Reportages
Pubblicato su "Nigrizia", aprile 2013
Punto strategico, incrocio di diplomazie, oasi di pace
Gibuti, a metà del futuro
Era un cuneo francese infilato nel Corno d'Africa. In pratica, la terza Somalia, oltre a quella inglese e italiana. Dopo l'indipendenza da Parigi, è diventata la base militare di tutti: francesi, americani, tedeschi, giapponesi, e ora perfino i cinesi. Gibuti vorrebbe diventare la “Dubai africana”, ma le sue peculiarità sembrano essere altre, nel bene e nel male. Viaggio in un piccolo miracolo islamico
Mai fidarsi della pubblicità; e mai fidarsi delle apparenze. Si arriva a Gibuti preceduti dalle pagine a pagamento su riviste internazionali come “Jeune Afrique” e dalle facili definizioni di tendenza, che parlano di una nuova “Dubai africana”, aperta al commercio e ai turisti.
Basta scendere dall'aereo per ritrovarsi in una realtà che ha molto di africano, ma niente di Dubai: terminal modesto, lunghe attese per il controllo passaporto, approccio freddo e ostile della polizia di frontiera, che invece accetta tranquillamente il qat, l'erba eccitante da masticare, da una delle tante donne intabarrate nel velo islamico, assolutamente disinvolte, però, se c'è da scavalcare la fila.
L'approccio è uno dei peggiori: macchine fotografiche sequestrate (non abbiamo – ancora - un accredito da giornalisti), trattativa sul prezzo del taxi nonostante le tariffe ben esposte sul cartello (“il cambio è vecchio”, dicono), piccola truffa all'hotel spacciata per rispetto della tradizione islamica (“due uomini non possono dormire nella stessa stanza”, quindi servono due singole invece di una doppia), e per finire conto gonfiato (e prezzi quasi europei) al primo ristorante che capita, che pure sembrava un buon posto. Si parte in salita, quindi, con un caldo soffocante (ma questo si sapeva) e senza acqua corrente, causa lavori in corso alle tubature del quartiere. Col muezzin e le cornacchie che ti svegliano alle cinque del mattino, in attesa dei secchi e del bidone pieno d'acqua per potersi lavare e rinfrescare un po'.
Altro che “Dubai africana”: se questo è il modo di accogliere gli stranieri, se questa è l'organizzazione e queste sono le infrastrutture, insomma se questo è l'andazzo, sembra di essere solo nell'ennesimo angolo di Africa, in versione islamica, anzi somala, che è tutto dire.
Ma le apparenze, appunto, ingannano. Si potrebbe quasi dire, come il “Piccolo Principe” di Saint-Exupéry (il francese è d'obbligo, da queste parti) che “l'essenziale è invisibile agli occhi”.
“Gibuti, terra di scambio e di incontri ”, recita lo slogan che compare sui manifesti all'arrivo: in questo caso la pubblicità non mente. E' una vocazione geografica, territoriale, ma anche economica, culturale, e politica. Se si dovesse esprimere in termini di slogan pubblicitario, si potrebbe dire: “Gibuti, un porto sicuro fra il mare e il deserto”. Oppure, con un risvolto più politico: “Gibuti, la pace è (anche) un ottimo affare”.
I francesi che approdarono da queste parti nella seconda metà dell'Ottocento volevano creare una base contrapposta a quella degli inglesi ad Aden, nel vicinissimo Yemen (nei punti più stretti, sono solo 10 km di Mar Rosso a separare la costa africana dall'”Arabia felix”).
Se Aden era lo snodo cruciale per Londra verso l'India, Gibuti diventò tappa obbligata per le navi francesi dirette alle colonie dell'Indocina (Vietnam, Laos, Cambogia). Anche la leggendaria Legione straniera si stabilì qui, e la città di mare diventò un miscuglio di etnie (francesi, italiani, greci, armeni, arabi, ebrei) e una sorta di “refugium peccatorum” per trafficanti, spie, agenti commerciali e avventurieri.. Fra loro, ci fu anche il “poeta maledetto” Arthur Rimbaud , in cerca di una nuova vita: “L'aria marina mi brucerà i polmoni, i climi sperduti mi abbronzeranno”, scrive in “ Mauvais sang ”. I suoi traffici di avorio, di armi, qualcuno disse (mai provato) anche di schiavi, erano diretti verso il cuore dell'Etiopia, che rappresenta l'altra anima di Gibuti, quella più interna, territorio dei leggendari Afar citati nelle saghe di Corto Maltese.
