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Pubblicato su "Galatea" settembre 1998

La pace bugiarda del paese di Rigoberta Menchù

Guatemala, il feudalesimo del 2000

Una repubblica considerata proprietà privata da una casta di proprietari e imprenditori. Il settanta per cento della popolazione escluso dalla vita politica, economica e sociale. Un esercito di criminali amnistiati che possiede l'unico canale pubblico della televisione. Le “meraviglie” del Nuovo Ordine latinoamericano

Una grande mano su sfondo azzurro punta l'indice verso il lettore, con un fiocco legato al dito; lo slogan dice: “Ricorda che tu puoi fare per il Guatemala più di ciò che il Guatemala può fare per te”. Il messaggio è ribadito a fondo pagina: “Il Guatemala è nelle tue mani”. Firmato: Consiglio nazionale della Pubblicità, organo del settore imprenditoriale. Vorrebbe essere una sorta di “Pubblicità progresso” per il nuovo Guatemala, per la nazione disegnata dagli accordi di pace del 29 dicembre 1996, e non a caso compare su “Crònica”, uno dei pochi media indipendenti e di area progressista; ma sembra piuttosto la fotografia beffarda della nazione, anche e soprattutto perché riprende un famosissimo slogan kennediano degli anni Sessanta.
E' proprio negli anni della presidenza Kennedy (1960-63) che inizia la guerra civile guatemalteca. A Washington si sognava la “Nuova Frontiera” dei diritti civili e delle conquiste sociali, ma il Guatemala continuava ad essere la classica, tristissima “repubblica delle banane”. L'unico periodo riformista della storia guatemalteca (dal 1944 al 1950 con il presidente Arévalo e soprattutto dal '50 al '54 con Jacobo Arbenz, militare progressista) si era chiuso con un colpo di stato, chiesto dalla potente “United Fruits”, multinazionale del settore agrario, e attuato esplicitamente, direttamente dagli americani. Il democratico Kennedy non cambiò una virgola nel retrobottega dell'Impero, che vide la dittatura militare inasprirsi con l'ennesimo golpe (generale Azurdia, marzo 1963). L'America centrale (e il Guatemala in particolare) era e resta lo specchio vergognoso dell'ipocrisia a stelle e strisce. Da Kennedy a Clinton, altro presidente giovane e democratico, dalla “Alianza para el progreso” (il programma di sostegno allo sviluppo dell'America latina) agli accordi di pace degli anni Novanta, sempre all'insegna del “tutto va per il meglio in questo che è il migliore dei mondi possibili”.
“Guatemala està en tus manos”: nelle mani di chi? Forse delle undicimila famiglie (qualcuno dice di più, qualcuno meno: NESSUNO tira fuori i dati reali) che possiedono l'ottanta per cento della terra, un dato che regala al Guatemala lo squallido primato (insieme al Brasile) della più ingiusta ripartizione delle risorse nel mondo.
L'uno per cento scarso della popolazione con i quattro quinti della terra disponibile. Pazzesco. Eppure “la situazione è complessa”, questo è il ritornello che viene ripetuto negli uffici di Minugua, la missione dell'ONU incaricata di verificare l'applicazione degli accordi di pace fra esercito e guerriglia. Negli accordi l'accesso alla terra è considerato come questione-chiave, eppure non c'è verso di accedere ai dati ufficiali sulla proprietà (sempre che esistano: il catasto è un'istituzione recente, in Guatemala). Nella regione di Alta Verapaz lo studio agronomico di un istituto tedesco mette nero su bianco le cifre dello scandalo: su 8.686 kmq , 4.432 (il 51 per cento dell'area) sono fincas, piantagioni, proprietà privata di trenta famiglie, latifondi da sfruttare, praticamente esentasse. Ecco la vergogna numero due: in Guatemala sostanzialmente non si pagano imposte dirette. La percentuale delle entrate fiscali sul P.I.L. non arriva all'otto per cento (siamo sempre a livelli di primato mondiale) e - incredibile ma vero - questa quota risibile è pagata in larga parte (80 per cento) dalle imposte indirette, quelle sui consumi, che colpiscono tutti, indistintamente. Il concetto di imposizione progressiva (chi più ha, più paga) qui appare una fantasia perversa, una bestemmia “comunista”.
