Reportages
Pubblicato su "Galatea" marzo 1998
Viaggio nella doppia realtà di un'isola divisa
Cipro, il muro della menzognaGreci da una parte, turchi dall'altra. In mezzo, la linea Attila, che dal 1974 segna i confini dell'odio in una terra dal turismo facile e danaroso. Fra ombrelloni e missili, fra pope ortodossi e mafiosi russi, i paradossi di un Mediterraneo senz'anima
“Divertitevi in questa terra di purezza etnica e vero apartheid. Gustatevi la vista delle nostre chiese dissacrate. Godetevi ciò che resta delle nostre case ed eredità saccheggiate”. Con questo viatico, dovuto alla premura dell'Ufficio per l'informazione della Repubblica di Cipro (quella greca, per intendersi; l'unica, secondo la comunità internazionale), lo straniero si appresta ad entrare nel pianeta proibito, nell'isola che non c'è e che si chiama Repubblica turca di Cipro del nord. Siamo a Nicosia, la capitale, l'unica città rimasta divisa da un muro sul pianeta Terra (anche questo triste primato è opportunamente segnalato vicino alla “linea verde”, il confine fra greci e turchi che taglia la città in due).
Il muro di Nicosia. Meno famoso e ideologizzato del muro di Berlino, minaccia di batterlo in durata: ad agosto è entrato nel ventiquattresimo anno e, visti i rapporti fra Grecia e Turchia, non si vedono né spiragli né screpolature. Forse nemmeno Kissinger pensava, nell'estate del '74, che quel suo piccolo “capolavoro” diplomatico sarebbe durato così a lungo.
Cipro era un imbarazzante fardello per la diplomazia americana: i conflitti fra le due comunità, esplosi in seguito all'indipendenza dell'isola nel 1960, provocavano continue tensioni fra due paesi membri della Nato (Grecia e Turchia) entrambi guidati dai militari. La Turchia era considerata il bastione contro l'espansione sovietica nel Mediterraneo e il “cane da guardia” di un Medio Oriente caldissimo (nel 1973 scoppiava la terza guerra arabo-israeliana, e l'anno successivo vedeva l'inizio della guerra civile in Libano). La Giunta dei colonnelli in Grecia stava cadendo in un delirio nazionalistico e premeva per la riunificazione di Cipro alla madrepatria ellenica: Atene non era più un partner affidabile, e la Turchia “pesava” molto di più sul piano strategico e militare. C'era poi il problema dell'arcivescovo Makarios, guida della Chiesa ortodossa e presidente della repubblica cipriota: un leader famoso per le sue simpatie verso il mondo comunista, amico di Tito e di Nasser, un personaggio assai scomodo per gli americani. Kissinger, dopo aver chiuso la guerra in Vietnam, voleva sciogliere questo groviglio mediterraneo, e la cosa gli riuscì perfettamente, all'insegna della più cinica Realpolitik. In un colpo solo, si sbarazzò di Makarios e dei colonnelli in Grecia, riuscendo ad accontentare le voglie espansionistiche della Turchia sull'isola.
Tutto successe in poche settimane. Nel luglio 1974, un maldestro colpo di stato orchestrato ad Atene e condotto da un movimento nazionalista greco-cipriota (l'Eoka B, parente povero del movimento indipendentista che era riuscito a cacciare gli inglesi dall'isola) provocò l'intervento (legittimo) della Turchia in difesa della comunità turco-cipriota. Seguì l'occupazione di una larga fetta di territorio (un terzo abbondante, i turco-ciprioti rappresentavano solamente il 18 per cento della popolazione), una feroce campagna di pulizia etnica (circa 200mila greci scapparono a sud, quasi 100mila turchi passarono a nord), un paio di risoluzioni di condanna dell'ONU per l'occupazione turca. Fine della storia.
Da ventitré anni, i rappresentanti delle due comunità, Glafkos Clerides per i greci e Rauf Denktash per i turchi (già rappresentanti delle due comunità nel '74), continuano un dialogo fra sordi, come se in Italia ci fossero ancora Aldo Moro ed Enrico Berlinguer a parlare di compromesso storico. Il mondo nel frattempo è completamente cambiato, ma loro sono sempre lì, a minacciare e a promettere, a lanciare appelli alla comunità internazionale e a gestire l'ordinaria amministrazione. Il paradosso è che Clerides e Denktash erano compagni di scuola, hanno vissuto insieme per anni senza problemi esattamente come la maggioranza dei greci e dei turchi di Cipro. I vecchi ciprioti sono unanimi nel rimpiangere il buon tempo che fu. Nonostante qualche ipocrisia sentimentale (i conflitti fra le due comunità erano reali e profondi, e provocarono uno dei primi interventi dei caschi blu dell'ONU nel 1964), ne hanno ben donde. La loro isola è profondamente cambiata, a dispetto del totale immobilismo diplomatico, negli ultimi venti anni. Cambiata in peggio, e da entrambe le parti.
