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Pubblicato su "Galatea" ottobre 2004

L'apartheid è stato cancellato, l'ingiustizia no

Namibia, il miraggio della convivenza

Dopo il brutale colonialismo tedesco, il paese è stato il laboratorio della segregazione razziale ideata dal governo sudafricano. Una lunga lotta di liberazione portò all'indipendenza del 1990. Da allora, la Namibia gode di un' immagine idilliaca. Ma al di là delle apparenze, questa magnifica terra racchiude le laceranti contraddizioni del mondo moderno

“Il popolo Herero deve lasciare il paese. Se non lo farà, lo obbligherò con la forza. Ogni Herero, armato o disarmato, con o senza bestiame, dentro il territorio tedesco, verrà ucciso. Anche le donne e i bambini non possono restare: saranno riportati alla loro gente o uccisi. Queste sono le ultime parole al popolo Herero da parte mia, il grande generale del potente imperatore tedesco”. Con questo ultimatum, il generale Von Trotha dà inizio al genocidio degli Herero, la più combattiva delle etnie nell'Africa del Sud-ovest (questo era all'epoca il nome della Namibia). E' il 2 ottobre 1904, ed è ora che il colonialismo tedesco mostri il suo vero significato (quello di tutti i colonialismi): la brutale appropriazione della terra e delle sue risorse.
Fino a quel momento, per una questione di rapporti di forza, i rappresentanti del kaiser Guglielmo si erano limitati a sfruttare i contrasti fra i popoli della Namibia, in particolare gli Herero e i Nama-Damara, e a strumentalizzare l'opera dei missionari, avanguardia dell'espansione coloniale fin dal suo inizio (1884). Ora si trattava di espropriare la terra per darla alle migliaia di volonterosi coloni in arrivo dalla Germania. Nonostante alcune sorprendenti vittorie indigene (soprattutto con il capo guerriero dei Nama Witbooi), l'operazione riuscì perfettamente: solo un Herero su cinque si salvò (le cifre esatte non si conosceranno mai), mentre le popolazioni Nama e Damara vennero praticamente dimezzate. I superstiti furono cacciati nelle regioni più inospitali di questo paese arido, che deve il suo nome al deserto del Namib.
Il turista che visita la Namibia non ha la più pallida idea di questo lato sanguinario della presenza occidentale moderna in Africa. Vede la chiesa luterana di Windhoek, le case art nouveau di Luderitz, la vecchie stazioni ferroviarie con le scritte in caratteri gotici, l'ordine e la pulizia teutoniche delle cittadine del sud, l'esotismo unico di un'Africa tedesca. Troppo tempo è passato da quei giorni tristi, perché ricordarli con qualche ingombrante monumento, o con delle fastidiose lapidi?
“I nostri nonni ci parlavano di un tempo in cui le terre erano nostre, un tempo mitico che ricordavano con orgoglio, e ci spiegavano l'origine della nostra rovina”, spiega Rosalinda Namises, 46 anni, ex infermiera eletta all'Assemblea nazionale. Terra, casa, lingua, tradizione: tutto stravolto, cancellato, manipolato.
Quando i tedeschi, nel corso della Prima guerra mondiale, furono sconfitti dall'esercito sudafricano alleato dell'Inghilterra, gli abitanti della Namibia pensarono forse ad un futuro migliore. Si sbagliavano. La comunità tedesca sconfitta in guerra venne trattata con riguardo: ma per la gente di colore si preparava con uno zelo degno di miglior causa la società della perfetta segregazione razziale, secondo la teoria asettica degli “sviluppi separati”. L'apartheid, applicato di fatto in Namibia per poi essere formalizzato ed esteso a tutto il Sudafrica (ufficialmente è avvenuto il contrario). Ognuno al suo posto: gli Herero con gli Herero, i Nama con i Nama, gli Ovambo con gli Ovambo, i misti con i misti, ad ogni gruppo la sua parte di terra o il suo ghetto urbano, la zona di casa segnata con una lettera dell'alfabeto, ad ognuno il suo numero di razza: 01- white 02- coloured 03 –baster (che deriva da bastard, incrocio fra boeri e africani) 04 – damara, e così via.
