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Pubblicato su "Galatea" ottobre 1998

Il miraggio della ricchezza nasconde i semi dell'odio

Libano, il labirinto del diavolo

Per sedici anni, è stata guerra di tutti contro tutti. Poi è arrivata la “pax siriana”. Ma dietro la ricostruzione forsennata in corso, c'è una nazione frustrata e piena di rancore. Viaggio nello squallore danaroso dell'ex “Svizzera del Medio Oriente”

“Il Libano è più di una nazione; il Libano è una missione”. Parola di pontefice. Era il maggio del 1997, la visita di Giovanni Paolo II fu una scossa di adrenalina per Beirut, città divenuta sinonimo di guerra civile, impegnata in una grandiosa opera di ricostruzione. Ma tutto il cemento scaricato sul paese dei cedri, tutte le gru e le ruspe del mondo non bastano a ricostruire un'anima. Oggi il Libano è meno, molto meno di una nazione, e la missione a cui si riferiva il papa (stabilire una convivenza armoniosa fra comunità religiose diverse) appare una missione impossibile. Perché il sentimento dominante è quello indicato dalla parola araba “ihbat”: traduzione difficile, “passività”, “frustrazione”, qualcosa che ha a che fare con l'avere il culo per terra. Fra la rassegnazione e la disperazione.
“Se vuoi capire il Libano, devi scordarti tutte le categorie di tipo occidentale”, sostiene Michel Touma, giornalista del quotidiano “L'Orient - le jour” (di area cristiana e di lingua francese). “Per esempio, il concetto politico di destra e sinistra: non esiste, siamo in Medio Oriente”. E che cosa esiste allora? Il confessionalismo politico: una religione, un partito (o un leader o un movimento). Diciassette diverse comunità (dai drusi ai greco-ortodossi). Più le divisioni per correnti, clan, famiglie. Più gli interessi internazionali, Israele, la Siria, i palestinesi, la politica americana, il fondamentalismo islamico, i petrodollari, il capitalismo selvaggio.
Benvenuti nel labirinto del diavolo, dove la verità è sempre dimezzata, dove si è ucciso nel nome di Dio, ma si adora solo e sempre il denaro. Dove nessuno è innocente, ma si preferisce pensare che nessuno è colpevole, per cui, secondo un diffuso pensiero “i libanesi non sanno perché è iniziata la guerra e non sanno perché è finita”.
Forse non si sa perché è finita la guerra, ma sicuramente si sa come. Con un massiccio intervento militare siriano (attualmente ci sono 40.000 soldati di Damasco in Libano). Assad ebbe il via libera dagli americani per il suo appoggio alla guerra contro Saddam Hussein (suo rivale storico). Formalmente, la presenza siriana è stata legittimata dagli accordi bilaterali del maggio 1991, ma tutto era già stato previsto nel trattato di Taif dell'ottobre 1989, che si chiama, ironicamente, “carta di riconciliazione nazionale” e rappresenta la base giuridica del Libano odierno.
Nell'accordo di Taif c'è tutto il malessere storico e attuale del Libano. E' un capolavoro di Realpolitik, di ipocrisia diplomatica, che in qualche modo funziona, nel senso che garantisce un ordine, una stabilità. Dettato dalla mera necessità, l'accordo di Taif era un'alternativa del tipo “o bere o affogare” ed è stato accettato dai libanesi come male minore (chi non l'ha fatto è finito in esilio o in galera).
L'infinita guerra civile libanese, simile ad un campionato nazionale della morte con almeno nove squadre partecipanti (i cristiani del generale Aun; quelli di Geagea (già “Falange” poi “Forze libanesi”); i drusi di Joumblatt; gli sciiti di Amal, gli sciiti Hezbollah; i sunniti; i siriani; i palestinesi; gli israeliani) è arrivata ad uno stop, con vincitori (assoluti e parziali) e vinti. Hanno vinto ovviamente i siriani, tutto sommato gli israeliani, in parte i musulmani (nell'ordine sunniti, sciiti e drusi). Hanno perso molto i cristiani (meno di quanto sostengono), quasi tutto i palestinesi, e sicuramente ha perso il Libano, fallimento misero di nazione pluralistica.
In pratica, sedici anni di guerra civile sono “serviti” a riequilibrare i poteri interni fra musulmani e cristiani, a confinare i palestinesi nei ghetti, a permettere a Siria e Israele di continuare a combattersi indirettamente, cancellando la sovranità del Libano. Tutto ciò senza neanche scalfire i due aspetti che restano i “peccati originali” del Libano: il confessionalismo politico e la corsa agli interessi personali.
