Reportages
Dove il “villaggio globale” è pura realtà
Suriname, lezioni di futuro
Non è una nazione, è un trattato di antropologia culturale vivente. Africani, indiani, asiatici, europei, si sono ritrovati insieme in questo angolo di Amazzonia affacciato sull'Atlantico, fra Brasile e Venezuela, e comunicano fra loro in olandese. La storia alla rovescia del paese più colorato del mondo
La luce gialla delle vetrate della chiesa di Sant'Alfonso illumina tutte le sfumature della pelle del popolo di Dio. L'unico bianco sta celebrando la messa dall'altare. E' padre De Bekker, 58 anni, olandese, un prete-antropologo che fa l'insegnante. I fedeli che ascoltano la sua omelia andrebbero fotografati uno ad uno: si va dalle trecce “rasta” ai crani rasati alla Ronaldo, i tratti somatici confusi, occhi a mandorla e capelli crespi, pelle nera e capello liscio; il “look” eterogeneo, completi giacca e cravatta e magliette da calciatore, minigonne e vestiti da prima comunione, tacchi a spillo e ciabatte. Tutti in piedi al momento di recitare, ad una sola voce, il credo. In latino. E dopo la messa, tutti a prendere il tè, come si fa nelle chiese inglesi.
In un'afa tropicale, in un ritmo di vita al rallentatore, a Paramaribo, capitale del Suriname, la realtà sembra evaporare nel sogno. Camminando lungo Kaiserstraat deserta, si passa davanti alla moschea, ad una mezza dozzina di chiese cristiane, alla sinagoga in legno, mentre a poca distanza si intravedono le guglie di un tempio indù. No, non è un sogno, lo dicono le statistiche: i surinamesi sono induisti (26 per cento), cattolici (22 per cento), musulmani (19 per cento), protestanti (18 per cento).
Qui non c'è una maggioranza e una minoranza, non c'è la categoria del “diverso”, il “noi” e gli “altri”. Qui l'elemento etnico, quello religioso e quello culturale, che ossessionano gli europei in crisi di identità, sono semplicemente andati a farsi benedire, tutti gli schemi sono saltati, ma nessuno sembra preoccuparsene. Non c'è criterio che possa definire questa nazione: troppo ricco per essere considerato un paese del Terzo Mondo, troppo povero per far parte del Nord economico mondiale, il Suriname occupa un dignitoso 66° posto nella classifica dello sviluppo umano. Aurea mediocritas . Né carne, né pesce. Una terra sconosciuta, che prima dell'indipendenza (1975) aveva un nome da dividere per tre: Guyana, come la Guyana inglese, come la Guyana francese, insignificanti possedimenti coloniali fra la foce dell'Orinoco e il bacino del Rio degli Amazzoni. Posti da carcerati o da evasi, “famosi” solo per le prigioni e le evasioni del celebre “Papillon”. Posti di giungla e di malaria, di caldo insopportabile e decadenza salmastra.
Ma è proprio in questo angolo del pianeta che la Storia ha ribaltato le sue pesanti certezze, a partire da quella del dominio assoluto dell'uomo bianco.
La prima eccezione riguarda le popolazioni autoctone, gli indios che hanno dato il nome alla regione (Wayana e Caribe). Distrutti, sottomessi e umiliati in tutto il Nuovo Mondo da conquistadores e cow-boys , gli amerindiani (questo è il nome corretto) del Suriname hanno respinto gli assalti degli spagnoli, grazie alla perfetta conoscenza della foresta e alla grande organizzazione militare. Gli spagnoli lasciarono via libera agli inglesi, guidati da sir Willoughby, che stabilirono una convivenza pacifica, interessandosi solo alla ricerca dell'oro lungo il corso dei fiumi amazzonici.
Le cose cambiarono con l'arrivo degli olandesi, nella seconda metà del Seicento. La loro guerra contro gli inglesi nel continente americano era finita senza vincitori né vinti: ma le rispettive conquiste, sancite dal Trattato di Breda nel 1667, avrebbero avuto destini opposti. Agli inglesi andava una penisola sulle coste settentrionali chiamata Nuova Amsterdam: nessuno poteva immaginare che sarebbe diventata New York, il centro della modernità. Gli olandesi si tennero Paramaribo, cioè il nulla. A partire da questo momento la storia della Guyana olandese aggiunse un'altra pagina nera all'atrocità tutta occidentale e “cristiana” dello schiavismo. I nuovi abitanti della colonia arrivarono in catene a Fort Zeelandia (che oggi ospita manifestazioni culturali) dall'Africa Occidentale. Erano in maggioranza Ashanti della Costa d'Oro, l'attuale Ghana. Manodopera costantemente brutalizzata, costretta a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero.
La violenza dei padroni bianchi è allucinante, completamente gratuita. Ma questa è la foresta amazzonica, non i campi di cotone dell'Alabama o del Mississippi.
