastorie al dittatore, dopo tutte le violenze, i complotti, le guerre, è tempo di democrazia, di “elezioni a suffragio universale, monitorate da una commissione nazionale indipendente. Voi cercherete un nuovo mandato con la certezza di trionfare, di essere rieletto. Perché lo sapete, siete sicuro che se per caso gli uomini rifiutano di votare per voi, gli animali usciranno dalla foresta, si muniranno di schede e vi plebisciteranno”.

Una cosa è certa: il malcontento nel paese cresce ogni giorno di più, al nord e al sud, fra i cristiani e fra i musulmani. La contraddizione fra il boom annunciato e la realtà quotidiana è stridente: il governo, che ha incassato i proventi del primo anno di sfruttamento, non riesce neanche a pagare gli stipendi degli insegnanti, tanto che in molte scuole l'anno scolastico 2004-2005 non è ancora iniziato. L'elettricità va e viene, l'acqua corrente idem, di strade asfaltate neanche l'ombra, nemmeno nelle zone di estrazione, avvolte costantemente nella polvere. Il paese ufficiale e quello reale sembrano non essere in contatto, ma a livello internazionale il paese reale non interessa a nessuno. E' bene prenderne atto una volta per tutte: non interessa agli USA, che hanno l'agognato petrolio, non interessa alla Francia, che continua a trattare i ciadiani come vivessero in una colonia, non interessa alla Banca Mondiale, occupata a rifarsi del prestito e ad autocelebrarsi, non interessa a questa Europa tutta chiacchiere e distintivo.

Eppure, nella fatica di ogni giorno, nell'oblio dei potenti, nella resistenza umana aggrappata alla fede, c'è un'umanità che cresce e che presto o tardi si farà sentire.

Perfino il sarcastico, amarissimo romanzo di Kourouma non si conclude con la previsione dell'ennesima vittoria per il dittatore Koyaga, ma con alcuni proverbi africani : “ Non si mettono delle vacche in tutti i parchi costruiti dallo spirito. / Alla fine della pazienza c'è il cielo. / La notte dura a lungo, ma il giorno finisce per arrivare”.

Cesare Sangalli