I loro conterranei, gli Issa, sono somali di origine. Le due etnie gibutine condividono il credo islamico sunnita, e hanno sempre convissuto in pace, tranne quando la Francia ci ha messo lo zampino, per cercare di prolungare il suo dominio coloniale.
Non a caso dopo la Seconda Guerra Mondiale, Gibuti, che ancora era la Somalia Francese , venne ribattezzata “Territorio degli Afar e degli Issa”. L'onda lunga delle lotte anticoloniali e l'influenza del leader egiziano Nasser si stavano facendo sentire anche qui, soprattutto sul lato somalo (quello degli Issa), che voleva cacciare tutti i poteri stranieri dalle tre Somalie (i francesi, gli inglesi e gli italiani) , mentre gli Afar erano più orientati a mantenere il legame con Parigi.
“Dopo che i francesi persero l'Algeria, la repressione qui a Gibuti si fece durissima”, ricorda Khaled Haidar, 58 anni, direttore del quotidiano “ La Nation ”, e responsabile governativo del settore comunicazione. Ma i politici gibutini hanno sempre coltivato l'arte del compromesso, di cui sembrano essere autentici maestri.
Così, l'abilissimo leader degli Issa, Hassan Gouled, riuscì ad ottenere l'indipendenza del suo paese (1977) senza privarsi della protezione militare francese. Perché in quel periodo, alla fine degli anni Settanta, Gibuti si trovava fra i due giganti del Corno d'Africa, Etiopia e Somalia, che erano entrati in aperto conflitto fra loro. Due dittatori, due militari come l'etiope Menghistu e il somalo Siad Barre, per quanto molto vicini nell'ideologia ufficiale, il marxismo-leninismo, non potevano convivere a lungo senza farsi la guerra (e fare la guerra a tutti gli oppositori interni).
“Erano molti a pronosticare che Gibuti, ottenuta l'indipendenza, sarebbe stata ingoiata da uno dei due vicini” spiega Haidar. E invece, come spesso accade, fra i due litiganti il terzo gode.
Nel 1991 i due grandi dittatori cadono miseramente, travolti dalle opposizioni interne: l'Etiopia trova subito il suo nuovo uomo forte, Meles Zenawi, leader del fronte guerrigliero del Tigray alleato con quello eritreo; la Somalia invece implode in una guerra civile permanente.
A Gibuti transitano uomini in fuga, militari allo sbando, perfino armi e addirittura aerei “salvati” un momento prima della caduta dei regimi. Difficile non restarne coinvolti in alcun modo. E infatti anche Gibuti vive il suo conflitto interno: gli Afar, che fino a quel momento avevano accettato l'autoritarismo del presidente Gouled e il regime a partito unico del suo RPP ( Rassemblement populaire pour le progrès ), danno vita ad un'insurrezione armata. Si sentono emarginati rispetto agli Issa, e, soprattutto, hanno le armi del deposto dittatore etiope Menghistu, “con la complicità di Mitterrand”, sostiene Haidar).
Il conflitto interno dura comunque pochi anni, e viene risolto con un accordo politico alla fine del 1994: Gouled accetta il multipartitismo, agli Afar viene garantita la rappresentanza in parlamento, i guerriglieri sono incorporati nell'esercito, e i leader del movimento di resistenza FRUD vengono cooptati al governo, tanto che ancora oggi formano, insieme al vecchio partito unico RPP, la maggioranza presidenziale.
Nonostante alcune turbolenze che durano fino all'accordo definitivo del 2000, il conflitto degli Afar e degli Issa è stato superato brillantemente, senza intromissioni esterne.
In pratica il regime ha allargato le sue maglie, facendo concessioni più formali che sostanziali alla democrazia. L'unico cambiamento da allora è stato il passaggio di consegne, nel 1999, dal presidente dell'indipendenza Gouled, ormai vecchio e malato, al nuovo uomo forte, Ismael Omar Gelleh, che era suo consigliere, oltre a essere suo nipote., che ancora oggi governa praticamente incontrastato.
“Sì, a Gibuti c'è una sorta di democrazia muscolare - ammette Gianni Rizzo, console onorario italiano – un tipo di regime previsto comunque da una costituzione fortemente presidenziale; però bisogna tener presente che questo è un piccolo paese in un'area a dir poco esplosiva, e qui la sicurezza è garantita a tutti”. L'ondata delle “primavere arabe” , spiega Rizzo, si è sentita anche qui, ma non in maniera eclatante, “forse perché è avvenuta a ridosso delle elezioni, che sono comunque uno sfogo naturale delle tensioni”. Il fatto è che non ci sono veri partiti di opposizione, ma solo cartelli elettorali che si formano dietro ad un leader, pronte a sciogliersi di nuovo.