Gli schiavi si ribellano, la giungla li accoglie. Appena possono, fanno fuggire le mogli e cominciano ad organizzarsi un'Africa da questa parte dell'Oceano. I padroni provano di tutto per domarli, cercano perfino un'improbabile alleanza con gli indios. Niente da fare. Per John Gabriel Stedman, avventuriero inglese che partecipa ad una caccia al negro ribelle nel 1772, è chiaro che “...Sorgerà un capo africano, che condurrà i suoi amici feriti in una lotta sanguinosa; ci ripagherà con una guerra di vendetta, rendendoci sangue per sangue e terrore per terrore” (“Expedition against the rivolted negroes of Suriname”).
I capi africani sono addirittura tre; Bonni, Baron e Joli-Coeur. I loro nomi fanno tremare i proprietari terrieri olandesi costretti a vivere in stato di assedio a Paramaribo, mentre nelle piantagioni divampa la rivolta. Alla fine del Settecento, i bianchi devono accettare la pace: nessuno disturberà più gli ex schiavi, che ricominciano a vivere secondo le loro tradizioni e i loro costumi nel grande utero verde della foresta. Sono i “bushnegroes”, i neri della giungla. Loro non dovranno mai cercare le loro radici fuori dai ghetti, perché non le hanno mai perse. E' l'unico caso sul continente, dall'Alaska alla Patagonia: poche migliaia di persone su oltre cinquanta milioni di afroamericani. “Uno dei loro capi, Asongo Abokoni, della tribù Saramacca, ha fatto un viaggio in Ghana, dove è stato accolto dai leaders Ashanti” dice padre De Bekker: “stessi riti, stessa lingua, un'esperienza fantastica. Come venire a Roma da un altro mondo e conversare in latino”.
Gli afroamericani diventano la spina dorsale della nazione. Oggi rappresentano il 15 per cento della popolazione, ma sono la maggioranza se si considerano anche i “creoli” (termine che in Suriname indica tutte le possibili combinazioni dei neri). Sotto la supervisione sempre più illuminata degli olandesi, già nella seconda metà dell'Ottocento, i neri che lasciano la foresta vanno a formare l'élite politica, scelgono le professioni liberali (avvocati in particolare), diventano insegnanti. Serve nuova manodopera, altri braccianti nelle piantagioni. Li fanno venire dall'India, dove già lavoravano il tè e le spezie per Sua Maestà Britannica.
Sono il nuovo proletariato guardato dall'alto in basso dall'élite nera (altro rovesciamento della storia). Iniziano come braccianti, sfruttati ma non schiavi. Poi diventano piccoli “farmers”. Infine si danno al commercio, la loro autentica vocazione, e nel giro di un paio di generazioni diventano i più ricchi del paese. A sostituirli nel duro lavoro agricolo arriva la terza ondata migratoria: gli indonesiani, che provengono perlopiù dall'isola di Giava (per questo oggi sono indicati come “Javanese”). Dopo l'induismo, anche l'Islam sbarca nel continente più cattolico del mondo. La Chiesa di Roma aveva già messo solide radici fra i “Bushnegroes” e gli amerindiani, facilitati alla conversione dalla tradizione di monogamia e di condanna dell'adulterio (entrambe le comunità sono curiosamente matrilineari: la discendenza segue la linea femminile). E per quanto minuscola, anche la comunità ebraica ha radici antichissime da queste parti (la sinagoga di Jewish Savannah, in mezzo alla giungla, è la più antica dell'Emisfero occidentale). Se gli ebrei si sono indeboliti moltissimo, è soprattutto per il divieto di matrimonio fra il gruppo sefardita (che veniva dal Brasile, ma era originario del Portogallo) e quello askhenazita (proveniente dall'Olanda). E' triste che spesso i figli di Israele non arrivino a dieci uomini per far vivere la loro sinagoga, sempre più abbandonata. Ma è bello vedere mulatti con la stella di Davide al collo, che magari frequentano (come molti altri ebrei) una chiesa protestante.
I popoli del Suriname si mescolano a scuola, il resto del gioco lo fanno i sentimenti e l'eros. Solo gli indù sono decisamente più restii ai matrimoni misti, “ma a livello sociale non esistono barriere o distinzioni, tutti stanno con tutti” dichiara Leo Morpurgo, 75 anni, ebreo color caffellatte di origini veneziane, da trent'anni direttore del “De Ware Tijd”, il principale quotidiano di Paramaribo. “Solo a livello politico, da un po' di anni a questa parte, è aumentata l'appartenenza per etnie, ma questo fenomeno sembra orientato più a garantire l'equilibrio che non a farlo saltare” aggiunge l'anziano giornalista.
