Reportages
Pubblicato su "Galatea" ottobre 1998
Sahara occidentale, l'ultima nazione africana
La repubblica che non c'è
Prima il colonialismo spagnolo, poi quello marocchino: i saharawi lottano da più di un secolo per l'indipendenza
Esiliati nei campi profughi dell'Algeria del sud, si giocano tutto nel referendum del 7 dicembre prossimo. Nel mare di sabbia del Sahara potrebbe nascere l'unica vera democrazia del mondo islamico “Il referendum? Un mero tramite verso l'indipendenza”. Sukheina è più sicura e drastica dei vertici del Fronte Polisario, l'organizzazione politica e militare che dal '73 lotta per l'autodeterminazione del popolo saharawi. Ha poco più di vent'anni e insieme alla sorella Suilma è partita da Madrid per farsi identificare come elettrice. Sono spagnole di cittadinanza e residenza, non parlano l'hasanya, il dialetto arabo di questa parte del Sahara, ma si sentono orgogliosamente saharawi e vogliono contribuire alla nascita di una nazione che ha sofferto anche troppo per avere la sua terra, un pezzo di deserto grande quasi quanto l'Italia, affacciato sull'Atlantico, fra Mauritania e Marocco.
Ci sono decine di donne al centro Minurso (la missione dell'ONU che deve gestire il referendum) di Dakhla. Il vento che alza frustate di sabbia e gonfia i vestiti e i chador è carico di tensione: il “notabile” del Marocco che deve assistere all'identificazione non verrà: Sukheina, Suilma e molte altre persone hanno fatto il viaggio per niente, attraversando tutta l'Algeria fino a questo angolo estremo di terra arida che ospita i campi dei profughi saharawi.
Dakhla è il più sperduto dei quattro insediamenti gestiti dal Polisario in territorio algerino (gli altri sono El Ayun, Smara e Ausert). Tutti portano il nome delle città del Sahara occidentale abbandonate nel 1976, con l'esercito marocchino che incalzava le masse dei profughi, frenato a stento dalle truppe del Polisario, inferiori nel numero e nell'equipaggiamento. Davide contro Golia. Solo il deserto sembra rendere possibili sfide così impari. I saharawi lo conoscono perfettamente, e gli incursori del Polisario si muovevano rapidi, imprendibili, con una guerriglia “mordi e fuggi” che nel lungo periodo ha sfiancato l'esercito di re Hassan II, 150mila uomini dislocati su un fronte enorme (2.500 chilometri), protetto da una linea di muri di sabbia e campi minati costruiti negli anni Ottanta. Sono le sentinelle sempre più stanche e allucinate di questa specie di “Fortezza Bastiani” che è diventato il Sahara occidentale, sempre in attesa di un nemico invisibile, costretti a lottare con l'isolamento, il sonno, la paranoia. I casi di insubordinazione e gli episodi di follia sono numerosi, anche adesso che la guerra non c'è più. L'assurdità della situazione è esasperata dalle autorità marocchine che non accettano l'esistenza dei prigionieri di guerra caduti in mano al Polisario: sono fantasmi ormai integrati nella strana vita dei campi profughi (spesso gli unici in grado di svolgere mansioni tecniche).
L'idea del “Grande Marocco”, la legge del più forte si scontra con il desiderio di libertà degli “uomini del deserto” (questo è il semplice significato della parola “saharawi”). Il tentativo dei sultani marocchini di assoggettare le popolazioni nomadi del Sahara si perde nella notte dei tempi, come minimo dalla conquista di Timbuctù nel XVI secolo. La zona abitata dalle tribù nomadi di origine yemenita e berbera fin dal XIII secolo era indicata dalla dinastia alawita che regnava sul Marocco con il termine bled as-siba, “il territorio della dissidenza”: a parte periodi di sottomissione temporanea o il pagamento non regolare di tributi, i saharawi non furono mai sudditi della monarchia marocchina.
