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Pubblicato su "Galatea" febbraio 2007

La rinascita del “cuore di tenebra” dell'Africa

Congo, l'illusione e la speranza

Le prime elezioni libere dall'indipendenza non bastano a chiudere un passato scandaloso: il saccheggio delle risorse immense del paese deve finire. Ora le aspettative di pace e giustizia dei congolesi non possono più essere ignorate

“Se l'Africa fosse raffigurata come una pistola, il suo grilletto si troverebbe in Congo”. Le parole di Frantz Fanon, intellettuale terzomondista degli anni Cinquanta, suonano oggi come una profezia. Il Congo è il forziere del continente, il caveau delle ricchezze africane, una terra che sembra nata per alimentare un'avidità senza limiti. Non c'è risorsa naturale che non sia presente in quantità enormi, a partire dall'acqua e dalla terra fertile per finire con la scoperta più recente, il petrolio. “Uno scandalo geologico”, è stato definito il Congo: oro, diamanti, rame, stagno, uranio, coltan, cobalto, zinco, carbone. Si fa fatica a pensare che questo immenso patrimonio sia stato monopolizzato per quasi un secolo da un paese settanta volte più piccolo, il Belgio. Si fa fatica a pensare che l'opera di “civilizzazione” di Bruxelles abbia fatto milioni di vittime, nei primi anni del Novecento, mentre in Europa si parlava dei missionari e dell'opera umanitaria del dottor Schweitzer. Come risulta quasi incredibile che dal 1996 al 2003 la lotta per la spartizione del paese abbia causato la morte, direttamente o indirettamente, di tre o quattro milioni di persone senza che se ne avesse praticamente notizia, senza che mai una prima pagina venisse sprecata per questa tragedia immane.
E' sempre stato tutto così esagerato, da queste parti, che ormai il Congo sembra diventato una categoria dello spirito, un termine usato fra rassegnazione e fatalismo per giustificare l'ingiustificabile, spiegare l'inspiegabile, descrivere l'indescrivibile. Ogni lettura della realtà, anche la più distorta, diventa in qualche modo plausibile. Un esempio? C'è gente che, visti gli ultimi dieci anni, quelli di Kabila padre e figlio, rimpiange l'epoca di Mobutu. E quelli che ricordandosi di Mobutu, rimpiangono i tempi del colonialismo belga. In qualche modo hanno ragione, perché le cose sono andate sempre peggiorando: “la storia del Congo è come una fossa scavata sempre più in profondità”, dichiara Roger Ebanda, dirigente camerunese dell'UNHCR, l'agenzia dell'ONU che si occupa di rifugiati.
Ma ogni passo nella discesa agli inferi richiama le responsabilità dei passi precedenti. Ci sono due momenti fondamentali nella storia recente del Congo: l'indipendenza del 1960 e la fine del regime di Mobutu negli anni Novanta. In entrambi i casi è stata presa la strada peggiore, continuando appunto a scavare la fossa ostinatamente portata avanti dal Belgio per più di 80 anni. Con la differenza che l'indipendenza nasce all'insegna del disegno criminale dell'Occidente, mentre la fallita transizione dalla dittatura mobutista è quasi tutta da addebitare alla classe politica congolese.
L'indipendenza del Congo poteva segnare l'inizio del riscatto per un popolo umiliato e derubato dagli ineffabili coloni del piccolo Belgio. C'era l'uomo giusto al momento giusto, e si chiamava Patrice Lumumba. Un vero patriota, animato da un senso della missione politica quasi mistico, un leader progressista che aveva capito chiaramente che le divisioni etniche di un paese enorme come il Congo erano lo strumento del dominio coloniale: “Esiste una sola tribù – diceva – la nazione congolese”. La gente lo ascoltava, lo seguiva. Lumumba aveva sfidato, da primo capo di governo del Congo indipendente, il re Baldovino, ricordandogli le gravissime responsabilità storiche del Belgio e annunciandogli che la festa sulla pelle del suo popolo era finita. In realtà, stava già pronunciando la sua orazione funebre.
