Reportages

 

 

english version




 

In fondo al più grande mistero sudamericano
Colombia, il silenzio degli innocenti

Un paese che sembra impossibile da decifrare. Dove nessun ciclo si chiude veramente, e tutto cambia per rimanere uguale. La liberazione di Ingrid Betancourt, la morte del leader delle FARC, il “successo” della politica del presidente Uribe, sono solo la copertura di una realtà che non vuole mai mostrarsi per quello che è

A Bogotà piove quasi sempre, e fa anche abbastanza freddo, eppure siamo vicini all'Equatore. “Autunno eterno”, lo definiva Enzo Baldoni nel suo ultimo libro- reportage (“Piombo e tenerezza”). Bogotà è piuttosto moderna, pulita e ordinata. Una città tranquilla. In confronto a Caracas, qui sembra di stare in Svizzera. Eppure questa è la capitale del paese dei narcos, il paese delle FARC, di Ingrid Betancourt, e di tutto il resto. Difficile trovare riscontri con l'immaginario sudamericano. La famosa passionalità latina? La gente appare gentile, amabile, ma mai sopra le righe, anzi, abbastanza formale, nel senso buono del termine. La presenza indigena si avverte appena, quella degli afrocolombiani altrettanto. Niente a che vedere con i colori del Brasile, niente a che vedere con la povertà andina. La Colombia sembra non avere un'immagine definita. E sembra non cercarla nemmeno. I colombiani che viaggiano all'estero sono rassegnati a essere visti come gli abitanti del paese della cocaina, i controlli alle frontiere li fanno sentire quasi sempre spacciatori potenziali. Loro sanno che le cose non stanno così, si sentono in dovere di dire che la Colombia (o Locombia, gioco di consonanti con “loco”, cioè “pazzo”, per esprimere l'impossibilità di capire la nazione) è anche un paese bello, relativamente prospero, almeno in confronto ad altri stati sudamericani, con una discreta vita culturale, moderno e aperto al cambiamento. Nei sondaggi internazionali sulla felicità (per il valore che possono avere) i colombiani svettano nelle prime posizioni, vicini a paesi come la Danimarca o la Svizzera. Forse solo gli italiani, e maggiormente gli italiani del sud, possono capire una percezione così ambigua, quasi schizofrenica, della realtà.
“Il fatto è che la Colombia funziona”, spiega il giornalista cileno Fernando Cardenas, che da anni vive e lavora qui. “Il colombiano è sveglio, dinamico, e soprattutto pratico. Vuole soluzioni sbrigative e decise, che qui, purtroppo, diventano spesso soluzioni violente”. Ecco la lezione numero uno: normalmente, è lo Stato che esercita “il monopolio della violenza”. Nei regimi democratici, questo monopolio dovrebbe restare nei limiti rigidissimi imposti dalla legge. Nei regimi militari la violenza è indirizzata contro gli oppositori politici, veri o presunti, e garantisce comunque l'ordine costituito. In Colombia non è stato così, né in un senso, né nell'altro. Per questo la Colombia non ha mai conosciuto una vera dittatura militare nei suoi quasi due secoli di storia. Allo stesso modo, la Colombia non è mai stata, e non è ancora, una vera democrazia, anche se quasi tutti fingono il contrario, a partire dal governo degli Stati Uniti.
Che cos'è stata e che cos'è, allora, la Colombia? Un paese vasto e poco abitato, almeno fino alla prima metà del Novecento, con uno stato debole dominato da una strana, machiavellica oligarchia, abilissima a sfruttare tutti i tipi di conflitto per conservare lo status quo. Un paese che si fingeva (e si finge) sviluppato e civile nella zona della Cordigliera, la sua spina dorsale urbana, mentre scarica i suoi spiriti animali nelle vaste terre di campagna e di foresta, conquistate con una ferocia tale da far sembrare il leggendario Far West roba da dilettanti allo sbaraglio.
La conquista privata della terra nazionale. Ecco una password sicura per orientarsi nell'infernale labirinto colombiano, dove quasi nulla è come appare a prima vista. Una chiave di lettura al tempo stesso storica e geografica, che attraversa tutti gli avvenimenti (cioè i vari cicli di violenza) per arrivare, più attuale che mai, ai nostri giorni.