Minugua ha “imposto” un obiettivo minimo: arrivare al 12 per cento di entrate fiscali sul P.I.L. nel Duemila, anno di elezioni presidenziali. Ma perfino il moderato portavoce ufficiale della missione ONU, Manuel de Almeida e Silva, riconosce che “di questo passo non ci arriveranno, e la comunità internazionale non accetterà di continuare a finanziare da sola lo sviluppo sociale ed economico della popolazione”. Cioè costruire le scuole che non ci sono, gli ospedali che mancano, le strade inesistenti; o portare almeno acqua corrente ed elettricità alla popolazione india, che rappresenta i due terzi dei guatemaltechi. Una popolazione impegnata attualmente ad ottenere la registrazione all'anagrafe, cioè ad avere un documento di identità e iniziare finalmente ad ESISTERE di fronte allo Stato. Questo è il Guatemala a due anni dagli accordi di pace: una nazione fondata su un'ingiustizia grottesca.
Però “la situazione è complessa”, “intervenire è difficile”, “secondo qualcuno abbiamo fatto anche troppo”, ci si giustifica nel mondo della diplomazia. Per Minugua l'esigenza primaria dei guatemaltechi è la sicurezza. E forse è pure vero, visto che la delinquenza dilaga, e il clima che si respira a Città del Guatemala, capitale bruttissima e inquinata del Paese del Quetzal, sconfina nella paranoia: ci sono vigilantes e gorilla dappertutto, perfino davanti alle cartolerie o ai negozietti di abbigliamento, armati come marines, pistole automatiche, fucili a pompa, mitra spianati.
La sindrome di accerchiamento dei ricchi è evidente, dalle inquietanti macchinone con i vetri scuri (le stesse che caricavano a forza le persone destinate a sparire negli anni di piombo) alle mura da caserma, con tanto di fari e torrette, che separano le ville dei ceti borghesi e le abitazioni dei funzionari internazionali nella elegante zona 10 o in Avenida Las Americas, dalla povertà e dal disagio sociale. Un mondo a parte. Immerso nell'ottimismo della globalizzazione, confortato day by day dalle reti televisive degli USA e del Messico che mostrano il volto buono del capitalismo e sparano incessantemente film americani, sport americani (dalla NBA al baseball, ma c'è anche il nostro campionato di calcio), musica americana, pubblicità americana. La retorica arrogante e tronfia dei ricchi non si preoccupa nemmeno della moda del “politically correct”, e stuzzica l'orgoglio latino degli eredi dei conquistadores, la razza padrona, senza mezzi termini: la pubblicità della “Swiss Bank Corporation”, con la chiave dell'imperatore Carlo V, afferma che “il sole non tramonta mai” sui capitali elvetici. Messaggio inequivocabile: i privilegi sono immutabili, chi ha sempre comandato continuerà a farlo.
L'alleanza che ha dominato il Guatemala per oltre un secolo era quella tipica del fascismo spagnolo o latinoamericano: proprietari terrieri, esercito e Chiesa cattolica. Tutti rigorosamente ladinos, tutti discendenti degli spagnoli, tutti protetti dalla longa manus della CIA, in nome della lotta al comunismo.
Negli ultimi venti anni questa fisionomia è cambiata. La Chiesa è passata all'opposizione, perdendo grosse fette di potere, ed è l'unica struttura credibile oggi nel Paese. Nessuno ha fatto per il Guatemala quello che hanno fatto monsignor Gerardi , i vescovi, la “Oficina de los derechos humanos”, la Pastorale sociale. E' la Chiesa l'unica vera speranza della nazione, e non a caso gli Stati Uniti finanziano a pioggia chiese e sette protestanti, che nascono e si moltiplicano come la gramigna, per minare alla base il consenso dei cattolici. E' incredibile come in certi paesini dell'interno, con poche migliaia di abitanti, si trovino le chiese e le strutture di mormoni, Testimoni di Geova, Assemblee di Dio varie e predicatori di ogni risma, usciti direttamente dai corsi full immersion di scuola americana. E dove non arriva la convinzione, c'è sempre una mano assassina pronta a creare l'ennesimo martire, come è successo con monsignor Gerardi.
I proprietari terrieri, i potenti finqueros descritti da Rigoberta Menchù, si sono uniti agli emergenti dell'imprenditoria e della finanza, concentrati nelle città. Il presidente della repubblica, Alvaro Arzù, e il suo partito (il PAN) sono espressione diretta di questo blocco sociale. Arzù è stato sindaco di Città del Guatemala; si è presentato come volto nuovo, della destra moderata, della modernità e dell'efficienza. Ha dovuto battere il candidato della destra legata ai militari, quella del Frente Republicano Guatemalteco (FRG), che tende al populismo e attacca il governo attuale sui temi sociali, sognando di portare un ex dittatore, il generale Efrain Rios Montt (da sempre nell'ala izquierdista dell'esercito) alle elezioni presidenziali del 2000. Il progetto dei militari è destinato a fallire: l'articolo 186 della costituzione del 1985 prevede che gli ex golpisti non possano presentarsi come candidati. Ma in realtà è tutto l'esercito che sta perdendo peso politico: incalzati da un passato mostruoso (37mila fatti di violenza su 55mila vittime, 410 massacri di civili con 22mila morti, 3.900 “desaparecidos”, trentasei anni di violenza che hanno coinvolto 260mila persone), costretti dagli accordi a ridurre l'organico di un terzo (per il momento hanno semplicemente chiuso alcune caserme), espropriati del mantenimento dell'ordine pubblico (affidato alla sola polizia), i militari sembrano mirare ad un unico obiettivo: garantirsi l'impunità. Non dovrebbe essere molto difficile.