Insomma non è certo sul fronte della politica interna che Gibuti propone qualcosa di interessante.
Ma è invece nella politica estera che questa piccola nazione di circa un milione di abitanti dà il meglio di sé, oltre a rappresentare una formidabile cartina di tornasole per leggere quello che accade nel mondo, per percepire i movimenti della geopolitica planetaria.
Gibuti riesce a coniugare la sua apertura all'Occidente con la sua appartenenza alla Lega Araba e il suo status di paese membro dell'Unione Africana. E ci riesce benissimo. Come riesce molto bene a tenere insieme l'Islam e la laicità dello Stato, della società.
Cominciamo con lo stretto ma difficile rapporto con la Francia , la ex potenza coloniale.
Nella percezione dei media, Gibuti è ancora un avamposto francese, sembra che la sua esistenza debba ruotare intorno alla base militare transalpina, la più grande su tutto il continente africano.
Ma le cose non stanno così. Sono finiti da un pezzo i tempi in cui i francesi qui facevano il bello e cattivo tempo, anche dopo l'indipendenza. Chiunque poteva andare e venire dalla Francia senza visto. I politici francesi passavano a visitare la loro base prima di incontrare le autorità gibutine. L'atteggiamento era simile a quello di chi va in vacanza in un posto esotico: si sono visti politici entrare nel palazzo presidenziale in short e polo. Le banche francesi, le uniche presenti sul territorio fino a un po'di anni fa, prestavano i soldi, in regime di monopolio, a tassi da usurai (fino al 16 per cento: adesso stanno al sette). E non parliamo della cooperazione: ogni finanziamento di Parigi era vincolato alla presenza di cooperanti francesi: in pratica l'ottanta per cento rientrava nelle casse transalpine, il resto lo facevano accordi economici favorevoli (questo è purtroppo un classico della cooperazione internazionale). E le basi militari stavano sul territorio gratis.
Ma il mondo cambia, e Gibuti ne è testimone di prim'ordine. Intanto, Gibuti ha sfruttato a suo favore la rivalità fra Francia e Stati Uniti, che in Africa è stata accanita, esasperata, anche se mai dichiarata.
Il governo di Gibuti ha subito appoggiato Washington dopo gli attentati dell'undici settembre. E gli USA hanno deciso di portare qui la loro base operativa per l'Africa, pagando bene per l'occupazione del suolo, e senza fare storie.
In secondo luogo, la Francia da anni va perdendo peso politico nel mondo, nonostante i tentativi di “ grandeur ” di Sarkozy . La sua Francia ha ribadito in maniera pesantissima la “tutela” militare su alcuni paesi dell'Africa centro-occidentale (Ciad e Costa d'Avorio in primis) e si è garantita i riflettori dei media internazionali (e futuri accordi commerciali) partecipando in prima fila ai bombardamenti contro Gheddafi in Libia.
Ma questo non basta, non può bastare: la Francia da sola è sicuramente condannata al declino, sia per il minor peso economico (acuito dalla crisi), sia per i mutati rapporti di forza internazionali.
Per il mondo, tutto sommato, questa è una buona notizia: Francia e Regno Unito hanno già fatto così tanti danni nel sud del Mondo, nel corso del Novecento, che dovrebbero imparare la lezione una volta per tutte, e decidere di diventare solo Europa, un' Europa dedita a costruire un mondo più armonico e democratico, come è riuscita a fare al suo interno.
Un primo passo in quella direzione i francesi lo hanno fatto, mandando a casa Sarkozy, che aveva addirittura imposto lo studio dei “lati buoni del colonialismo” nelle scuole, e che era xenofobo solo un po' meno di Le Pen. Il cambio della guardia all'Eliseo pare non sia piaciuto ai francesi residenti quaggiù, che votano in gran parte per l'estrema destra, così come in passato erano stati in maggioranza fedeli seguaci del maresciallo Pétain, capo della Francia collaborazionista nella Seconda guerra Mondiale.
Vedremo se il socialista Hollande cambierà davvero la politica estera francese,che vista dall'Africa è, al di là delle dichiarazioni di principio, neocolonialismo allo stato puro.