Neanche il tempo di festeggiare l'indipendenza, infatti,e arriva la destabilizzazione dall'Est. La storia in qualche modo si ripeterà: il caos in Congo nasce sempre a est, perché è qui, lontanissimo dalla capitale Kinshasa, che si concentra quasi tutta la ricchezza mineraria. Nel 1960 è la regione del Katanga a dichiarare la secessione: le compagnie minerarie del Belgio, a partire dalla storica “Union minière”, hanno il loro leader-fantoccio, Moisè Ciombè, e mettono in campo direttamente truppe mercenarie. A Kinshasa la destabilizzazione nasce all'interno dell'esercito: le potenze occidentali hanno già individuato l'uomo del futuro in Mobutu Sese Seko, astutissimo ufficiale che aveva studiato nelle scuole dei missionari. Mobutu, classe 1930, è appena più giovane del trentacinquenne Lumumba, che purtroppo si fida di lui, proprio come la CIA che lo tiene a libro paga.
Il Congo sprofonda in una guerra civile eterodiretta, un conflitto che vede il primo invio di caschi blu nella storia dell'ONU. Nell'inferno congolese muoiono addirittura il segretario generale delle Nazioni Unite, Dag Hammarskjold, in un misterioso incidente aereo, così come una pattuglia di piloti italiani massacrati (qualcuno dice cannibalizzati) a Kindu.
L'ora di Lumumba arriva presto: il 17 gennaio 1961 è arrestato, trasferito in Katanga e ucciso di fronte ai militari belgi che dirigono le truppe di Ciombé, il burattino secessionista. Il destino del Congo è segnato: Mobutu Sese Seko, capo di stato maggiore, mette fine all'instabilità con il colpo di stato del 1965. Ora l'ordine regna sovrano nel “Paese del grande fiume”, gli interessi occidentali sono salvi, il saccheggio del Congo può proseguire indisturbato.
“L'uomo dal totem leopardo”, come lo chiama lo scrittore Ahmadou Kourouma , viene da una tribù che ha “…come virtù cardinali la menzogna, il furto e il coraggio. Con coraggio, (Mobutu) saprà meravigliosamente mentire per rubare e uccidere” (A. Kouruma, “Aspettando il voto delle bestie selvagge”).
Il termine “cleptocrazia” sembra nato per lui, a sua immagine e somiglianza, perché nessuno probabilmente, in tutto il continente, ha rubato così tanto e così a lungo. Mobutu negli anni Settanta è già diventato uno degli uomini più ricchi del pianeta. Alleato di ferro di Washington (e di Parigi), riesce a portare il più atteso match pugilistico della storia, quello fra Mohammed Alì (Cassius Clay) e George Foreman, a Kinshasa, nel 1974, al culmine della sua “politica dell'autenticità”, che era un'autentica pagliacciata: mentre il Congo sprofondava nella corruzione e nel sottosviluppo, per la gioia delle multinazionali del settore minerario, si riscopriva l'orgoglio delle radici africane semplicemente cambiando i nomi (per cui il paese venne ribattezzato Zaire) e organizzando grandi coreografie tradizionali.
I congolesi si arrangiano in qualsiasi modo, il che significa, per quelli che possono, adeguarsi alla ruberia generale su scala più bassa. A cercare di opporsi al regime restano la Chiesa cattolica e un movimento di opposizione fondato nel 1982 che si chiama “Union sacrée” ed è guidato da un politico di lungo corso, Etienne Tshisekedi .
La seconda grande occasione per il Congo arriva con la fine del comunismo e della Guerra Fredda, nel biennio 1989-91. Ogni parvenza di giustificazione ideologica è venuta meno, e i paesi occidentali, Stati Uniti in testa, cominciano a scaricare i dittatori più imbarazzanti. Mobutu lo è più di ogni altro. Ma è anche una vecchia pellaccia, che sa come muoversi nel pantano della politica congolese, un pantano in cui è riuscito a trascinare gran parte della classe dirigente. Inizia così un interminabile poker istituzionale fra il dittatore e l'opposizione, che dovrebbe sfociare in una nuova costituzione e in libere elezioni. La Chiesa cattolica presiede, come in altri paesi africani, la Conferenza nazionale, nella persona di monsignor Monsengwo , e Etienne Tshisekedi, il grande oppositore, guida il governo transitorio.
“Avevamo un compito enorme” – ricorda oggi Monsengwo – “ In primo luogo, rileggere la storia del paese; quindi stabilire le responsabilità individuali e collettive; e infine elaborare la nuova forma di governo del Congo, la Terza Repubblica”. Per completare il pur difficile passaggio dalla dittatura alla democrazia, cinque anni non sono bastati. Secondo mons. Monsengwo, il lungo processo si era concluso positivamente, e sarebbe andato in porto se non fosse scoppiata la guerra, ancora una volta nelle regioni dell'est . Per il vescovo di Kisangani, non ci sono dubbi: “La cosiddetta ribellione era in realtà una guerra importata in Congo dalle potenze straniere, proprio quando tutto era pronto per le elezioni”.