“Il settore giudiziario è sempre stato molto debole in Guatemala - afferma Neri Rodenas, 32 anni, avvocato della “Oficina Derechos Humanos”- Non è solo una questione di asservimento al potere, in molti casi manca la competenza, il personale, gli strumenti”. Gli accordi di pace prevedono un'amnistia generale per esercito e guerriglia (responsabile di un decimo dei fatti di violenza, massacri compresi). Lo stesso rapporto di mons. Gerardi, “Guatemala, nunca màs”, frutto di sei anni di lavoro sul campo con circa seimila testimonianze, non cita mai le persone ma solo i fatti. Eppure il vescovo di Città del Guatemala ha pagato con la vita il coraggio della verità, una verità che per il momento resta solo storica e non giudiziaria. Nessun ufficiale è mai stato processato per i crimini commessi. Pochissimi i provvedimenti, tutti per i ranghi inferiori e tutti decisi dai tribunali militari. Se poi un caso sfugge di mano, c'è sempre la Corte Suprema, nominata dal parlamento, a cancellare le condanne. I militari comunque non si fidano, anche se la fine della guerra civile ha fatto venire meno il presupposto della violenza. Ora, a parte qualche sanguinosa eccezione (come il massacro di Xamàn, ad opera di una pattuglia dell'esercito praticamente impazzita), le violazioni riguardano quasi esclusivamente la polizia e nella maggior parte dei casi si tratta di corruzione.
La lunga linea di sangue si è interrotta, e questo certamente non è risultato da poco. Ma non c'è pace vera senza giustizia, non si può costruire una pace sulle menzogne e sulla disuguaglianza. O forse sì. E' il dubbio diabolico insinuato dal mondo della diplomazia e dell'economia. Equilibrio, controllo, stabilità. Esaltare le possibilità del paese. Il turismo. Il Guatemala delle rovine maya, di Antigua, del lago Atitlàn, di Quetzaltenango. Quello che ti fanno vedere alla televisione.
Non c'è da stupirsi: l'unico canale pubblico è controllato dall'esercito, che dispone anche di un'università, la famigerata “Francisco Marroquì”, culla della leadership reazionaria. I militari vengono presentati come la vera spina dorsale della nazione negli spot di regime, che utilizzano il linguaggio dei vincenti: “selezione rigorosa”, “modernità e avanzamento tecnologico”, “senso della responsabilità”. Chi non studia dai militari, va a formarsi in Messico o negli Stati Uniti, mèta ideale per i rampolli dell'élite guatemalteca. L'alternativa principale è costituita dall'università cattolica “San Carlos”, che è sempre stata vista come una fucina di sovversivi.
In realtà, non è raro che intellettuali di sinistra si facciano cooptare dall'establishment: l'opposizione al governo è debole e frammentata, gli ex guerriglieri non hanno mai avuto un grande consenso popolare (e qualcuno è passato direttamente alla delinquenza comune). “Quando l'esercito si rese conto dell'effettiva consistenza della guerriglia, i militari sprofondarono nella vergogna: i membri della URNG (Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca ) erano circa diecimila, un gruppetto di fronte alle centinaia di migliaia di soldati” afferma Roberto Arturo Alvarado, 43 anni, giornalista e conduttore di un notiziario radiofonico in lingua kekchì a Coban. “L'URNG ha avuto un certo appoggio negli anni ‘80-'82 - continua Alvarado - ma lo ha perso rapidamente, perché nella tattica mordi-e-fuggi lasciavano esposta la popolazione alle rappresaglie. E comunque non c'erano né indios né contadini a livello di vertice, proprio come nell'esercito”.
Le cifre ufficiali gli danno ragione. Non è mai esistito un eroico esercito popolare come si potrebbe desumere da molta letteratura occidentale di sinistra (vedi il bel libro di Jennifer Harbury “Voglio strappare aol fango le tue ossa”). Le interpretazioni possono essere completamente divergenti, ma i numeri sono lì, testardi, a far emergere una dolorosa realtà: la guerra civile guatemalteca è stata combattuta fra indios. Con una maggioranza schiacciante nei ranghi dell'esercito e delle famigerate PAC (Patrullas de Autodefensa Civil), milizie paramilitari composte su base volontaria che raggiunsero nel 1985 l'esorbitante numero di 900mila uomini.