“Il giorno che vennero a prendere mio padre io ero a scuola,”- ricorda ancora Rosalinda - “Portavano via le persone sui camion, e assegnavano i nuovi alloggi, piccoli, con il bagno esterno in comune. A volte marito e moglie capitavano in due zone diverse, a seconda dell'etnia o per semplici errori, un'esperienza traumatica. Siamo stati sradicati dalla nostra vita e trapiantati in un'altra”.
Una vera e propria urbanistica del razzismo: i bianchi nelle ville e villette dei quartieri residenziali; un centro cittadino riservato al lavoro e allo shopping, a cui accedere rigorosamente in automobile; all'esterno, invisibili, le townships nere, con la gente che si spostava in autobus, veniva a fare il lavoro umile in città e alle cinque della sera doveva essere già sparito: guai a farsi trovare in centro dopo quell'ora. L'esatto contrario delle antiche città italiane, che uniscono le persone, le amalgamano nella polis di tutti. La spartizione razziale di ieri oggi è spartizione sociale: a Windhoek, gli ultimi stanno a Katutura (il cui nome significa, non a caso, “il posto dove non vogliamo stabilirci”), ben distante dal centro della città, pulito, ordinato, elegante. Un ambiente perfetto, rovinato solo dal filo spinato, dai fili elettrici e dalle inferriate intimidatorie che insospettiscono il visitatore europeo: cosa c'è da temere, in un ambiente così tranquillo, così poco affollato (la capitale namibiana ha solo 250mila abitanti)? Antiche abitudini, spiegano, eredità del vecchio regime, come il cartello “il diritto di ammissione è riservato”, visto molto spesso. La pigrizia mentale dei cittadini di origine europea (i namibiani bianchi) è tale che a Luderitz, sull'Atlantico, uno dei migliori alberghi si trova in una via intitolata ad un gerarca nazista (Goering).
Fu proprio la creazione del ghetto di Katutura, negli anni Cinquanta, la goccia che fece traboccare il vaso. Era arrivato il momento di dire basta all'occupazione della Namibia da parte del Sudafrica, in barba alla decisione della Corte Internazionale di Giustizia del 1950 di affidare il paese alle Nazioni Unite, e basta alla politica sempre più opprimente dell'apartheid.
Fu nel nord del paese che si organizzò la SWAPO (South West Africa People's Organization), il movimento di liberazione nazionale, formato in primis dall'etnia Ovambo, maggioritaria in Namibia allora come oggi. L'ispirazione marxista della SWAPO, guidata da Sam Nujoma a partire dal 1959, permise al movimento di non cadere mai nella tentazione tribale, continuamente alimentata dalla propaganda del regime razzista e dalla politica di separazione etnica. Nella visione degli afrikaners, i discendenti dei primi coloni olandesi detti anche boeri (boer significa “agricoltore” in afrikaans), la supremazia della razza bianca era voluta da Dio, e ogni forma di contaminazione era immorale. “Sono calvinisti fanaticamente convinti che sia stato Dio a dirigerli in Sudafrica e a guidarli attraverso mille peripezie, e sono pronti anche a morire in difesa della propria sorte” (L.N. Neame, The History of Apartheid).
La lotta nei primi anni è solamente politica: manifestazioni, scioperi, appelli all'ONU, richieste al governo. La risposta del regime è una e una sola: repressione violenta. Basta aver indetto una riunione o firmato un appello per finire in galera. Lo stato che a livello ufficiale è spacciato per democrazia è uno stato di polizia, dove anche i diritti più elementari vengono calpestati senza scrupolo alcuno.
Nel 1966 la SWAPO passa all'attività militare, una guerriglia mordi e fuggi con le basi in Angola e in Zambia. La Namibia si trasforma in un piccolo Vietnam per il governo di Pretoria. Ma è soprattutto a livello diplomatico che il Sudafrica razzista perde punti: l'ONU condanna nuovamente l'occupazione della Namibia e nel 1973 riconosce la SWAPO come “rappresentante autentica del popolo namibiano”. Tutti i tentativi di isolare il movimento di Sam Nujoma falliscono miseramente, compresa la formazione di una ridicola coalizione politica di collaborazionisti (la DTA), nominata su base etnica, per dare vita ad un parlamento fantoccio.