Oltrepassata la “linea verde” (o “linea Attila”, nome decisamente più appropriato), accolti da una propaganda uguale e contraria (il gioco delle due verità è ancora più spudorato di quello attuato fra Est e Ovest ai tempi della guerra fredda), ci si accorge subito di una realtà innegabile: la repubblica turca di Cipro del nord è uno stato militare.
I soldati (trentacinquemila, uno ogni sei abitanti) sono dovunque, la loro presenza rende minacciosa una realtà altrimenti tranquilla, addormentata.
Kyrenia, delizioso porticciolo che vide arrivare le prime navi dell'invasione turca, sembra aspettare l'assalto estivo dei turisti nell'inerzia totale. Pochissima gente nei caffè, strade silenziose, una piccola comunità di vecchi inglesi riuniti attorno alla piccola chiesa anglicana (!) di Saint Andrew si gode il sole del Mediterraneo .“Questa è la parte più bella dell'isola - sostiene un'anziana “lady”- e anche la più intatta: noi con i turchi stiamo benissimo”.
Il boicottaggio internazionale (la repubblica turca di Cipro del nord è riconosciuta solamente dalla Turchia) significa solo meno ricchezza e più disoccupazione, perché per il resto ci sono gli stessi prodotti italiani, tedeschi, americani, le stesse macchine giapponesi o britanniche (con il volante a destra ma senza tenere la sinistra della strada come nella parte greca). Verità numero due: i turchi sono molto più poveri (e meno smaliziati) dei greci. Per precisione statistica, quattro volte più poveri (in termini di reddito pro capite). L'inflazione galoppante della lira turca rende i prezzi grotteschi: per un pranzo a base di kebab in un ristorante modesto ci vuole mezzo milione. Un litro di benzina costa 60mila lire (turche, ovviamente). I prezzi aumentano a velocità incredibile, seguendo il tumultuoso e contraddittorio sviluppo della “madrepatria”.
Famagosta, la mitica Famagosta dalle mura veneziane, che prima dell'invasione era il principale porto cipriota, è una città fantasma. Qui, neanche l'estate riuscirà a camuffare le cicatrici (putride) della guerra: la spiaggia è interrotta dai reticolati, sbarrata da minacciosi divieti di accesso (e di riprese fotografiche) che delimitano l'allucinante decadenza di Varosha, ex quartiere di alberghi e case di lusso, rimasto abbandonato dal '74, in ottemperanza agli accordi di pace.
Le antiche mura difese eroicamente da Marco Antonio Bragadin, le mura del castello di Otello, il Moro di Venezia, sono più solitarie che mai: c'è un'aria di decadenza che avvolge i ricordi della splendida architettura impiantata dalla Serenissima Repubblica su questa baia naturale che guarda la Siria.
Intorno alla moschea, che è una chiesa gotica rifatta (la luna crescente dell'Islam al posto delle croci cristiane), di vedono facce di altri continenti: pakistani, tamil, bengalesi, egiziani, siriani. Avanguardie di un'emigrazione ben più importante: quella dalla Turchia profonda, che ha reso di nuovo minoranza la comunità turco-cipriota. Non è un caso che nessuno conosca esattamente i dati sulla popolazione residente. Il regime di Ankara ha “esportato”, oltre ai soldati, decine di migliaia di coloni, in molti casi cittadini scomodi (ci sono moltissimi curdi, sia nell'esercito che fra i civili).
La nuova società della Repubblica di Cipro del nord rappresenta ormai, dopo ventitré anni, un dato di fatto praticamente incontrovertibile, ma i greco-ciprioti non si danno per vinti. Rivogliono le loro case, le loro chiese. Vogliono “ripristinare i diritti umani”, non intendono accettare una situazione imposta con la forza dai turchi, gli aggressori, i “cattivi”.
E' un ritornello talmente insistito, dall'aeroporto internazionale di Larnaca alle strade di Nicosia, che dopo un po' assume i connotati falsati di tante “verità ufficiali”. Le donne vestite a lutto che sempre più stancamente manifestano ogni domenica davanti alla “buffer zone”, la zona cuscinetto controllata dalle truppe ONU, con le loro foto in bianco e nero di figli, mariti, nipoti, ispirano un senso di compassione, eppure sembrano come orchestrate, incoraggiate da un'amministrazione che certo non si è spesa molto per riportare la pace. Arrivano i giornalisti stranieri, c'è una troupe della televisione canadese che viene accompagnata come in un giro turistico, che vorrebbe sembrare manifestazione del dolore, ma che diventa espressione dell'odio.