Il deserto non ammetteva confini, la libertà degli “uomini blu” (nome che indica tanto i sahrawi, dal turbante nero che stingeva lasciando un alone indaco sulla pelle, quanto i Tuareg) sconfinava nell'anarchia, nella potenziale guerra di tutti contro tutti. A dirimere le questioni più delicate c'era comunque il “Consiglio dei Quaranta”, che riuniva i capi di tutte le tribù su base ugualitaria: il nucleo fondante della democrazia del deserto. La nazione saharawi cominciava ad esistere, basata su una lingua comune, su una cultura fortemente arabizzata, sulla religione musulmana nella versione sunnita. Mancava completamente la nozione di territorio, “regalo” del colonialismo spagnolo, che si trovò a fronteggiare l'espansione francese nel Sahara.
La Conferenza di Berlino del 1885 riconobbe la sovranità spagnola sulla zona che all'epoca veniva chiamata Rio de Oro: in realtà gli iberici si erano insediati solo sul tratto di costa atlantica a sud delle Canarie. Ma i francesi, agli inizi del Novecento, stavano avanzando da nord (Marocco), da est (Algeria) e da sud (Mauritania): preoccupati dal potenziale conflitto, Francia e Spagna arrivarono all'esatta definizione del territorio spagnolo (1912).
Il processo di decolonizzazione degli anni Cinquanta non doveva alterare l'assetto dei nuovi stati africani: questo principio, apparentemente assurdo (gli europei non avevano certo tenuto presenti le varie realtà etniche nel disegnare la “loro” Africa) era in realtà il miglior criterio per garantire un minimo di pace e stabilità al Continente nero e venne fissato una volta per tutte nel 1963 ad Addis Abeba, quando si costituì l'Organizzazione dell'unità africana (OUA). Due anni dopo, l'Onu votava una risoluzione sul Sahara occidentale che intimava alla Spagna di rispettare l'autodeterminazione del popolo saharawi (che aveva partecipato alla lotta anticoloniale di Marocco e Mauritania). La risposta del regime franchista fu quella di accentuare l'integrazione amministrativa e sociale, cercando di aumentare il livello di autonomia con il risultato di favorire la nascita di un vero movimento indipendentista: il 20 maggio 1973 si registra la prima azione del neonato Fronte Polisario, un attacco ad un avamposto spagnolo.
Il colonialismo franchista non aveva alcuna chance di sopravvivenza: questa consapevolezza spinge Madrid ad organizzare il censimento del 1974 come base di un futuro referendum per l'indipendenza. La situazione precipita proprio con la lunga agonia del “Caudillo”, nell'autunno del '75.
Mentre si sta preparando la delicata successione a Franco, la Spagna si trova a fronteggiare non solo le prime lotte per l'indipendenza e le pressioni internazionali, ma anche le mire espansionistiche di Marocco e Mauritania. Soluzione alla Ponzio Pilato, avallata dal giovane Juan Carlos: una bella spartizione fra i due litiganti, come previsto nell'accordo a tre firmato il 14 novembre 1975. Gli spagnoli se ne vanno, arrivano le truppe marocchine e mauritane. I saharawi in fuga vengono bombardati senza pietà dall'aviazione di Hassan II (equipaggiata, ieri come oggi, da Francia e Stati Uniti). L'Algeria apre le porte ai profughi.
Il 27 febbraio 1976, in una parte di Sahara controllato dal Polisario, viene proclamata la Repubblica araba saharawi democratica (RASD). La repubblica che non c'è, lo stato dei rifugiati e dei guerriglieri. Nella costituzione originaria l'Islam è “religione di stato”, l'arabo lingua ufficiale e i principi ispiratori sono socialisti (anche se l'elemento ideologico non è mai stato prioritario). Il primo stato a riconoscere la RASD è il Madagascar “rosso” di Didier Ratsiraka. Seguono lo Yemen rivoluzionario, il Vietnam, l'Etiopia di Menghistu, il Nicaragua sandinista. Negli anni Ottanta cresce il consenso fra i paesi latinoamericani e dei Caraibi, fra i non allineati (India, Jugoslavia), gli islamici (Siria, Libia, Iran) e perfino la Papua-Nuova Guinea. Il riconoscimento più grande avviene però con l'ammissione all'OUA come 51° Stato membro nel 1982. Il Marocco di Hassan II lascia per protesta l'organizzazione.
L'Europa è completamente assente, negli anni della guerriglia del Polisario, che accetta il confronto armato senza farsi mai tentare dal terrorismo. La Mauritania, troppo debole per sostenere una guerra di logoramento, si ritira dal conflitto.