A Gibuti nessuno s'è mai fatto troppe illusioni. Sono abituati da sempre alla politica internazionale come gioco di rapporti basati sulla forza e sulla convenienza. Quindi, dopo l'apertura agli Stati Uniti sulla scia della “guerra al terrorismo”, Gibuti ha cavalcato l'ondata della lotta alla pirateria nel Mar Rosso e nell'Oceano Indiano, ospitando i convogli militari e concedendo suolo nazionale ai tedeschi, ai giapponesi (le prime navi da guerra nipponiche fuori dal territorio nazionale dalla fine della Seconda guerra Mondiale) e adesso perfino ai cinesi (!).
Le autorità gibutine sono talmente pragmatiche che, pur non avendo relazioni diplomatiche con Israele, ospitano una compagnia di sicurezza privata gestita da ex agenti del Mossad: i vecchi 007 offrono scorte costosissime agli yacht dei miliardari che vogliono girare in queste acque sempre irrequiete, fra lo Yemen e la Somalia , lungo le rotte delle petroliere e delle navi porta-container dell'import export dai paesi del Golfo, dalla Cina , dall'India e dal resto dell'Asia che cresce impetuosamente.
La globalizzazione in gran parte è causa dei mali che poi deve combattere, pirateria inclusa, visto che per lo più si tratta di pescatori che non riescono più a fare il loro mestiere. Però il mondo globalizzato offre anche delle opportunità, ai paesi del Sud del mondo.
Il famoso Occidente, incapace di uscire dal suo complesso di superiorità, si sta giocando molto male le sue carte. E da qui certe politiche si vedono in maniera molto semplice e chiara, come spiega Khaled Haidar: “Io ho perfezionato i miei studi e ho lavorato a lungo in Francia, prima di fare il corrispondente per l'AFP. Amo la lingua e la cultura francese, amo Aznavour e tutta la civilsation , che tutti abbiamo assorbito qui a Gibuti. Ma non ho potuto mandare le mie figlie a studiare in Francia, per il durissimo regime dei visti. Il trattamento degli stranieri è umiliante, non c'è parità di trattamento, non c'è rispetto. Per questo sono andate a studiare in Cina e in Marocco, e va benissimo così”. Ecco, se l'Europa si chiude a riccio, avvitandosi nella sua inerzia, nella sua visione meschina, priva di ideali, nel suo invecchiamento, nella sua denatalità, il resto del mondo si adegua, e trova altrove le sue opportunità.
Potete state certi che, di questo passo, arriverà presto il momento in cui Gibuti non avrà più alcun bisogno della “protezione” francese, e allora ci metterà un attimo a dire “adieu”. Sarà stata un'altra occasione mancata. Un regalo alla concorrenza “asiatica”, inutile riempirsi la bocca con i diritti umani e la democrazia, senza tenerne mai conto davvero nella pratica: Cina, India e altri paesi offrono, semplicemente, condizioni migliori.
Esattamente come i paesi arabi, grandi finanziatori di Gibuti, a partire dagli Emirati, dalla famosa Dubai: “hanno investito più loro in questi ultimi anni – 300 milioni solo per il porto – che i francesi in un secolo e mezzo”, spiega ancora Haidar. Ora la società di Dubai che gestiva il porto in sinergia con una società di Gibuti è in serie difficoltà finanziarie, per la grave crisi immobiliare che ha colpito gli Emirati. Ma con le strutture rimesse a nuovo, con il traffico di petrolio proveniente dal nuovo stato indipendente del Sud -Sudan e diretto in Cina, e con le importazioni ed esportazioni dell'Etiopia (il grosso verso la Cina , che investe in infrastrutture e compra derrate alimentari e terre fertili), il futuro del paese è garantito.
Certo, c'è sempre un prezzo da pagare: i soldi provenienti dall'Arabia saudita, per esempio, sono andati a finanziare anche e soprattutto nuove scuole coraniche e nuove moschee, favorendo la penetrazione di un Islam più aggressivo e integralista.