A metà degli anni Settanta, il fronte namibiano si incrocia con la guerra in Angola contro il colonialismo portoghese. L'Africa è una scacchiera dove si affrontano USA e URSS, nella logica della guerra fredda. Quando l'Angola ottiene l'indipendenza (1975) la fazione comunista al potere viene sostenuta dai sovietici e dai cubani, che mandano un contingente militare a combattere contro il fronte opposto dell'UNITA, sostenuto militarmente dal Sudafrica e finanziariamente dagli USA. La linea del Sudafrica diventa: “niente indipendenza alla Namibia se i cubani non ritirano le truppe dall'Angola”. L'ONU non accetta questa impostazione, ma la situazione non cambia, finché dopo anni di laboriose trattative si arriva ad un accordo fra Cuba, Angola e Sudafrica (dicembre 1988) che schiude il cammino per l'indipendenza della Namibia e la fine dell'apartheid.
I tempi ormai sono maturi: il governo di Pretoria, sfiancato dalla guerriglia, dall'opposizione dell'African National Congress e dalle pressioni internazionali (per quanto sia stato “salvato” più volte dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna al Consiglio di sicurezza) vuole chiudere il fronte lontano per affrontare meglio la situazione interna. La Namibia ancora una volta si presta a fare da laboratorio, perché nonostante le grandi dimensioni (è grande quasi tre volte l'Italia) ha una popolazione di meno di due milioni di abitanti soltanto: se la società multirazziale funziona lì, può funzionare anche in Sudafrica. Oltretutto, c'è l'ottimo precedente della ex Rhodesia, terzo paese africano dominato da una minoranza bianca all'insegna della segregazione razziale: la lunga guerra di liberazione condotta da Robert Mugabe ha portato agli accordi di Lancaster House del 1979, che hanno dato vita allo Zimbabwe, una nuova nazione basata essenzialmente su una spartizione di fatto: ai neri il potere politico, ai bianchi il potere economico.
E' lo stesso schema che viene applicato alla Namibia finalmente indipendente (21 marzo 1990): il presidente del nuovo stato è naturalmente Sam Nujoma, leader indiscusso della SWAPO; il risultato delle urne, alle prime elezioni libere (1989), è stato uno scontato trionfo per il “padre della patria” e per il partito di tutti i neri, secondo il principio consolidato “one nation, one leader, one party”.
La nuova costituzione è quanto di più liberale, democratico e illuminato si possa immaginare: tutti i diritti dell'individuo sono tutelati, a partire da quello che sta più a cuore alla minoranza bianca, il diritto di proprietà. E' chiaro come il sole che il socialismo sbandierato da Nujoma, esattamente come per il suo collega Mugabe in Zimbabwe, è buono solo per le cerimonie e i discorsi ufficiali: saluta con il pugno chiuso, chiama tutti “compagni”, ma non si sogna nemmeno di sfiorare “la gallina dalle uova d'oro”, l'economia capitalista che resta in mano ai padroni di sempre.
D'altra parte, come afferma ironicamente un giornalista cubano, la Storia sembra aver dimostrato che “il comunismo è solo la via più lunga per arrivare dal capitalismo al capitalismo”.
La nuova Namibia pareva destinata a diventare un'oasi di stabilità, democrazia e benessere in un continente tormentato, un esempio di società multirazziale e multiculturale, di convivenza pacifica. A 14 anni dall'indipendenza, l'immagine ufficiale è proprio questa, ma è valida solo per i turisti e per gli investitori internazionali (ci sono tutte le condizioni per fare ottimi affari, qui). La realtà sembra sfuggire agli occhi stranieri, perduta negli spazi immensi, negli orizzonti desertici di questa terra di roccia, sabbia e silenzio. C'è così poca gente che tutti i problemi appaiono lontani, come le rare macchine che si incontrano su strade che sembrano portare verso le nuvole, nella luce abbagliante del Tropico. La Namibia è un miraggio: sembra un paradiso, ma non lo è affatto.