Il Marocco è il migliore alleato occidentale nell'area e può portare avanti indisturbato la colonizzazione forzata delle città, che cambiano volto: decine di migliaia di marocchini si trasferiscono nel Sahara occidentale, vengono costruite infrastrutture notevoli, riprende lo sfruttamento del prezioso giacimento di fosfato di Bou Craa (uno dei più grandi del mondo), si fanno accordi commerciali per la gestione delle risorse ittiche (la costa del Sahara occidentale è una delle più pescose della fascia atlantica). In altre parole Hassan II “normalizza” la situazione all'insegna del business. Solo il mantenimento dell'esercito, il finanziamento della guerra di posizione appesantisce i bilanci marocchini. Ma la guerra si sposta dal deserto alle stanze dell'ONU: nel 1991 si arriva al cessate - il fuoco, e per la prima volta si parla di ufficialmente di referendum. La partita diventa esclusivamente politico - diplomatica.
Il primo round se lo aggiudica Hassan II, riuscendo a far dissolvere come un miraggio la consultazione popolare prevista per il 1992. Il re del Marocco sa che il tempo lavora per lui e contro le aspirazioni del Polisario. Intanto riesce a guadagnare sei anni, anche se alla fine, grazie alla mediazione dell'ex-segretario di stato americano James Baker si arriva all'ora X, al D-Day: il 7 dicembre 1998.
“Un mero tramite per l'indipendenza”. Nell'immaginario collettivo dei saharawi questo e solo questo rappresenta il referendum. Il lieto fine di una storia che ha già causato troppe sofferenze. La questione in realtà è molto più complessa, e i dirigenti del Polisario, un'élite abile e competente, lo sanno. La linea ufficiale sostiene che qualsiasi decisione presa in un referendum che sia “libero, giusto e trasparente” verrà accettata: se i saharawi voteranno per l'integrazione, il Fronte si scioglierà, cessando la sua attività. Il segretario generale del Polisario (e presidente della RASD) Mohamed Abdelaziz ha adottato da anni una politica moderata ai limiti del “buonismo” nelle relazioni internazionali, ma sul terreno l'atteggiamento dei suoi uomini è giustamente duro, intransigente. Lo sanno perfettamente i funzionari della Minurso, ogni volta che si procede al delicato compito dell'identificazione. Sulla composizione delle liste elettorali naufragò il primo tentativo di referendum : il Marocco tendeva ad allargare al massimo la base del suffragio, inserendo moltissimi coloni; il Polisario, al contrario, si basa essenzialmente sul censimento spagnolo del '74, che ha “contato” 73.497 saharawi (gli europei erano 20mila). Dopo un lunghissimo tira e molla diplomatico, il Marocco ha sostanzialmente ceduto alle pressioni di Baker, vicino alle richieste del Polisario, per quanto riguarda i criteri di identificazione. Potranno partecipare al fatidico referendum gli iscritti nel censo spagnolo, i loro parenti diretti di primo grado (genitori e figli), i nati nel Sahara occidentale prima del ‘74, le persone che possono dimostrare di essere stati residenti nel territorio per almeno sei anni prima del '74. Può sembrare un problema burocratico, ma è qui che si gioca la vera partita, è nei centri di identificazione che avviene un durissimo confronto politico e umano, a volte all'interno della stessa famiglia. Se infatti è evidente il tentativo reiterato del Marocco di “gonfiare” le liste, è anche vero che i rappresentanti saharawi sono durissimi con chi è sospettato di collaborazionismo o semplicemente di integrazione. Questo vale ovviamente solo per chi è rimasto nel Sahara occupato, accettando l'umiliazione in cambio del benessere (secondo una visione “ideologica”: c'è anche chi non ha potuto scappare). Si sono già visti padri che giuravano di non aver mai visto i propri figli, nonni che si mostravano estranei ai nipoti. Il vero saharawi non può scegliere l'integrazione, questa è la verità taciuta dal Polisario (e dalla stragrande maggioranza dei sahrawi, a quanto pare), che ha mille ragioni per sostenerla. Però il giusto e l'utile non sempre coincidono, in politica: e qui si scontra il progetto ai limiti dell'utopia di chi vorrebbe tornare a governare una terra che non conosce più, e l'eterna Realpolitik che tende a far vincere sempre il più forte e a mantenere l'ordine acquisito. E' incredibile come tutte le previsioni, fuori dai discorsi ufficiali, siano convergenti su due ipotesi contraddittorie: i sahrawi vinceranno il referendum, ma il Marocco non concederà mai l'indipendenza al Sahara occidentale.