La Colombia, da sempre, prende le decisioni in città e fa la guerra nelle campagne, negli altipiani orientali, nelle foreste occidentali e meridionali, che un tempo appartenevano agli indigeni e, in parte, ai discendenti degli schiavi africani. Non a caso le comunità indigene e quelle afrocolombiane sono oggi le uniche che rivendicano la proprietà collettiva della terra. Tutti gli altri campesinos normalmente hanno un'alternativa drastica: subire il potere dei più forti o prendere le armi, pagandone le conseguenze. Perché alla fine, tranne poche eccezioni, sono destinati a diventare la carne da cannone di una guerra combattuta da poveri, di una o dell'altra fazione, con divisioni che spesso passano all'interno delle stesse famiglie, ma comandata sempre dai ricchi. Può sembrare una schematizzazione eccessiva, ma non troverete una storia politica della Colombia che non sintetizzi i primi 100-150 anni di vita della nazione creata da Bolivar mediante il conflitto fra liberali e conservatori. Cioè due facce della stessa medaglia, l'espressione politica della famosa oligarchia. Differenze ideologiche quasi inesistenti: i liberali un po' più laici, anzi un po' meno cattolici, con un'ala di sinistra che arriva fino al mitico Manuel Marulanda “Tirofijo”, il fondatore delle FARC. Storicamente, non c'è vita politica fuori dai due partiti, che riescono a sostituire l'idea di cittadinanza con quella della filiazione di parte (per cui, in Colombia, ognuno proveniva da una famiglia liberale o da una conservatrice). Conservatori e liberali si garantiscono la reciproca necessità combattendosi con ferocia a volte inaudita, e riescono a conservare così lo status quo. Nemici acerrimi e alleati di ferro: è solo il primo e più vistoso dei paradossi colombiani.
Un altro paradosso riguarda la “democrazia”: in Colombia si vota e si spara con la stessa facilità. Da oltre mezzo secolo non c'è presidente che non abbia terminato regolarmente il suo mandato, seguendo i ritmi puntuali delle consultazioni elettorali. L'esercito colombiano, fino all'avvento del Plan Colombia, era uno dei più deboli del continente, e aveva a disposizione un budget più modesto, mediamente, di ogni altro paese sudamericano. Pur trovandosi nel continente dei colpi stato, che ha reso per questo internazionale la parola golpe, la Colombia non ha mai conosciuto un Pinochet o un Videla, un Somoza o un Noriega. Eppure, in nessun altro paese latinoamericano si è mai registrato un livello così alto di violenza politica. Le statistiche di morte della Colombia ammutoliscono chiunque provi a fare un paragone. Soltanto nel periodo storico denominato La Violencia, cioè il decennio 1948-1958, furono uccise 280mila persone. In tempi più recenti, nella seconda metà degli anni Ottanta, il partito della Uniòn Patriotica (UP), nato come espressione politica delle FARC, vide assassinare circa cinquemila rappresentanti in pochi anni: per questo il giornalista Steven Dudley, per narrare la storia della UP, ha parlato di “genocidio politico”, nel suo libro “Armas y urnas”. Negli anni Novanta, si registra una media di quattromila omicidi politici all'anno, cioè undici al giorno.
L'orrore colombiano sembra non conoscere limiti, non solo nelle quantità spropositate di morti, ma anche nell'efferatezza dei metodi. “Durante la Violencia – scrive Dudley – “un paramilitare conosciuto come Sangrenegra (“Sangue nero”) bevve vari litri di sangue dei suoi avversari morti, per dimostrare la sua determinazione; un altro conosciuto come Carnicero (“macellaio”), appendeva le sue vittime ad un albero prima di tagliargli la faccia”. In tempi più recenti, squartare le persone con la motosega è diventata pratica comune. Una squadra di paramilitari comandata dal generale Del Rio si è messa a giocare a calcio con la testa di una vittima. E l'anno scorso, il killer di Ivan Rìos, uno dei leader delle FARC, ha portato al governo la mano mozzata del guerrigliero come prova della missione compiuta.