In pratica, una riedizione dello scenario del 1960: quando la nazione sta per fare un decisivo passo avanti, qualcuno si incarica di riportare indietro le lancette della Storia. Il riferimento è a Ruanda e Uganda, e dietro di loro agli Stati Uniti. Ma la versione del complotto straniero rimuove con grazia le responsabilità delle élites congolesi (e quindi in qualche modo anche quelle di mons. Monsengwo).
Chiusa nei palazzi della capitale, sempre più autoreferenziale, “la classe politica zairese, vecchia e nuova, si dimostra incapace di partorire la terza repubblica” perché è “impantanata in dispute giuridiche formali e dilaniata dalle diatribe per l'attribuzione di poltrone e prebende” (Jean Leonard Touadi, “Congo”). Intanto il Congo (che si chiama ancora Zaire) è un paese fantasma, “dove i lavoratori non lavorano, gli studenti non studiano, i ministri non amministrano più, i presidenti non dirigono nulla e i combattenti non combattono”, come scrive Yoka Lye, ricercatore congolese, che paragona il periodo della transizione al naufragio del Titanic: la nave affonda mentre l'orchestra continua a suonare. I fatti dimostrano ampiamente che Mobutu non aveva alcuna intenzione di sottoporsi al giudizio popolare: hanno tutti abboccato al suo bluff, da Monsengwo a Tshisekedi. E lo sconvolgimento delle regioni orientali è provocato, più che da qualsiasi intrigo internazionale, da un fatto epocale: il genocidio in Ruanda.
E' l'estate del 1994: i tutsi del Fronte patriottico ruandese di Paul Kagame, partendo dalle loro basi in Uganda, sconfiggono rapidamente le truppe del governo che ha pianificato il genocidio della loro etnia ed entrano a Kigali, minacciando vendetta.Una massa di hutu (oltre un milione) si rifugia in Congo. Nascosti nella marea di disperati, ci sono migliaia di assassini che hanno partecipato allo sterminio di massa, e sognano già la rivincita: sono le famigerate milizie Interahamwe. I campi profughi ammassati a ridosso del confine diventano le loro basi. I primi a fare le spese della loro violenza sono i tutsi congolesi, che portano il nome di banyamulenge. La miccia dell'esplosione del Congo, che qualcuno chiamerà “prima guerra mondiale africana”, è stata innescata.
I banyamulenge, come tutti i tutsi, hanno una tradizione guerriera formidabile. Supportati dal Ruanda, rispondono alla violenza subita con una violenza ancora più grande. Mentre a Kinshasa si trastullano con elezioni che non ci saranno mai (è l'ottobre del 1996 e Mobutu è ancora in sella), nell'est in fiamme rispunta una vecchia conoscenza congolese: Laurent-Desiré Kabila. Kabila è stato un guerrigliero “lumumbista” negli anni Sessanta; è originario dell'est (Katanga), e si è ritrovato a combattere al fianco di “Che” Guevara, che voleva esportare la rivoluzione in Congo, ma si era reso conto ben presto che il contesto non lo consentiva ( il suo giudizio sui guerriglieri congolesi e Kabila era completamente negativo). Nascosto per anni fra il Congo e la Tanzania, Kabila intuisce che è arrivato l'appuntamento con la Storia. Si allea con i banyamulenge e con i loro sponsor ruandesi , forma una coalizione di ribelli e parte alla conquista di Kinshasa, perché sa che il regime di Mobutu è alla frutta, e il Congo cadrà nelle sue mani come una pera marcia. E' quello che pensano in molti, a partire dal ruandese Kagame e dal suo collega ugandese Museveni, entrambi sostenuti da Washington. E' arrivato il momento di cacciare Mobutu e impadronirsi delle ricchezze del Congo.
L'avanzata delle truppe di Kabila (ma si potrebbe dire dei ruandesi) è spettacolare: le città cadono una dietro l'altra, nessuno vuole morire per Mobutu, l'esercito governativo si arrende spesso senza quasi combattere.
Nel maggio del 1997 Kabila è alle porte di Kinshasa. Mobutu tenta di accordarsi in extremis, cerca l'ennesima mediazione, ma Kabila “vede” il suo bluff, anche perché già da tempo prende accordi con le compagnie minerarie, che capiscono subito dove tira il vento. Mobutu raccatta quello che può, e fugge come un ladro in Marocco, dove muore di cancro pochi mesi dopo, nella sua villa lussuosa (una delle tante). A Kinshasa, a rappresentare un qualche governo legittimo, è rimasto il povero Tshisekedi, che in pratica rappresenta se stesso, ma ancora non l'ha capito. Kabila lo ignora completamente, si dichiara presidente, e quando Tshisekedi esagera con le critiche, lo spedisce agli arresti domiciliari.