La democrazia surinamese aveva basi molto fragili, al momento dell'indipendenza (“ma non impari mai a nuotare, se non ti butti in mare” sostiene Morpurgo). Nel 1980 un ufficiale dell'esercito, Desi Bouterse, conquista il potere con un colpo di stato. E' un grande demagogo, il suo populismo nazionalista ottiene un notevole consenso. Negli anni Ottanta il Suriname conosce il fenomeno della guerriglia, di apparente origine etnica: in realtà sia l'Esercito di liberazione surinamense (conosciuto anche come “Jungle Commando”) che vorrebbe rappresentare i “bushnegroes” e la formazione “Tucayama” che lotta per gli indios nell'ovest, sono sostanzialmente bande di avventurieri. Ronnie Brunswijk, comandante del “Jungle Commando” era addirittura il capo della guardia del corpo di Bouterse. Nel 1987 si arriva alla pacificazione e la democrazia viene ripristinata, con l'introduzione di una nuova costituzione. Le elezioni del 1991 sono vinte dal Nuovo Fronte di Ronaldo Venetiaan, un integerrimo professore universitario, che viene nominato presidente della repubblica.
La sua politica di tagli alla spesa pubblica per risanare le finanze statali gli fa perdere molti consensi. Alle elezioni del '96 il Partito Nazionale Democratico di Bouterse si prende una parziale rivincita, e riesce a far eleggere Jules Wijdenbosch presidente. Bouterse, vecchio dittatore in pensione, manovra ancora i fili della politica, ma oggi deve fronteggiare le accuse di essere coinvolto nel traffico di cocaina.
Il popolo surinamese non sembra appassionarsi molto alle vicende politiche. A dire la verità non sembra appassionarsi molto a niente. Senza eccessive preoccupazioni economiche e senza manie di sviluppo, con una buona scolarizzazione di base, i surinamesi uniscono ad una certa gioiosa indolenza di stampo tropicale un gentile distacco tipico della mentalità olandese. Uno dei segreti di tanta tranquillità è sicuramente il grande spazio a disposizione: il Suriname è la nazione con la più bassa densità di popolazione del mondo (solo tre abitanti per chilometro quadrato). Paramaribo dà spesso l'impressione di una città fantasma: poca gente nelle strade, poco traffico. Praticamente nessun turista, anche se questa terra offre bellezze naturali incredibili (si sta sviluppando un certo turismo alternativo ed ecologico, ma siamo solo agli inizi). I surinamesi in realtà viaggiano tantissimo, ma quasi esclusivamente in una direzione: da e verso l'Olanda. I voli “KLM” da Amsterdam a Paramaribo fanno registrare per lunghi periodi il tutto esaurito.
Il “prodotto nazionale” esportato più conosciuto è rappresentato dai calciatori (anche se in termini di ricchezza reale è la bauxite la risorsa principale del Suriname). Gullit, Rijkard, Winter, Kluivert, Davids, Seedorf: l'elenco dei calciatori di origine surinamese è lunghissimo. Ma il “voetbal”, come si chiama da queste parti, è monopolio dei neri e dei “creoli”: gli asiatici non si sono lasciati ammaliare dal dio pallone. Niente a che vedere, comunque, con la passione delirante tipica di tutto il continente sudamericano, per quanto tutti gli atletici “black boys” che giocano a calcio siano affascinati dal vicino Brasile.
C'è solo uno stranissimo sport che unisce tutte le componenti etniche del Suriname: il “bird contest”, la gara di canto degli uccelli. E' impossibile non notare, per le strade di Paramaribo, decine e decine di uomini con la loro gabbietta in mano. Sono tutti proprietari di piccoli cantanti con le ali, che si sfidano in tornei interminabili la domenica mattina, nella piazza verde davanti al Parlamento, a due passi dall'Oceano. Ammaestrare un “pycolet” o un “twa-twa” (uccelli della foresta amazzonica) è un'arte (di origine cinese), che richiede una cura quasi maniacale dei pennuti. I veri cultori possiedono almeno quattro uccelli (sicuramente i più poveri non si possono permettere questo gioco, visto che un buon “cantante” costa quattro-cinque milioni di lire). I “cantanti” sono tutti maschi, devono essere eccitati ad arte perché rendano al meglio. Vivono a lungo, più di venti anni, e diventano quindi membri delle famiglie dei proprietari. Molti uccelli possono essere lasciati liberi, ritornano da soli verso la gabbia, verso il padrone.
La gara è una gara di quantità: si calcola quante volte ogni campione emette almeno due note consecutive, in 15 minuti. Questa competizione esalta il forte individualismo dei surinamesi, che sono tesissimi durante le sfide canore. Le scommesse sono vietate. Alla fine di ogni torneo (che si può giocare anche a squadre) viene imbandito un banchetto aperto a tutti.
Questa è la massima passione di Paramaribo, la città che venne scambiata con New York. Completamente ignorati dal resto del mondo, i surinamesi vivono tutti i giorni, tranquillamente, quel “villaggio globale” che molti di noi occidentali supersviluppati troviamo solo su Internet o alla televisione. Dalla foresta amazzonica arriva un' autentica “lezione di futuro”.
Cesare Sangalli