Le statistiche inchiodano il paese ad una realtà impietosa: nonostante tutti i parametri macroeconomici siano soddisfacenti (bilancia dei pagamenti in attivo, tasso di crescita oltre il 3 per cento, PIL pro capite cinque volte superiore a quello dei paesi africani poveri), nonostante la Namibia sia il leader mondiale dei diamanti di alta qualità (30 per cento della produzione planetaria), il suo indice di sviluppo umano si colloca ad un penoso 124° posto. Questo incredibile paradosso si spiega facilmente se si considera che nella classifica della peggiore distribuzione della ricchezza, la Namibia svetta ai primi posti. Una nazione che ha la popolazione di una grande città italiana riesce a mantenere un tasso di disoccupazione superiore al 40 per cento.
In altre parole, è la disuguaglianza fatta sistema. E fra tutte le diseguaglianze, quella più sentita dalla gente riguarda la terra.
“Abbiamo combattuto per la terra, ma abbiamo ottenuto solo le briciole. La maggior parte della terra è ancora occupata da quelli che hanno goduto di un lungo periodo di prosperità sfruttando i namibiani. Queste persone diventano più ricche, mentre gente come noi vive negli accampamenti, senza speranza. La terra deve essere divisa equamente”. Così scrive un lettore a “The Namibian”, il più importante quotidiano nazionale. La riforma agraria è forse il simbolo del fallimento della politica in Namibia. La comunità di origine europea si sente tutelata dagli stessi principi democratici che ha disprezzato per decenni; tutta la violenza perpetrata ai danni della maggioranza di colore è stata rimossa in un attimo, qui non c'è stata nessuna “Commissione di Verità e Riconciliazione” come in Sudafrica a far emergere il passato (vedi l'ottimo film “In my country”). D'altra parte, non erano pochi all'interno della SWAPO a voler voltare pagina in fretta, per dimenticare omicidi, violenze, torture e sopraffazioni commesse durante il conflitto, come accade immancabilmente in tutte le guerre.
Il potere politico e il potere economico si sono cristallizzati. L'élite bianca ha allargato i suoi privilegi ad una nuova élite di colore. Per la riforma agraria si è stabilito il principio di base “willing buyer, willing seller” (“compratore volontario, venditore volontario”): lo Stato compra a prezzi di mercato (opportunamente rincarati) la terra che i grandi proprietari bianchi decidono di vendere. Su questa base non poteva cambiare molto. In 14 anni solo 118 su 4mila fattorie sono state comprate, e ridistribuite a 37mila agricoltori. Le terre migliori sono andate agli amici degli amici, gli altri si sono dovuti arrangiare. Spesso i nuovi proprietari neri hanno cacciato dipendenti che lavoravano da anni per i farmer bianchi: per risolvere un problema, se n'è creato uno più grosso. Qualcuno comincia a capire che non si tratta semplicemente di togliere la terra a qualcuno per darla a qualcun altro: coltivare la terra è difficile e oneroso, occorrono capacità notevoli e ingenti capitali, soprattutto in un paese dove l'acqua è scarsa. Le rivoluzioni (finte) le fanno i capi dei partiti dominanti (come sta accadendo in Zimbabwe): i braccianti, gli agricoltori sotto padrone chiedono soprattutto sicurezza: una casa da cui nessuno ti dirà mai di andartene, un po' di terra da coltivare, l'accesso al credito e un po' di assistenza tecnica e commerciale. Possibilmente anche un salario decente, non la miseria di 40 euro al mese, quando va bene (per il turista, il costo di una notte in una pensione familiare). I proprietari e gli imprenditori bianchi spiegano che non bisogna avere un approccio emotivo alla questione, che si deve salvaguardare lo sviluppo, guardare la razionalità economica. Deve essere per la razionalità economica che la gente sta peggio oggi rispetto a vent'anni fa, nonostante la crescita della ricchezza prodotta: non a caso qualcuno arriva addirittura a rimpiangere l'epoca dell'apartheid (proprio come si rimpiangono i regimi comunisti o la dittatura di Saddam Hussein): c'era più lavoro, si viveva meglio, i figli venivano mandati a scuola. Paradossi delle democrazie liberiste, così smemorate quando si parla di giustizia sociale, diritti sostanziali, pari opportunità, redistribuzione della ricchezza, fiscalità progressiva. L'Occidente, ammesso che esista, sembra non riprendersi più dalla sbornia per la vittoria sul comunismo, resa più trionfale proprio dai comunisti sparsi ai quattro lati del pianeta. Intere classi dirigenti, in Namibia come nel mondo, ribadiscono lo stesso concetto: la situazione è vergognosa, ma va bene così.