In barba a tutte le dispute sulla legittimità, il nuovo stato di Kabila, che abbandona il nome di Zaire, viene subito riconosciuto e omaggiato da tutta la comunità internazionale. Fine della storia? Neanche per sogno. Kabila non è uno stinco di santo, ma non è nemmeno il burattino che i ruandesi si illudono di controllare. I commentatori internazionali, nel loro cinismo da Risiko, hanno già ipotizzato la creazione di un “tutsi power” amico di Washington e ostile alla Francia nella regione dei Grandi Laghi, con l'assorbimento delle ricche regioni frontaliere da parte di Ruanda, Burundi e Uganda. Kabila non ci sta e caccia i ruandesi. Per tutta risposta, il Ruanda scatena la guerra attraverso due diverse fazioni congolesi create ad hoc. L'Uganda fa altrettanto. Kabila chiede aiuto a Namibia, Angola, Zimbabwe. Il Sudan ci mette lo zampino. Tutti contro tutti, nell'anarchia totale.
In mancanza di meglio, si parla di conflitto etnico (che per l'Africa va sempre bene). Nel sanguinario bordello congolese non si capisce niente.
In realtà, quello che si verifica in Congo è uno scenario già visto: si chiama “geopolitica del caos”, e non è che l'esasperazione del turbocapitalismo globale, che mal sopporta la concezione dello stato e i gli impedimenti della politica, per non parlare di vincoli etici. La logica del profitto a tutti i costi prima o poi finisce per mostrare il suo volto criminale. E' chiaro poi che ognuno si dà al business con i mezzi che ha: per molti africani, senz'arte né parte, poveri di tutto, la via più breve è quella delle armi. Ogni fazione controlla così un pezzo di territorio, dove sono presenti risorse minerarie, che vengono appaltate a chi può fornire soldi e armi, cioè a chi può gestire grandi traffici su scala mondiale. Il sistema in qualche modo funziona, visto che, tanto per fare un esempio, il coltan necessario alla fabbricazione dei telefoni cellulari non è mai venuto a mancare in tutti gli anni della guerra in Congo, che ha oltre il 70 per cento della produzione mondiale. Milioni di consumatori ignari e felici si portano un pezzettino (insanguinato) di Congo nel telefonino, e i mass media occidentali si guardano bene dall'informare quanto costa alla popolazione congolese l'economia di guerra. Ci sono voluti cinque anni (e tre o quattro milioni di morti) perché si arrivasse, con il forte contributo della comunità internazionale, agli accordi di pace di Sun City del 2003. Nel frattempo, Kabila padre è stato ucciso da una sua guardia del corpo, e il figlio Joseph ne ha preso il posto. Bene o male è lui l'artefice della pace, e per questo le regioni dell'est gli tributeranno un voto massiccio. Il fragile equilibrio congolese, basato sulla cooptazione al potere di tutte le fazioni combattenti, con un presidente provvisorio (Kabila) e quattro vicepresidenti, in qualche modo ha retto fino alle elezioni del 2006.
Determinante è stato anche il mutato atteggiamento dell'ONU. Si può dire tutto il male possibile delle Nazioni Unite, però nel caso del Congo un merito ce l'hanno: hanno denunciato ufficialmente, nero su bianco, il ruolo svolto dalle multinazionali del settore minerario nella guerra , in due successivi rapporti (aprile 2001 e ottobre 2002). L'elenco è lungo, e riguarda ben 85 gruppi, senza contare intermediari e coperture finanziarie. Ce n'è per tutti i gusti, dal Belgio al Canada, dagli USA alla Gran Bretagna, e, ultima ma non meno importante, la Cina. All'appello manca l'Italia, ma è un caso (in Somalia eravamo ben presenti, come testimoniato da Ilaria Alpi). Tanto per fare un esempio delle meraviglie della globalizzazione, una parte del coltan congolese veniva comprato da una multinazionale americana (“Eagle Wings”) prendeva la via del Ruanda, era fatturato falsamente in Mozambico, finiva in Kazakistan o in Cina per essere trattato, e poi arrivava in Europa grazie ai buoni uffici di una società partecipata della Bayer, la mitica casa farmaceutica dell'aspirina (Rapporto delle Nazioni Unite, 16 ottobre 2002).