“Ecco dunque il Libano offerto anima e corpo al suo demone preferito, il liberismo, e al suo vizio preferito, gli affari”: sono parole di uno scrittore francese, Claude Rivière, nell'introduzione di una guida sul Libano pubblicata quando Beirut era una scintillante città mondana e il paese veniva definito “la Svizzera del Medio Oriente”. Un piccolo miracolo di tranquillità benestante in mezzo alle violenze dell'area più conflittuale del mondo. Il suo segreto? La presenza maggioritaria dei cristiani maroniti (caso unico fra tutti i paesi arabi), che esprimevano una borghesia colta e dinamica, semplicemente straordinaria per quello che riguardava il commercio. Il Libano era nato intorno a loro e per loro, discendenti degli eremiti seguaci di San Maroun, che nel IV secolo dopo Cristo si erano rifugiati sul monte Libano, seguiti a ruota da tutta una serie di minoranze religiose che andarono a formare un mosaico confessionale.
I cristiani maroniti sono sempre stati la comunità di riferimento in quella provincia dell'impero romano, capace di sopravvivere ad ogni dominazione, accettando l'arabizzazione e galleggiando sull'ondata islamica, per arrivare in prima fila al momento storico dell'indipendenza, ottenuta dai francesi nel 1941.
Una nazione artificiale, creata dalla diplomazia europea, come tutti gli altri stati del Medio Oriente (Giordania, Iraq, Siria e Palestina). La repubblica libanese si illuse di creare il perfetto equilibrio attraverso la ripartizione delle cariche pubbliche secondo le diverse comunità. Una specie di “manuale Cencelli” applicato alle diverse religioni anziché ai partiti, fin dalle più alte cariche istituzionali: il presidente della repubblica doveva essere cristiano maronita, il capo del governo musulmano sunnita, il presidente del parlamento musulmano sciita. I cristiani maroniti si garantirono la leadership, legittimata dall'essere in quel momento la comunità più numerosa: più seggi in parlamento, più posti nell'esercito e nell'amministrazione, la carica istituzionale con maggiori poteri (il Libano era una repubblica presidenziale).
I giochi erano fatti, la quadratura del cerchio sembrava funzionare a meraviglia, i libanesi potevano dedicarsi allo sport nazionale, il business. Se poi in trent'anni i musulmani erano diventati maggioranza, poco male: tanto l'ultimo censimento era stato fatto nel 1932! E a chi importava veramente di tutte le guerre arabo-israeliane, visto che gli affari andavano a gonfie vele, i magnati del petrolio venivano a divertirsi a Beirut, a ingrassare il Casinò in compagnia dei grandi finanzieri dell'epoca (bancarottieri compresi)? A nessuno. Nessuno si è mai preoccupato di provare a cancellare quell'aberrazione costituzionale che è la rappresentanza confessionale, nessuno si è mai preoccupato di provare a costruire una vera democrazia, uno Stato con una politica autonoma, con una dignità nazionale.
No, i cristiani giocavano a fare gli americani, i musulmani (soprattutto chi non beneficiava del miracolo economico) continuavano a sentire il “richiamo della foresta” del panarabismo: gli uni guardavano a Nixon, gli altri a Nasser, tutti preoccupati in primis del loro privato, privatissimo interesse. No, la “Svizzera del Medio Oriente” non poteva durare a lungo, con questi presupposti.
A far saltare il detonatore ci pensarono, inevitabilmente, i palestinesi. Cominciarono ad arrivare in massa, fastidiosi come ogni richiamo alla realtà, dopo la “guerra dei sei giorni” del 1967. Israele aveva occupato quello che rimaneva delle loro terre (Gaza e la Cisgiordania). Divennero più numerosi (e più forti) dopo che re Hussein di Giordania li aveva repressi. nel sangue (il “settembre nero” 1971), provocando un'altra massiccia migrazione. Che i palestinesi sconfinassero in Libano, nazione araba e ormai a maggioranza musulmana, era storicamente inevitabile. Che continuassero a combattere gli israeliani, altrettanto. Ed è chiaro che rappresentavano una presenza scomoda, soprattutto per gli unici arabi che non avevano pagato il minimo tributo nelle quattro guerre contro Israele (i libanesi). Brutti, sporchi e cattivi, i palestinesi minacciavano di diventare uno stato nello stato. Per cacciarli, o quanto meno renderli inoffensivi, i cristiani maroniti si armarono formando la “Falange”, le milizie volontarie che iniziarono a fare il lavoro che l'esercito libanese non voleva o non sapeva fare. La miccia della guerra civile si era innestata.