Da una parte la microsolidarietà e i buoni sentimenti di migliaia di volontari, osservatori, giornalisti, partiti della sinistra internazionale, amici dei saharawi; dall'altra il mondo degli affari, della globalizzazione, di un Marocco fedele alleato occidentale che punta a diventare la potenza regionale (con buone possibilità di successo), senza troppi riguardi per la democrazia e i diritti umani (il regime di re Hassan è sempre in “pole position” nelle liste nere di Amnesty International).
Da una parte un popolo che vive di assistenza, nelle dure condizioni dei campi, e che ha sviluppato un modello comunitario di democrazia quasi surreale (tutti alfabetizzati, scolarizzazione di base ottima, donne con un ruolo impensabile in altri paesi islamici, accoglienza totale degli stranieri), una sorta di isola “povera ma felice” (sempre più in crisi, però) in mezzo al deserto; dall'altra, gente che ha vent'anni di vantaggio, ormai smaliziata nella gestione della pesca, del turismo, degli affari, ancorata ad un modello di paternalistico (per non dire autoritario tout court ) di società, con il controllo sociale asfissiante tipico di tutti gli stati arabi, Territori autonomi compresi.
La grande sfida è già in atto. In questo angolo remoto del mondo, in un deserto così vuoto da rimanere allucinati, nel silenzio assordante della natura padrona, potrebbe essere gettato un seme piccolissimo, ma con enormi ricadute potenziali per gli arabi, per l'Islam, per l'Occidente. Il 7 dicembre 1998 potrebbe vincere il granello di senape.
Cesare Sangalli
Il tè nel deserto di Emhamed Khadad, del Fronte Polisario
Ultimi, ma non meno importanti
“Il nostro successo consoliderà la democrazia in questa parte del mondo”. Secondo il responsabile dei rapporti con l'ONU, i saharawi hanno imparato la “lezione algerina”Se tutti i dirigenti del Fronte Polisario sono come lui, i sahrawi possono guardare al futuro con buone speranze. Emhamed Khadad, 45 anni, è il responsabile dei rapporti con la Minurso. Sembra più giovane della sua età, ma certo non gli manca la forza carismatica, che trasmette sia nello sguardo che nella voce. E' chiaro che l'ambiente aiuta: seduti sui tappeti di una tenda in mezzo al deserto per osservare la liturgia del tè, si perde un po' il senso del ruolo, dell'ufficialità, delle rispettive appartenenze. Umano, troppo umano. In questi frangenti la lotta dei saharawi è combattuta con le armi della gentilezza, dell'ospitalità. Khadad non è fra quelli che hanno imbracciato il kalashnikov: studente ad Algeri, ha avuto i primi contatti con il Polisario nel '73, quando era all'università, e due anni dopo ha iniziato la sua attività politica.
Come è nato l'indipendentismo saharawi?
Come ovvia conseguenza del processo di decolonizzazione, che, per quanto ritardato non poteva non coinvolgere il Sahara occidentale. Occorre però tenere presente che i primi spagnoli arrivarono nel 1884 e la conquista del Sahara (che allora si chiamava Rio de Oro N.d.R.) è stata completata solo nel 1934. Cinquanta anni di resistenza. Ed è importante ricordare anche il contributo dei saharawi alle lotte indipendentiste di Marocco e Mauritania: il sentimento anticoloniale è ben radicato.
La tradizione guerriera delle popolazioni nomadi avrà inciso...
Indubbiamente. I popoli del deserto non hanno mai voluto padroni. Ma il processo storico della decolonizzazione resta più importante: il Sahara occidentale deve ancora completare questo percorso fissato già nel 1965 dall'ONU. Purtroppo non è stato possibile ottenere l'indipendenza nell'ambito delle norme di diritto internazionale, a causa dell'invasione marocchina. Nessuno, nel '75, si aspettava una tale risposta da parte nostra. Solo l'insuccesso militare, nonostante una schiacciante superiorità numerica, ha indotto il Marocco ad accettare una soluzione politica.