Gli indios sono stati i manovali della mattanza, perpetrata principalmente sui civili, cioè sui propri fratelli disarmati. I ricatti, le minacce e i compensi in denaro da parte dell'esercito non possono spiegare completamente questo fenomeno. E' come se in Sudafrica la maggior parte delle strutture repressive ai tempi dell'apartheid fosse formato da neri, e l'African National Congress potesse contare su uno sparuto manipolo di attivisti. Il paragone con la patria di Mandela (i ladinos come gli afrikaners, gli indios come i neri) non è affatto casuale: è la chiave interpretativa utilizzata da Elisabeth Burgos nell'introduzione al famosissimo libro “Mi chiamo Rigoberta Menchù”, il testo che ebbe il merito di dare risalto internazionale alla questione etnica del Guatemala, enfatizzata dall'attribuzione del Nobel della Pace 1992 alla giovane india quiché.
La figura di Rigoberta Menchù, la sua storia e la sua opera sono la cartina di tornasole dell'emancipazione degli indios del Guatemala. Rigoberta, che ha vissuto sulla sua pelle le violenze della discriminazione, cerca il riscatto personale e del suo popolo con gli strumenti dei detestati ladinos: la lingua spagnola e l'uso dei mass media. Strumenti che sembra rifiutare, ma che ha imparato (giustamente) a maneggiare bene. Ma il suo è un riscatto ambiguo, insidioso, perché non ha solide basi culturali o ideologiche: Rigoberta, forse senza rendersene conto, tende ad essere assorbita dal sistema, che attraverso i soldi e la fama la allontana dalla sua gente, dai poveri, assimilandola al mondo che lei dice di contestare. La Rigoberta Menchù che presentava il suo ultimo libro (“Rigoberta, la nieta de los Maya”) al teatro “Asturias” di Città del Guatemala è semplicemente una star, una signora circondata dalla sua corte dei miracoli (alla Maradona), che crede di essere una scrittrice e non lo è, crede di essere un leader carismatico e non lo è. Davanti a un pubblico da jet-set, dice cose giuste, ma anche ingenuità inaccettabili, tipo “tutte le donne maya dovrebbero scrivere le proprie storie”, come se non conoscesse i tassi di analfabetismo e l'emarginazione delle donne indigene (e il maschilismo è ben radicato anche presso gli indios).
La realtà è che la cultura maya è molto più fragile di quanto Rigoberta e molti altri autori vogliono accettare. Fragile perché si è chiusa nell'isolamento, fragile perché ha preferito sopravvivere nei miti e nei rimpianti, fragile perché ha interiorizzato il disprezzo dei ladinos e, come succede un po' a tutte le latitudini, gli indios del Guatemala tendono a rinnegare le radici non appena viene raggiunto un minimo di benessere, non appena ci si trasferisce in città. Questo aspetto è talmente evidente che nel nuovo Guatemala (definito nell'articolo 1 della Costituzione riformata “nazione pluriculturale, multilingue e multietnica”) è indio chi parla una delle 22 lingue indigene; chi porta gli abiti tradizionali; ma soprattutto chi si definisce tale. Si potrebbe dire che ladinos non si nasce, ma si diventa. Proprio come si diventa ricchi o poveri, conservatori o progressisti, atei o credenti.
Non ci sarà mai emancipazione senza gli strumenti della cultura moderna, che per gli indios guatemaltechi sono in primo luogo la conoscenza dello spagnolo e l'alfabetizzazione, quindi l'accesso all'istruzione e ai mezzi di comunicazione. Questa è la grande, semplice intuizione del Subcomandante Marcos e degli zapatisti: non a caso i profughi guatemaltechi che tornano dal Chiapas, dopo anni nelle comunità autonome, sembrano marziani rispetto ai loro compatrioti. Tutti parlano spagnolo (uomini, donne e bambini), tutti sanno leggere e scrivere. Hanno anche una notevole coscienza dei loro diritti e forti basi religiose. Hanno cioè una vera identità. Stanno lavorando per diventare cittadini, e non più sudditi.
Monsignor Juan Gerardi Conedera è morto soprattutto per questa gente. Lui e tanti altri religiosi hanno sacrificato la loro vita in un continente dove la croce ha legittimato la spada, ha benedetto la violenza, e sembra dover pagare il tributo di una colpa non ancora espiata. Una colpa che fece scrivere a Pablo Neruda : “Il vescovo levò il braccio,/ bruciò i libri sulla piazza/ in nome del suo piccolo Dio/ e fumavano gli antichi fogli/ consumati dal tempo oscuro./ E il fumo non torna dal cielo”.
Cesare Sangalli