Ecco chi c'è all'origine di ogni sfortuna libanese; ecco chi ha rovinato la “Svizzera del Medio Oriente”: i palestinesi. E' praticamente impossibile trovare un libanese cristiano che non si spieghi così la guerra civile. Più esattamente: i palestinesi erano il morbo della regione, il Libano è stata la vittima sacrificata dalla diplomazia internazionale. Una diplomazia che ha il volto furbo e l'espressione gelida di Henry Kissinger. Kissinger l'ebreo, un segretario di stato che, per il libanese della strada (e non solo), ha sempre curato più gli interessi di Israele che non quelli degli Stati Uniti. Secondo il suo piano (realtà storica o fantapolitica?), il famigerato “piano Kissinger”, il Libano doveva diventare la nuova patria dei palestinesi; i cristiani sarebbero emigrati in massa in Canada, nel Québec francofono.
Questa interpretazione ha una sua logica, e una parte di verità, ma è tendenziosa perché rimuove il male che si annida nel cuore del Libano proiettandolo all'esterno. Così, se ieri il Libano, isola felice, è stato vittima di un complotto mondiale (c'è anche chi dà la colpa all'Egitto, che avrebbe progettato di distruggere il commercio libanese per valorizzare il canale di Suez), oggi ogni male viene dalla Siria.
“La riconciliazione della nazione è già una realtà, a livello di popolo - sostiene Boutros Sfeir, patriarca della Chiesa maronita - E' la classe politica, completamente manovrata da Damasco, che non permette l'evoluzione del Libano. La democrazia è falsata, il parlamento non rappresenta la volontà popolare”. Se si dà voce al popolo, tutto si aggiusterà, sostiene in sostanza il patriarca, che non ritiene necessario un grande impegno sul piano spirituale.
Ancora una volta, la verità appare dimezzata. E' l'atteggiamento di tutta la chiesa maronita, senza eccezione (almeno ai vertici). Non si rendono neanche conto che si esprimono esattamente come i politici, usando un tono duro, parlando sempre e solo di sovranità, di potere, di proprietà. “Prima della guerra la terra apparteneva ai cristiani per quattro quinti (85 per cento); oggi probabilmente siamo al 49 per cento, il resto è in mano ai musulmani”: padre Saadi Nemer, superiore generale dell'ordine marianita, è incaricato dei rapporti con l'Islam, ma non ha alcuna fiducia nei seguaci del Corano. Come e lui (e peggio), monsignor Rai, uno dei vescovi più considerati in Libano: “L'Islam non è una religione: è un sistema politico. Un musulmano non accetterà mai di esser governato da un cristiano: ve ne accorgerete presto anche in Europa”.
Così ragionano le guide spirituali della nazione, quelli per cui “la riconciliazione nazionale è già un fatto, a livello di popolo”. Non sono nemmeno coscienti della carica di sfiducia e rancore che trasmettono. Lo zenit del disprezzo si raggiunge toccando l'argomento palestinesi. Padre Nemer arriva addirittura a sostenere che “i palestinesi sono ricchi, perché vengono finanziati dai paesi arabi e sono aiutati dalle organizzazioni internazionali, vivono tranquilli senza fare nulla”. Forse non si è mai sognato di curare i rapporti con i musulmani fuori dalle belle stanze delle residenze religiose. Se avesse fatto un giretto a Sabra e Chatila, non potrebbe parlare in questo modo.
Sabra e Chatila. Nomi destinati ad evocare a lungo la brutalità dell'uomo, come Gorazde, Srebrenica, Acteal, Hebron, Soweto. Nella realtà attuale, due quartieri ghetto della periferia di Beirut, una serie di viuzze fangose fra casermoni che portano ancora i segni delle bombe e discariche a cielo aperto. Umanità stracciona divisa fra diffidenza e ospitalità, pistole in tasca e bricchi di caffè che ti versano una tazzina di benvenuto prima ancora di avere aperto bocca. Nella memoria, un massacro, la strage di Sabra e Chatila , 16 settembre 1982. Sotto la regia dell'esercito israeliano, che occupava Beirut ovest, i falangisti cristiani uccisero senza pietà vecchi, donne, bambini palestinesi. L'uomo che guidava i carnefici, Elie Hobeika, oggi è ministro per le risorse idrauliche. Miracoli della “riconciliazione nazionale”.