“Le atrocità si iscrivono in gran parte all'interno delle relazioni di vicinato”, scrive il sociologo e storico francese Daniel Pécaut , parlando del periodo della Violencia. Un periodo che la maggior parte della gente ha vissuto come “una somma di avvenimenti dispersi che si svolgono in microspazi. La Violencia non si lascia, perciò, narrare facilmente come storia globale”. E aggiunge: “la memoria non tarda a convertirsi nella reminiscenza di un fenomeno quasi senza storia, senza origine, né fine. In poche parole, un fenomeno traumatico condannato a ripetersi”. Molti la chiamano “la politica dell'anestesia”, e Dudley la spiega semplicemente così: “ci sono così tante morti che la gente semplicemente volta pagina; smette di sentire. La forma più facile di convivere con la violenza quotidiana è semplicemente ignorarla”. Di rimozione in rimozione, sembra davvero che ogni fase dell'infinito conflitto colombiano si colleghi alla precedente, senza soluzione di continuità, in una sequenza che è scarsamente collegata alla storia degli altri paesi sudamericani, e meno che mai si presta a letture ideologiche (vizio squisitamente europeo).
Torniamo quindi alla questione primigenia, la questione della terra, con il grande movimento di rivendicazione contadina degli anni Trenta. C'è un leader popolarissimo che incarna le aspirazioni dei campesinos e si batte con grande coraggio per una riforma agraria radicale: è Jorge Eliecer Gaitàn. Gaitàn è un liberale ribelle, la sua corrente si chiama “sinistra rivoluzionaria”, ma da noi si definirebbe semplicemente populista, tanto che il Partito Comunista colombiano, nato negli stessi anni di lotte contadine, lo accosta a Peròn, forse invidiandogli il grande consenso. Gaitàn si apprestava a vincere le vicine elezioni, secondo i pronostici di tutti, quando viene assassinato il 9 aprile del 1948.
La folla inferocita trova l'assassino di Gaitàn e lo lincia selvaggiamente, poi si scatena contro il governo e i suoi rappresentanti. I conservatori al potere rispondono con una repressione bestiale, che punta a sterminare gli oppositori liberali, quelli comunisti, i leader del sindacato e delle organizzazioni degli agricoltori. Inizia una mattanza che durerà dieci anni (la Violencia, appunto) e che assume presto le sembianze di una guerra di tutti contro tutti. Ogni categoria politica tende a saltare: il presidente civile dell'epoca, Laureano Gomez (conservatore), è in realtà uno spietato dittatore fascista, intriso di fanatismo cattolico; mentre il militare che prende il suo posto con la forza (1953), unico nella storia del paese, il generale Rojas Pinilla, anch'egli durissimo contro tutti gli oppositori, viene visto come “salvatore della patria”, e molti anni dopo rappresenterà la speranza di una vittoria della “sinistra” (l'ANAPO, una coalizione populista).
Il generale a sua volta viene esautorato dal patto fra liberali e conservatori, che si erano scannati fino a quel momento, perché il suo autoritarismo stava prendendo una piega sociale, e la giustizia sociale è uno spettro molto più temuto della violenza, dall'oligarchia colombiana. Questa è un'altra costante della storia colombiana da tenere sempre presente.
Quindi, come d'incanto, si forma il Fronte Nazionale, il perfetto patto spartitorio fra liberali e conservatori, che nel 1958 pone fine a quel tragico periodo lasciando irrisolte tutte le questioni che il povero Gaitàn si illudeva di affrontare.
Il bagno di sangue non è servito a niente: la fine della Violencia non segna un “prima” e un “dopo”, non comporta nessun cambiamento significativo, fa registrare solo uno spostamento degli antagonismi. Non a caso, uno dei contadini in armi più tosti di quel periodo, Manuel Marulanda, che dalle fila del partito liberale si era avvicinato ai comunisti, dopo aver resistito con un manipolo di compagni alla repressione ordinata dal governo, nel 1964 fonda un gruppo armato che passerà alla storia: le Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia. Le mitiche FARC. Lui si fa chiamare “Tirofijo” (“Tiro fisso”) con riferimento alle sue doti di cecchino e alla sua determinazione feroce, tipica dei sopravvissuti.
Ma le FARC in quel periodo contano assai poco, sicuramente meno degli altri gruppi guerriglieri che si sono andati formando sulla scia della rivoluzione cubana, per una volta almeno in sintonia con i tempi storici del resto dell'America Latina (tutte le guerriglie rivoluzionarie nel continente nascono negli anni Sessanta, e sono tutte finite da un pezzo).