A novembre si vota per il nuovo presidente, e il grande vecchio Sam Nujoma va in pensione. Sicuramente il suo nome passerà alla storia, ma il suo bilancio politico è fallimentare. Aveva un potere enorme nelle mani, ma tre mandati presidenziali non sono stati sufficienti per sanare la vergognosa sperequazione economica e sociale della società namibiana. Davvero un'impresa alla rovescia, visto che doveva soddisfare le esigenze di una popolazione così limitata in una terra così ricca. Forte con i deboli e debole con i forti, questa è la dura verità. Per l'élite bianca e per la comunità internazionale è un esempio di realismo, equilibrio, saggezza. Per i namibiani che hanno aperto gli occhi, è un capo arrogante e autoritario, capace di sparare a zero contro i gay e le opposizioni, di autocelebrarsi come tutti i rivoluzionari al potere, ma assolutamente incapace di portare alla sua gente la dignità per cui aveva combattuto una lunga e sporca guerra. Alla fine, al di là dell'iconogarfia guerrigliera, Nujoma è l'ennesimo burattino nelle mani dei signori del business internazionale, a cominciare dall'onnipotente e onnipresente De Beers, la famosa compagnia dei diamanti. Guerra e risorse minerarie sono una costante del continente, e Nujoma ha coinvolto l'esercito namibiano nel lurido conflitto della Repubblica Democratica del Congo, un appoggio al presidente Kabila in cambio dello sfruttamento di una miniera, della cui gestione non è dato sapere nulla, come dell'intera faccenda dei conflitti e delle miniere congolesi.
A sostituire Nujoma come candidato e probabile futuro presidente c'è un altro settantenne, un altro vecchio, fedele compagno di tante battaglie, Hifikepunye Pohamba, attuale ministro del territorio, l'uomo della riforma agraria che nessuno ha ancora visto. Tutti danno per scontata la sua elezione e la quarta vittoria consecutiva schiacciante della SWAPO, nonostante l'enorme delusione di tanti suoi ex sostenitori. La stabilità è il bene supremo per gli investitori e per i turisti, e la Namibia sembra destinata a vivere in pace per molti anni ancora.
Però, chissà perché, di notte non esce quasi nessuno. Al di fuori degli orari di chiusura dei negozi, alle cinque della sera, come ai tempi dell'apartheid, ci sono in giro solo guardiani, addetti alla sicurezza e un po' di macchine. Che sintesi potente della modernità: un mondo di consumatori spaventati da tutto. Spesa, lavoro, automobili e case-bunker, dove la televisione ci informa dell'episodio di cronaca nera casalingo (in Namibia la criminalità è in deciso aumento) o dell'incubo del terrorismo nel mondo.
Per fortuna, non è solo questa la realtà. Le nuove generazioni in Namibia crescono senza il vergognoso fardello portato dai genitori. Gli africani poveri dimostrano mediamente una forza d'animo eccezionale, una grande capacità di perdono e un pragmatismo inossidabile. Un chiaro esempio di tutto ciò si riscontra nell'approccio della gente alla questione linguistica. Dopo che l'inglese, la lingua franca degli esiliati e quindi della liberazione, è stato adottato come lingua ufficiale, moltissimi neri, soprattutto nella Namibia meridionale, continuano a parlare fra loro l'afrikaans la dura lingua del padrone boero, che consente di superare le barriere dell'etnia (a cui i boeri li volevano inchiodare per sempre). Difficile non essere d'accordo con il poeta namibiano Kavevanga Kahengua, discendente del martoriato popolo Herero, tornato nel suo paese dopo un lungo esilio in Botswana: “Mi piacerebbe imparare le lingue/ ma le detesto/ perché nessuna/ è la mia”.

Cesare Sangalli