“Qui a Sabra e Chatila possiamo solo sopravvivere. Le organizzazioni internazionali (soprattutto l'Unicef e il governo norvegese) si occupano dei generi di prima necessità. Ma il dramma è che non possiamo lavorare”. Abu Nadir guida la comunità locale. I palestinesi sono alla terza generazione nata e cresciuta nei campi profughi e nei quartieri dormitorio. Molti ricordano ancora con affetto i militari italiani del contingente ONU (“Erano gentili, con loro potevamo dormire tranquilli”). Nessuno crede nella pace con Israele, si sentono abbandonati da tutti.
“I quattro milioni di palestinesi fuori dai territori autonomi non hanno nessun diritto. La legge proibisce di esercitare ben 53 professioni. Dopo gli accordi di Oslo sono diventate 73. Ci restano solo i lavori pesanti, i lavori a rischio, sempre al nero, in clandestinità. Penso che gli zingari abbiano più diritti di noi”. Nessun futuro, nessuna prospettiva. Le scuole (a parte le primarie) sono inaccessibili per i costi, l'università un miraggio (e a Beirut c'è la prestigiosa Università americana). Meglio non ammalarsi: la sanità è quasi completamente privata, chi non paga non ha accesso alle ottime cliniche libanesi, e può anche morire di miseria, come è successo ad Hazizi Heyou , una donna palestinese. E' chiaro che i soldi non hanno nazionalità né religione, quindi questa situazione vale anche per tutti i libanesi e gli immigrati poveri.
“Lo Stato non esiste o esiste poco - spiega Cesare Fritelli, direttore dell'Istituto italiano per il commercio estero di Beirut (l'Italia è il paese che esporta di più in Libano) - Certo, se penso a com'era Beirut solo tre anni fa, senza telefoni, senza elettricità....I passi avanti sono stati notevoli, però all'insegna del prima facciamo le infrastrutture, poi penseremo al sociale. Ma in Libano di “sociale” c'è sempre stato ben poco...” Non occorre un economista per spiegare il capitalismo alla libanese. Basta guardarsi intorno. Beirut e quasi tutto il Libano sembrano concepiti dal peggior palazzinaro di casa nostra. Una giungla di cemento in continua espansione, che continua ad aggredire il poco verde rimasto. Le poche aree intatte, le zone archeologiche anche molto belle sembrano sempre di più cartoline fuori dal loro contesto. Niente telefoni pubblici, tutti (o quasi) hanno il cellulare. Provate a cercare la posta centrale: un ufficio dimesso e praticamente nascosto (le poste libanesi sono state privatizzate e affidate recentemente ad una compagnia canadese). Ma l'apoteosi della libera iniziativa si raggiunge nelle strade di Beirut: un unico, enorme ingorgo che parte da Jounieh, dove c'è il Casinò, e arriva fino all'aeroporto. Il Libano ha il più alto rapporto nel mondo fra automobili, abitanti e superficie (stando al settimanale libanese “Monday Morning”): 1.300.000 veicoli per una popolazione di tre milioni e mezzo di abitanti su un territorio di soli diecimila chilometri quadrati. Un'orgia di biossido di carbonio e di decibel, una coda interminabile di macchine di grossa cilindrata, visto che la benzina costa 500 lire al litro.
Di notte i neon vistosi dei numerosissimi locali cercano di restituire una gioia che non c'è. Il bisogno di evasione è tangibile, ci sono bandiere straniere dovunque, utilizzate per i mondiali di calcio e mai riposte. Un bagnino di Biblos arriva a sostenere che i libanesi non sono arabi, perché discendono dai fenici. Secondo una tradizione popolare, lo stesso Gesù Cristo era libanese. Sembra accertato che sia arrivato fino a Canaan, cittadina dimenticata nella fascia di sicurezza, dove gli israeliani hanno fatto più di cento morti (tutti civili, personale ONU) nel raid aereo del marzo 1996.
Canaan, il miracolo delle nozze, l'acqua trasformata in vino. Sembra ancora più incredibile, osservando lo stabile dell'ONU distrutto, le foto dei morti, la plastica del supermercato, lo sconcertante vuoto del consumismo. Un miracolo non avviene mai fuori dai cuori degli uomini. E oggi in Libano non c'è posto per la fede, ma solo per la religione.