La parte greca coltiva da sempre un nazionalismo che spesso assume toni truci, oscuri, che ricordano più la triste vocazione balcanica alla guerra che non una moderna concezione occidentale. Si fomenta un'avversione perfino razzista nei confronti dei turchi (vittime, per la stragrande maggioranza, di questa situazione), e in certi casi si sogna ancora, di nascosto, la famosa enosis , l'unione con la madrepatria greca.
Periodicamente, i giovani più scalmanati cercano il gesto “eroico”, come strappare un bandiera turca e innalzare quella greca, trovando subito la reazione violenta dei fascisti turchi dall'altra parte (i famigerati “Lupi grigi”, milizia paramilitare che fiancheggia esercito e polizia fin dagli anni Sessanta). Se ci scappa il morto, è un “martire della libertà” che si va ad aggiungere alla lunga lista di greci morti (ma anche i turchi hanno un lungo elenco di vittime)o dispersi durante la guerra - lampo del '74 (circa ventimila uomini). E magari si tratta solo di un povero vecchio (è successo all'inizio del '97) che facendo funghi era sconfinato nella zona turca.
Fra i pochi che cercano una via alternativa alla contrapposizione frontale, ci sono i sindacati, che cercano di stabilire relazioni con i lavoratori turco-ciprioti, e l'AKEL , il partito comunista (uno dei più votati in un paese occidentale, ha il 30 per cento dei consensi), che vorrebbe una Cipro indipendente, non allineata, completamente smilitarizzata.
Il governo greco-cipriota, invece, pensa di inseguire la Turchia sul piano militare, come se le disfatte provocate dai sogni della Grande Grecia, della Nuova Bisanzio non avessero già fatto abbastanza danni. Così si acquistano carri armati T-80 in Russia e si ordinano missili S-300, sempre al supermercato di Mosca (con l'unico risultato di spaventare un po' i turisti), all'insegna del “si vis pacem, para bellum” (se vuoi la pace, prepara la guerra). Una politica assurda, appoggiata peraltro dalla Chiesa Ortodossa, che pur essendo esperta di Realpolitik (l'arcivescovo Makarios era un vero maestro dei bizantinismi del potere), non ha ancora capito che “la pace si fa con il nemico” (secondo la felice intuizione di Ytzhak Rabin).
Tutto questo agitarsi intorno ai fantasmi della guerra, tutto questo pathos rancoroso nel rievocare un passato sempre più lontano, nascondono probabilmente quella che è la prosaica realtà di Cipro. Una realtà costruita sul denaro, la vera identità nazionale degli anni '90 (non solo a Cipro, ovviamente).
La tranquilla isola del Mediterraneo, “culla di Afrodite”, è diventata un bordello “soft” per finanzieri senza scrupoli e per un turismo che un giornalista di Nicosia definisce “da pensionati del Nord Europa”.
Ventimila società finanziarie off-shore, di cui duemila operative, il resto meri indirizzi. Quattrocento milioni di dollari all'anno immessi sul mercato finanziario locale. La terza marina ombra del mondo. Un sistema bancario disinvolto, attraverso cui è stata finanziata la guerra nella ex-Jugoslavia (non vanno dimenticate le esplicite simpatie dei greci per la Serbia). E, ultimo ma non meno importante, lo sbarco massiccio della mafia russa, con contorno di ballerine, artisti e prostitute dell'est europeo. Al momento delle presidenziali in Russia, nel '96, sono spuntati come funghi settemila cittadini russi (con diritto al voto) residenti a Cipro. L'arroganza dei nuovi ricchi si tocca con mano. Lamborghini, BMW, Ferrari, fuoristrada giapponesi e le immancabili Mercedes sfrecciano e sgommano da Larnaca a Nicosia. In compenso non esiste una rete pubblica di trasporti. Cipro, la Cipro avanzata e libera, quella greca, è concepita per i turisti, non per i cittadini. L'assalto all'ambiente è stato selvaggio, la speculazione edilizia senza alcun freno, perfino i sacri monasteri ortodossi sulle montagne sono stati circondati di mini-appartamenti, residence, ristoranti (non c'è da stupirsi, visto che la Chiesa ortodossa è il principale agente immobiliare dell'isola).
Il governo greco-cipriota sfodera con orgoglio i dati del “boom” economico: inflazione al 2,6 per cento, deficit di bilancio inferiore al 3 per cento del PIL, debito al di sotto del 60 per cento del PIL, tasso di crescita del 5 per cento, disoccupazione inesistente (2,5 per cento). In altre parole, Cipro è l'unico paese, con il Lussemburgo, in grado di rispettare hic et nunc i parametri di Maastricht. Europa è la parola magica con cui si cerca di aggirare lo stallo democratico: entro l'anno i Quindici dell'Unione Europea dovrebbero dare il sì definitivo, nonostante l'opposizione della Turchia che bussa fragorosamente alle stesse porte occidentali. E forse questa è davvero la soluzione finale: tutti dentro l'Europa dei ragionieri, compresi il muro e il filo spinato.
Cesare Sangalli