L'avvento delle formazioni guerrigliere (una di ispirazione cubana, una maoista, e una, le FARC, che vorrebbe essere marxista-leninista, braccio armato del partito comunista nella “combinazione di tutte le forme di lotta”, ma in realtà seguirà un percorso tutto suo) non cambia praticamente niente nella realtà colombiana. Ci vuole ben altro per mettere in crisi l'establishment del paese. Ci potrebbe riuscire il generale Rojas Pinilla (della serie: a volte ritornano), con la sua Alianza Nacional Popular (ANAPO) alle elezioni del 1970: ma i vecchi marpioni liberali e conservatori gli scippano la vittoria con clamorosi brogli elettorali, e reprimono sul nascere i tentativi di rivolta. Per la seconda volta, la Colombia perde l'occasione di cambiare democraticamente lo status-quo. La terza occasione si presenterà fra un anno e mezzo, nel 2010, ma lo vedremo più avanti.
Quindi, mentre il resto del continente, con l'eccezione del Venezuela, è governato dai militari, in Colombia tutto procede come sempre: le guerriglie tendono a rafforzarsi (e a scontrarsi fra loro per il controllo del territorio), ma restano un fenomeno sostanzialmente rurale, protagoniste di un conflitto a bassa intensità piuttosto remoto e quasi sconosciuto a livello internazionale. Semmai è il nuovo movimento armato M-19 (dove 19 indica il 19 aprile 1970, giorno dello scippo elettorale ai danni dell'ANAPO di Rojas Pinilla) che riscuote i maggiori consensi della gente, grazie ad una serie di colpi spettacolari, senza spargimenti di sangue, contro i simboli del potere. Insomma, agli inizi degli anni Ottanta sembrano esserci le condizioni per un accordo di pace generale, tanto che il presidente Belisario Betancur, dopo aver proclamato un'amnistia, inizia le trattative con i movimenti guerriglieri. Ma in Colombia quello che avviene ufficialmente non corrisponde a ciò che avviene nella realtà. E nella realtà, la Colombia in quegli anni si converte definitivamente al narcotraffico.
Il traffico di cocaina sostituisce quello della marijuana nel corso degli anni Settanta, moltiplicando in modo esponenziale i profitti. Le varie guerriglie, che si finanziavano perlopiù con i sequestri (un'altra triste tradizione colombiana), cominciano a perfezionare i loro sistemi di “tassazione” (leggi: estorsione), applicando tariffe mano a mano più esose ai trafficanti di cocaina, che più diventano potenti e meno accettano il controllo del territorio da parte dei guerriglieri. Lo stato, in quei territori, è assente. Tutto avviene attraverso accordi fra i soggetti coinvolti, e ogni volta che un accordo non è rispettato c'è una strage. Ma su una cosa non ci sono dubbi: la Colombia, come si diceva in apertura, “funziona”. Perché il gioco del potere ufficiale segue, in alto, le stesse regole non dichiarate: tutti trattano con tutti, sempre, con i metodi tipici delle organizzazioni criminali: dove non bastano i soldi, arriva il terrore. Non c'è da stupirsi, dunque, se nel corso degli anni Ottanta il parlamento colombiano vede fra i suoi membri tanto alcuni capi delle FARC, come Ivan Marquez, quanto boss del narcotraffico come Pablo Escobar. E' come se in Italia avessimo avuto l'onorevole Renato Curcio e l'onorevole Totò Riina.
E' la democrazia alla colombiana. Seguire i processi elettorali, o le riforme politiche (come l'avvento nel 1990 della nuova Costituzione, molto più progressista della precedente) serve solo a non vedere i processi profondi che attraversano il paese. E che ancora una volta riguardano il possesso della terra.
Quando è iniziato il boom della cocaina la Colombia raffinava e commercializzava il prodotto (la pasta di coca) che arrivava da Bolivia e Perù. Agli inizi degli anni Novanta, invece, il paese è diventato il primo produttore mondiale. Che cosa significava? Che in quel periodo “i narcotrafficanti avevano acquisito più di 270 milioni di ettari, che equivaleva ad un terzo delle terre più fertili di tutto il paese” (S. Dudley, “Armas y urnas”) ed erano diventati, fra l'altro, gli allevatori più potenti del paese.
All'origine del fenomeno del paramilitarismo (cioè la risposta armata “di destra” alla guerriglia “rivoluzionaria”), che non a caso si sviluppa proprio in quel periodo, c'è il semplice scontro per il controllo del territorio. Certo, la lotta contro i “sovversivi” o contro “il comunismo” (etichetta sempre buona per gli USA che proteggevano le loro multinazionali) forniva ai boss la legittimazione ufficiale di fronte all'establishment, e forniva allo Stato (cioè all'esercito, tante volte umiliato dai guerriglieri) la possibilità di fare il lavoro sporco senza troppe ripercussioni. Non solo: il controllo del territorio è anche controllo dei voti; non a caso decine di parlamentari eletti nelle regioni del conflitto (che poi sono anche le regioni più povere e abbandonate) ottengono percentuali di consenso imbarazzanti, e tendono a perpetuarsi vita natural durante. La Colombia, come si è detto, funziona.