Cesare Sangalli

Parla Dori Chamoun, l'ultimo leader dei cristiani

Burattino senza fili
Fuori dal gioco “ufficiale” della politica, il presidente del partito nazionale liberale affronta di petto le ipocrisie di un paese che non ha ancora fatto i conti con il passato. “Ci sono stati più cristiani uccisi da altri cristiani che da qualsiasi altra fazione” .


Suo padre, Camille Chamoun, fu presidente della repubblica negli anni Cinquanta. Il fratello Dani, avviato ad una brillante carriera politica, è stato ucciso nel 1990 da Samir Geagea, comandante delle Forze Libanesi (ala della “Falange” cristiano-maronita). Dori Chamoun, 66 anni, laurea in legge, imprenditore prima e leader politico poi, rappresenta sicuramente un pezzo di storia del Libano. Una storia di rivalità feroci, di scontri politici sempre al limite della guerra per bande, di incredibili compromessi. Chamoun è uno dei pochi esponenti cristiani apparentemente senza scheletri nell'armadio, l'unico che continua la sua attività in patria (il generale Aoun è in esilio a Parigi, Raymond Eddé del Blocco Nazionale è all'estero e “fa politica per corrispondenza” ): non fa parte del Parlamento, che considera la cassa di risonanza delle decisioni prese da Assad, ma prosegue ostinato la sua battaglia di politico “off limits” .

Qual è il suo giudizio sugli accordi di Taif, che hanno posto fine alla guerra civile?
R
- “Gli accordi di Taif sono stati un grande bluff. Una farsa frutto di una copertura internazionale per permettere l'annessione siriana del Libano. Si è voluto chiamare un piromane (Assad, N.d.A.) per spengere l'incendio. Era tutto programmato, la guerra del Golfo contro Saddam è servita per il riassetto del Medio Oriente, compreso il Libano”.

Lei sostiene che i cristiani libanesi hanno perso la guerra. Ma nell'autunno 1990 a Beirut si fronteggiavano le diverse fazioni dei maroniti ...
R
- “E' vero. Ma il gioco era condotto dall'esterno. E' bastato far leva sull'ambizione personale dei vari leader, promettendo loro di tutto e mettendoli l'uno contro l'altro: una tattica che ha funzionato perfettamente. Io ritengo comunque che la legalità fosse dal lato del generale Aoun, che comandava l'esercito regolare libanese e per questo andava sostenuto. Mio fratello Dani cercò invano di arrivare ad un accordo e lo hanno fatto fuori”.

Sono in molti a credere che l'autore dell'omicidio di suo fratello non sia Geagea e che il processo sia stata una montatura ordita dai siriani. Qual è il suo giudizio?
R
- “Non ho abbastanza elementi per esprimere un parere. Comunque finora non è stato provato il contrario. Se non è stato Geagea in persona, credo comunque che siano stati uomini del suo gruppo”.

Come si comportò la chiesa maronita durante il conflitto fra cristiani?
R
- “I vertici della chiesa maronita erano sicuramente più vicini a Geagea che non al generale Aoun. Lo stesso patriarca era un amico di Geagea. Vedevano in lui il grande difensore dei cristiani, il santo salvatore. Aoun era a capo di un esercito nazionale non confessionale, che aveva anche musulmani al suo interno. Geagea usava la croce come simbolo, si presentava come il paladino della cristianità. Ma lui e gli altri come Elie Hobeika (il massacratore di Sabra e Chatila N.d.A.) erano solo gli ex giovani che avevano imbracciato un fucile ed erano entrati nella Falange, un po' come i capi dello squadrismo fascista di Mussolini.

Quindi le responsabilità dei cristiani maroniti sono enormi...
R
- “Questo è un aspetto che è stato rimosso, una verità con cui i libanesi devono ancora fare i conti. Basta dire che ci sono stati molti più cristiani uccisi da altri cristiani che non dalle altre fazioni religiose. Gli stessi drusi hanno cacciato i cristiani dalle loro zone solo dopo che quegli imbecilli delle Forze Libanesi erano venuti a fare i padroni dove si era sempre vissuto nel mutuo rispetto. Non a caso nel mio paese di origine, dove oggi sono sindaco,Der el Qamar, (nella regione dello Chouf, dove si trova il quartier generale del leader druso Joumblatt ,N.d.A) non ci sono mai stati problemi. Il fatto è che quando si tratta di potere, i maroniti sono pronti a tutto”.

Che cosa è cambiato, in Libano, in questi ultimi anni?
R
- “Niente. Si vive alla giornata, più o meno come ai tempi della guerra. Non c'è nessun sentimento di ricostruzione morale, nessuno slancio vitale. I membri della Chiesa sono tutti politicizzati, non ce n'è uno che abbia un po' di spessore spirituale. Siamo un paese sotto occupazione siriana e in via di sirianizzazione. Se andiamo avanti così, uno di questi giorni l'Assemblea nazionale voterà, a maggioranza quasi unanime, l'unione con la Siria. Sarà la fine di quella che era, pur con molti limiti, l'unica democrazia di tipo occidentale nel mondo arabo”.

Cesare Sangalli