Quella del Polisario è stata una vittoria militare?
Noi non abbiamo vinto la guerra: abbiamo solo raccolto la sfida sul campo di battaglia per dimostrare che la soluzione NON poteva essere militare. Adesso finalmente c'è spazio per una soluzione politica, pacifica. Noi accettiamo di rimetterci alla volontà popolare, e in questo modo non ci saranno né vincitori, né vinti.
Molti movimenti di liberazione nazionali si sono trasformati in partiti unici, dopo l'indipendenza. Lei conosce l'Algeria e la storia del FLN . E' lo stesso per il Polisario?
Dopo tutte le sofferenze che sono state inflitte al nostro popolo è inimmaginabile una dittatura. La pace è in primo luogo pace interiore, armonia. Il Fronte Polisario non pretende di avere una legittimazione storica per il potere. Il nostro obiettivo era e resta quello di ottenere l'autodeterminazione per i saharawi. Una volta ottenuto il rispetto di questo principio, il campo è aperto a tutte le soluzioni, a tutti i partiti. Vogliamo una democrazia pluralista, un'economia di mercato, una stretta cooperazione con i paesi europei.
La RASD potrebbe diventare un modello per gli altri paesi arabi?
Credo che il nostro successo consoliderà la democrazia in questa parte del mondo. Non vogliamo assolutamente fallire laddove gli altri hanno fallito, possiamo fare tesoro delle lezioni della Storia. Non dico che tutti siano pronti, non dico che tutti abbiano gli stessi sentimenti e la stessa maturità, ma la democrazia è anche accettare i problemi, le contraddizioni, la conflittualità.
Quali sono i problemi più gravi che dovrete affrontare?
Cancellare le ferite di una guerra così lunga, ricostruire il paese, ottenere un'economia stabile. Per l'assetto politico è previsto un periodo di transizione e l'elaborazione di una nuova costituzione.
Nel progetto di costituzione l'Islam resta religione di stato. Non correte il rischio di cadere nel fondamentalismo?
La nostra è una società musulmana, ma non vedo il rischio del fondamentalismo. La funzione svolta dalle donne saharawi è il miglior esempio del nostro approccio. L'ottanta per cento dell'insegnamento è svolto dalle donne. Ai tempi degli spagnoli erano analfabete al novanta per cento: oggi tutte le ragazze studiano, in classi miste. Ma in tutti i campi la partecipazione delle donne è notevole e certe conquiste non verranno mai messe in discussione.
Come potrà la gente cresciuta nei campi profughi, secondo uno stile comunitario, adattarsi ad un'economia di mercato?
L'impatto iniziale sarà traumatico, non possiamo nascondercelo. Siamo cresciuti nell'assistenza e non c'è la minima idea di lavoro organizzato. La gente non capisce il valore delle cose e dei soldi, non esiste il concetto di retribuzione: qui tutti ricevono secondo i loro bisogni, secondo l'entità dei nuclei familiari e non secondo il lavoro svolto. Questa mentalità da assistiti peserà sicuramente, dovremo fare un grosso sforzo per accettare la realtà delle cose. Però credo che la nostra tradizione di solidarietà, di generosità e di tolleranza non verrà meno.
Che cosa significherà lasciare il deserto e tornare nelle città?
Anche questa prospettiva rappresenta un'incognita. I nostri centri portano il nome delle città del Sahara occidentale: abbiamo cercato di sviluppare un senso di appartenenza alla terra di origine anche nei più giovani . Certo, se si pensa per esempio che i ragazzi nati nel campo di Dakhla non hanno mai visto il mare, quando la vera Dakhla è una bella cittadina su una penisola, con il clima temperato e con poco vento...
Se vincete il referendum, quale politica adotterete nei confronti dei residenti di nazionalità marocchina?
Avremo sicuramente bisogno di loro nel nostro stato. Possono tranquillamente restare da cittadini del Sahara occidentale. Noi non siamo molti, sono convinto che ci sarà lavoro per tutti.
Cesare Sangalli