Ma la peculiarità dell'eterno conflitto colombiano si capisce meglio anche attraverso le storie personali, le biografie dei protagonisti. Risulta chiaro che la violenza è da un lato una forma perversa di riscatto sociale, su tutti i fronti (guerriglieri, narcos, paramilitari). Dall'altro, perpetua e inasprisce i sentimenti di vendetta, cioè dà un risvolto personale ad un conflitto armato che pretende di essere “politico” ( e qualcuno in Europa ancora se la beve).
Prendiamo il caso di Alonso de Jesùs Baquero, conosciuto come “El Negro Vladimir”. Figlio di contadini, entra nella guerriglia a 13 anni, spinto dalla miseria come tanti altri ragazzini delle aree rurali. A nemmeno 18 anni è già comandante di una squadra delle FARC. E' duro, coraggioso, un soldato modello. “Prendono uno da giovane e lo trasformano in un essere aggressivo”, spiega oggi tranquillo al giornalista che lo intervista in carcere. “El Negro Vladimir” si innamora di un'altra guerrigliera, nome di battaglia Berta, e ottiene dai superiori il permesso di formare un'unione. Berta però rimane incinta, e le FARC in questi casi non ammettono eccezioni: il bambino va affidato ai nonni. Berta non ci sta e scappa con il figlio, sapendo che il tradimento equivaleva ad una condanna a morte. “El Negro Vladimir” viene punito per la fuga della fidanzata. Alla prima occasione, fugge pure lui e raggiunge Berta e il figlio a Puerto Boyacà, dove il sindaco, con i generosi contributi della Texaco, stava organizzando una formazione paramilitare. Dopo aver ricevuto un nuovo indottrinamento, “El Negro Vladimir” diventa uno dei più spietati assassini mai visti in azione. Al giudice che lo condannerà a trent'anni di galera confessa oltre 800 omicidi. Una buona parte della mattanza degli inermi esponenti del partito UP si deve a lui. Ma spesso “El Negro Vladimir” finisce soltanto il lavoro fatto dagli altri paramilitari: “Le torture erano così crudeli che molti prigionieri impazzivano: ammazzarli era fargli un favore”.
I fratelli Castano, fondatori delle terribili “AUC” (“Autodefensas Unidas de Colombia”), la più grande formazione paramilitare colombiana, erano i figli di un piccolo proprietario terriero, che venne rapito dalle FARC. Dopo aver pagato invano per due volte il riscatto del padre (che con tutta probabilità era già stato ucciso), dichiararono guerra eterna ai “sovversivi”. Il loro odio personale rappresentava una sorta di ideologia: per il resto, tutto il fenomeno del paramilitarismo è legato strettamente al narcotraffico e avviene con la costante copertura dell'esercito e del governo. Per molti ragazzi poveri colombiani le probabilità di unirsi alla guerriglia, ai paramilitari, alle organizzazioni del narcotraffico, all'esercito regolare o alla polizia sono praticamente identiche, la manodopera per la violenza non manca mai.
Insomma, tutto si mescola e si confonde, nella guerra colombiana, per rimanere immutato nella sostanza: l'economia cresce, la valuta nazionale è stabile (la Colombia non ha mai conosciuto i tipici fenomeni inflazionistici del resto del Sudamerica), i ricchi restano ricchi, i poveri restano poveri. La Colombia “funziona”. Per questo è rimasta immutata fino a oggi.
Il presidente in carica Uribe, dopo i successi ottenuti nel corso del 2008, con i durissimi colpi inferti alle FARC, la liberazione di Ingrid Betancourt, la maggiore sicurezza nelle città e la smobilitazione ufficiale dei paramilitari, vorrebbe far credere che la risposta militare è stata vincente (grazie ai dollari del Plan Colombia fortemente voluto da Washington per “riaffermare la presenza dello stato” su tutto il territorio colombiano e sradicare tanto la guerriglia quanto la produzione di coca). Ufficialmente il paese è fuori dal tunnel, il conflitto interno è praticamente terminato, la politica della cosiddetta “sicurezza democratica” ha trionfato. Gran parte dei media nazionali e internazionali ha aiutato il presidente Uribe ad affermare questa versione. Ma questa versione è solo una copertura, è l'ennesima rimozione alla colombiana. Per capirlo senza la minima ambiguità, basta spostarsi dalla zona delle città a quelle dove si svolge effettivamente il conflitto. Da Bogotà al Chocò, per esempio. Una delle regioni più povere e meno abitate, chilometri di foresta (e miniere) che si affacciano sul Pacifico. La zona più nera della Colombia, perché qui la stragrande maggioranza degli abitanti è formata da afrocolombiani, anche se c'è una forte minoranza indigena.