“E' un'involuzione che tocchiamo con mano, ogni giorno – dichiara padre Mark Desser, americano, 39 anni, missionario a Gibuti dal 2007 – soprattutto nei giovanissimi, compreso le ragazzine, che vivono in città e frequentano le scuole coraniche: sono ostili, aggressivi, hanno comportamenti che i loro genitori non hanno: può sembrare un paradosso, ma nella realtà rurale, dove la tradizione è assai più forte, c'è molta più tolleranza, apertura e spirito di accoglienza (soprattutto presso gli Afar)”. Però padre Mark, così come l'esperto giornalista Haidar o il console Rizzo, esclude che Gibuti possa diventare un paese integralista, e tutti sottolineano invece la presenza molto visibile della Chiesa cattolica (e non solo) e la convivenza pacifica di locali e stranieri, a prescindere dalla religione. Qui svariati locali pubblici servono tranquillamente alcolici, si va al mare abbigliati come si vuole, c'è visibilmente una discreta libertà in tutte le manifestazioni del vivere sociale.
Di sicuro non basta la buona volontà e l'atteggiamento pacifico dei gibutini: c'è anche un' intelligence che lavora molto bene, una presenza della polizia diffusa, ma non oppressiva, e una forte coesione della società, in cui si conoscono un po' tutti.
E poi, in quest'area della Terra, sono molte le nazioni che hanno bisogno (o l'hanno avuto nel passato recente) di un posto sicuro, dove trovare riparo: quando per esempio i due Yemen, stati molto turbolenti e riuniti faticosamente, si sono fatti la guerra, tanti yemeniti si sono rifugiati qui. Gibuti, insomma, magari per necessità o per convenienza, ha comunque sviluppato una solida cultura della pace, a partire dalla mediazione dei conflitti. Questo è il suo valore aggiunto più grande, oltre ad una comprensione delle dinamiche internazionali spesso migliore di tanti presunti “ think tank ” delle potenze occidentali.
Qui nessuno si è bevuto la leggenda dello “scontro di civiltà”, o della “crociata mondiale contro il terrorismo”; e anche la famosa, imminente supremazia della Cina è vista con il dovuto grado di realismo e scetticismo. Qui appare chiaro che l'Africa seguirà in ogni caso logiche sempre più indipendenti e autonome, e Gibuti, fra le tre prospettive (occidentale, araba, africana) sta rimarcando sempre di più la sua identità africana.
Nel triangolo fra Gibuti, l'Etiopia e il Somaliland si può già intravedere il Corno d'Africa del futuro: non più lacerato da guerre assurde e da visioni espansioniste, collegato invece da nuove infrastrutture e da reti commerciali e del sapere, unito nell'affrontare problemi comuni (come , recentemente, la siccità e la conseguente carestia).
Se aggiungiamo il Sudan del sud, il 193° stato riconosciuto dall'ONU, come parte del quartetto di paesi “amici”(anche se il Somaliland attende invano un riconoscimento che meriterebbe ampiamente), si capisce come la comune appartenenza africana abbia più senso di qualsiasi differenza religiosa o etnica.
Appare invece sempre più isolata e senza futuro la sciagurata Eritrea, che da nazione politicamente più promettente dell'area (vedi reportage sul sito) si è trasformata in una triste dittatura militare, un paese-prigione da cui si può solo scappare.
Insomma, i problemi sono grandi, per quest'area del mondo, e le dinamiche in corso sono ancora estremamente pericolose. Ma oggi, forse per la prima volta dalla fine del colonialismo e della Guerra Fredda, il quadro generale “offre una possibilità alla pace”, per dirla con le parole di John Lennon (ma senza la sua visione utopica).
Anche Gibuti, comunque, dovrà cambiare. Per ora, si può dire che la spinta verso una modernizzazione democratica è stata letteralmente “drogata” dal consumo del qat. Questa erba euforizzante, che masticata rilascia sostanze simile alle anfetamine, è sostanzialmente una droga di Stato: custodendo gelosamente il monopolio commerciale (non la produzione, che si trova in massima parte in Etiopia), lo Stato si riprende con gli interessi quello che spende in investimenti sociali (non molto, per la verità); e gestendo “politicamente” l'aumento o il ribasso del prezzo, riesce spesso a pacificare gli umori turbolenti delle masse, a neutralizzare le spinte di opposizione al sistema. Ma nel lungo periodo, anche il presidentissimo Guelleh dovrà accettare il cambiamento, volente o nolente.
Nonostante i numerosi problemi, questa terra aspra e affascinante all'interno (nelle lande surreali del Lago Abbé è stato girato “Il pianeta delle scimmie”), splendida nelle sue acque cristalline, nelle sue coste e isole incontaminate, indica chiaramente la strada del futuro a tutte le grandi potenze planetarie. Non è certo colpa di Gibuti se questo futuro è solo a metà.
Cesare Sangalli