La cosiddetta agenda internazionale quindi è andata cambiando, e il Congo è finalmente diventato una priorità. A scaglioni successivi, ben 17mila caschi blu sono stati inviati nel paese (MONUC, attualmente la più grande missione ONU del pianeta) e sono stati investiti 500 milioni di dollari solo per consentire lo svolgimento delle elezioni. L'appuntamento fatidico è arrivato, dopo un ennesimo rinvio, il 30 luglio 2006. La risposta dei congolesi è stata straordinaria: oltre il 70 per cento di votanti, cioè più di 20 milioni di persone, sono andati alle urne nella disciplina assoluta, in un paese grande quanto l'Europa occidentale e praticamente privo di strade. Le operazioni di voto, a parte poche eccezioni, sono state effettuato con uno zelo che ha del miracoloso, per una realtà dove nulla funziona correttamente.
Il voto alle presidenziali si è concentrato su Joseph Kabila e Jean Pierre Bemba, che sono andati al ballottaggio nell'ottobre scorso (vinto poi da Kabila con il 58 per cento dei suffragi). Bemba era uno dei quattro vicepresidenti del governo provvisorio, dal momento che guidava una fazione congolese nella guerra civile, il MLC sostenuto dall'Uganda. E' figlio di un ricco imprenditore strettamente legato a Mobutu, e contro di lui (come per tutti i signori della guerra e per lo stesso Kabila) ci sono molte accuse per crimini di guerra. Ha impostato quasi tutta la sua campagna sul fatto che Kabila non era congolese e rappresentava interessi stranieri (per la serie: il bue chiamò cornuto l'asino). Le fazioni dei due candidati si sono affrontate due volte a colpi di arma da fuoco nella capitale, e questo ha fatto temere il peggio, ma poi tutto è rientrato. Kabila, che è di madre ruandese ed è cresciuto fra Tanzania e Uganda, non ha mai raccolto le provocazioni, anche perché è un personaggio assai schivo. A soli 35 anni (come Lumumba), deve guidare il paese nella fase più difficile. Le elezioni hanno creato aspettative enormi, ma la democrazia congolese potrebbe rivelarsi ben poca cosa, soprattutto se, spenti i riflettori dei media, la presenza della comunità internazionale (e delle forze MONUC) si facesse debole e si continuasse a pensare al Congo come ad un paese da sfruttare impunemente. Kabila, in questi tre anni, non ha cambiato una virgola nella gestione delle risorse. E tutti gli ex miliziani integrati nell'esercito nazionale potrebbero presto stancarsi del loro ridicolo salario (20 dollari al mese), soprattutto se venissero a mancare gli aiuti internazionali, e potrebbero ricominciare a fare quello che sanno fare meglio, cioè depredare la gente (e violentare le donne). Per ora, a tutti è stata garantita l'impunità (tranne qualche raro caso), e averla fatta franca non è il miglior deterrente per non tornare a delinquere.
Ma il popolo congolese non ha scelto solo il suo presidente legittimo (optando sicuramente per il candidato meno peggio, almeno rispetto a Bemba). Ha anche eletto il primo vero parlamento della sua storia, in una repubblica in cui il presidente non ha tutti i poteri. Nella scelta dei deputati, ha espresso il suo giudizio sulla classe politica congolese: l'ottanta per cento degli eletti è al primo incarico, una pletora di vecchi marpioni è rimasta disoccupata. E la Corte Suprema ha svolto il suo ruolo di arbitro nell'assoluta imparzialità. Insomma, le istituzioni democratiche cominciano a funzionare in un paese che non sa cosa sia lo Stato.
E' troppo poco? L'ambasciatore italiano a Kinshasa Leonardo Baroncelli è ottimista: “A patto che ci sia stabilità, che la pace possa reggere, il Congo fra tre anni sarà irriconoscibile, in senso positivo”. Kabila ha dichiarato che vuole fare del paese “la Cina dell'Africa”. Chissà. In effetti, per la prima volta dalla morte di Lumumba, questo paese può sperare in un futuro migliore. Ma è meglio non credere alle facili promesse dello sviluppo economico, né alle elezioni come bacchetta magica che instaura la democrazia. Lo scandalo di un paese ricchissimo con una popolazione miserabile deve finire. E di fronte a questa vergogna non si dovrà più dire, semplicemente, “è il Congo”.

Cesare Sangalli