Incontro con il leader dell' Uniòn del Centro Nacional (UCN)

Edmond balla coi lupi
Fare politica in Guatemala è come giocare a scacchi con il diavolo. Edmond Mulet ci prova da tredici anni. L'opposizione“impossibile” in un paese dove vota solo un elettore su cinque L'aspetto e i modi sono quelli del diplomatico, dell'intellettuale: impeccabili. In effetti, Edmond Mulet è stato anche ambasciatore del Guatemala negli Stati Uniti, incarico che lasciò nel 1993 per protestare contro l'ennesimo colpo di stato. Avvocato, 47 anni, segretario dell'UCN (all'opposizione), membro della commissione parlamentare per le riforme costituzionali, Mulet sembra un lord inglese capitato per sbaglio nel Far West. Nel suo studio a Città del Guatemala, i miseri villaggi degli indios appaiono lontani anni luce. Eppure è quello l'elettorato a cui dovrà rivolgersi fra due anni per avere la minima possibilità di scalzare Alvaro Arzù, il liberista, e il partito di maggioranza, l'onnipresente PAN.

Le elezioni del 1995 hanno visto per la prima volta la partecipazione dei partiti di sinistra. Quali sono le prospettive dell'opposizione guatemalteca in vista delle presidenziali del Duemila?
Non sarà facile rovesciare l'attuale maggioranza. E' in corso un attacco fortissimo contro i partiti politici, un tentativo di delegittimazione e demonizzazione che mira a tenerli in una posizione di debolezza. L'unico fattore di potere in Guatemala è costituito dagli imprenditori, concentrati nelle città: controllano i mezzi di comunicazione, usano il PAN come mero strumento, controllano il presidente del Banco Central, il ministero delle finanze e quello dell'economia, finanziano solo il PAN e ostacolano gli altri partiti. L'élite guatemalteca non ha alcuna intenzione di mettere in discussione i privilegi di cui gode, è totalmente conservatrice (Mulet usa l'aggettivo “cavernaria”).