Vista dal punto di vista dei rifugiati di Villa Espana, periferia di Quibdò (capoluogo regionale), la politica di “sicurezza democratica” del presidente Uribe e i suoi presunti successi sono soltanto “una solenne menzogna”, per usare le parole di padre Albeiro, esponente di una delle diocesi più impegnate e progressiste della Colombia (l'esatto contrario della Chiesa cattolica dei vertici, che è conservatrice e passiva). Non si tratta di opinioni, o di giudizi morali. Sono le cifre a smentire l'ottimismo di regime, che purtroppo si sposa perfettamente con il triste conformismo, per non dire la paura (altro che felicità) di tanti colombiani (troppi). Se c'è una classifica mondiale in cui la Colombia emerge davvero è quella dei rifugiati interni (“desplazados”): sono oltre 4 milioni. Il che significa che un colombiano si dieci è stato cacciato dalla sua casa e dalla sua terra, ha perso tutto ciò che aveva, portandosi quasi sempre con sé il marchio indelebile di una violenza assurda. O perfettamente logica, considerando che negli ultimi anni, quelli della ritrovata sicurezza, altri sei-sette milioni di ettari di terra hanno cambiato proprietario. Sono tanti i beneficiari del terrore: dai vecchi e nuovi boss paramilitari e del narcotraffico alle grandi multinazionali agrarie (come la “Chiquita”, quella della banane) e minerarie (come la “Ashanti Gold”), fino allo Stato che ha una serie di megaprogetti per queste aree. Cioè la Colombia che cresce a ritmi del cinque-sei per cento all'anno.
A perdere sono sempre gli stessi: neri, indigeni, contadini, che poi spesso vanno a ingrossare le fila del sottoproletariato urbano. Cioè droga, prostituzione, microcriminalità, miseria. Tutta gente che non vota, o vota sotto ricatto, o vende la sua fetta di “sovranità popolare” per 20 dollari. Non a caso le elezioni in queste zone premiamo immancabilmente i cattivi della storia, da un po' di anni seguaci perlopiù del presidente Uribe, e quasi sempre legati ai paramilitari. I quali però stanno però cominciando a sputtanare i loro ex protettori. Sono gli effetti imprevisti di una legge aberrante, fortemente voluta da Uribe, quella denominata “Justicia y Paz”, che in nome della presunta riconciliazione nazionale offre a chi confessa i crimini commessi nella guerra civile una pena irrisoria: otto anni di reclusione.
La verità che pochi accettano di riconoscere sta emergendo nelle aule dei tribunali, e va a erodere il consenso di Uribe, che i soliti sondaggi dipingevano fino a pochissimo tempo fa come plebiscitario.
Forse qualcosa sta cambiando perfino in Colombia, paese fin qui del tutto avulso dalla marea di sinistra che ha travolto il Sudamerica. Forse alle prossime elezioni, nel 2010, si ripresenterà la terza occasione storica per sbarazzarsi definitivamente di liberali, conservatori e “uribisti” vari. Stavolta senza possibilità di trucchi. Carlos Bula, segretario del Polo Alternativo Democratico, cioè dell'opposizione di sinistra, ci crede fermamente: “La gente in queste paese sente quando è in gioco un vero cambiamento; è stato così con Gaitàn e ed è stato così nel 1970: noi vinceremo le prossime elezioni, anche se Uribe dovesse riuscire a ricandidarsi per la terza volta”. Se così sarà, si potrà cominciare a parlare veramente di pace. Perché alla fine i colombiani sanno di essere praticamente tenuti in ostaggio da chi ha mantenuto per decenni la guerra permanente, in alto o in basso. Ma come dice semplicemente una donna di Bogotà: “loro sono 40mila, noi siamo 40 milioni”. E nessuno può ingannare un popolo per sempre.

Cesare Sangalli