Di fronte a un tale avversario, perché l'opposizione è così frammentata?
Perché paga le conseguenze di tutti questi anni di guerra civile. C'è l'opposizione legata all'esercito, il Frente Republicano Guatemalteco (FRG) di Rìos Montt, che avrebbe anche alcuni punti in comune con il nostro programma, sui temi sociali, ma non è veramente alternativa al PAN. L'aspetto paradossale è che buona parte dei loro voti vengono dai piccoli centri, dalle campagne. Non sono pochi gli indios che simpatizzano per Rìos Montt: per una parte di popolazione è, nonostante tutto, “quello che ci ha salvato dalla guerra”. Dall'altra parte, c'è il Frente Democratico Nuova Guatemala (partito sostenuto da Rigoberta Menchù N.d.R), con cui abbiamo buone relazioni: per loro pesa l'appoggio dato in passato alla guerriglia. Però lavoriamo per presentare candidati comuni.

E gli ex-guerriglieri, i membri della URNG?
Fanno fatica a stabilirsi come forza politica, perché in realtà molte persone tendono a porli sullo stesso piano dei militari, c'è ancora molta paura dovuta alle violenze del passato. Nella politica guatemalteca le posizioni non sono sempre nettissime. Portillo, per esempio, candidato del partito di Rìos Montt alle ultime presidenziali, viene dalla sinistra, è stato anche in esilio; poi si è affiliato alla Democrazia Cristiana (alleata dell'UCN di Mulet N.d.R.) e infine è stato cooptato dalla destra. Non è facile districarsi nel labirinto del potere guatemalteco.

Non pensa che problema della democrazia in Guatemala si fondi sull'esclusione e l'emarginazione della popolazione, soprattutto quella indigena?
Indubbiamente. La partecipazione alle elezioni è bassissima: si può stimare intorno al 20 per cento del corpo elettorale. In Guatemala non c'è né istruzione di massa, né cultura politica: conta soprattutto il denaro. Il nostro paese ha uno dei più bassi investimenti nell'educazione, e negli ultimi tre anni le cifre stanziate sono diminuite in rapporto al P.I.L. Ma il governo Arzù l'anno scorso ha addirittura ridotto le imposte dirette sulle persone e sulle imprese. Non affrontare la questione sociale significa attizzare un fuoco che per ora è latente, ma potrebbe esplodere come movimento di tutti gli indios (del Chiapas, del Guatemala, di Tabasco, di Conuzco), al di là delle frontiere nazionali che la globalizzazione sta dissolvendo. Un terremoto che assumerebbe la fisionomia di una lotta etnica, come già è successo in altre parti del mondo...

Cesare Sangalli