Reportages
Quando un popolo diventa padrone del proprio destino
Nepal, un'incredibile voglia di futuro
Un paese che sembrava una fiaba contemporanea, una terra mistica di gente povera e felice. Dieci anni di guerra civile hanno alzato il velo sulla realtà di una monarchia scandalosa. Con la spinta degli ex guerriglieri maoisti, il Nepal è diventato una repubblica. Nel 2008, la Storia ha fatto tappa ai piedi dell'Everest“C'era una volta un re…”. La storia del Nepal inizia come la più classica delle favole. Ma è una favola che si è spinta nell'attualità, diventando tragedia, con una guerra civile che ha fatto oltre 13mila morti, e si è fatta cronaca dopo le storiche elezioni di aprile per l'Assemblea Costituente, che disegnerà la repubblica federale del Nepal e che ha già sloggiato dal Palazzo Reale il re Gyanendra, l'ultimo monarca.. Una favola, quella nepalese, che si voleva a tutti i costi leggiadra e impalpabile come il fascino orientale, la leggenda di un regno induista durato due secoli e mezzo, miracolosamente preservato dalle insidie della modernità in una sorta di “Shangri-La”, piccolo eden mistico dove nacque Gautam Siddartha, ossia il Budda, alle pendici delle nevi eterne dell'Himalaya.
C'era una volta un re, dunque, e si chiamava Prithvi Narayan Shah. Muovendo dal suo piccolo regno montanaro di Gorkha, dilagò nella valle di Kathmandu, piegò la resistenza di una ventina di piccoli sovrani e creò il Nepal. Correva l'anno 1768. Più o meno nello stesso periodo, in Europa, qualcuno cominciò a pensare che le teste coronate era meglio mozzarle. In Asia, la famosa Compagnia delle Indie già guardava a nord, verso la Cina. Ma in Nepal il tempo sembrava seguire altri cicli, quasi del tutto avulsi dal resto del mondo. Lo spiega benissimo Manjushree Thapa nel libro “Forget Kathmandu”. La scrittrice nepalese rilegge la storia del suo paese per smascherare i miti e le leggende che hanno contaminato la sua educazione e quella della sua generazione di quarantenni, in un mix di indulgenza e sarcasmo. “Ero arrivata a capire che l'umanità si sarebbe messa in spalla dei propulsori a razzo per sfrecciare verso uno spazio da colonizzare. Noi, nel frattempo, sacrificavamo capre nei templi”.
Nell'alternarsi di re e regine, reggenti e maharajà, principi bambini, mogli fedifraghe, primi ministri intriganti, famiglie e caste in lotta feroce fra loro, il Nepal era una specie di appendice esotica dell'Inghilterra. Londra accettava l'indipendenza formale del piccolo regno in cambio di un contingente di militari, i famosi e temibili gurkha, che dai tempi della regina Vittoria rappresentano uno dei più agguerriti e fedeli corpi scelti dell'esercito inglese. Nella versione nazionale, invece, una dinastia di re valorosi, condottieri di un popolo di guerrieri, aveva fatto in modo che il Nepal fosse uno dei pochi paesi asiatici a non subire la colonizzazione. Miti e leggende, per un popolo che doveva restare eternamente bambino, mentre nei palazzi reali continuava una sanguinaria partita a scacchi per il potere, in particolare fra due caste e due famiglie. Le due famiglie erano quella degli Shah, la dinastia reale, e quella dei Rana, la dinastia dei maharajà, cioè i capi del governo che per lunghi periodi comandavano tenendo praticamente in ostaggio i re. Le due caste erano quelle dei chettri, i guerrieri, e dei bahun, i religiosi, con la presenza discreta di una terza casta, i newar, borghesi originari di Kathmandu destinati alla pubblica amministrazione. Per quanto possa sembrare incredibile, questa struttura gerarchica è arrivata quasi intatta al Duemila. Il che significa che il novanta per cento della popolazione era sostanzialmente escluso da ogni decisione. Il Medioevo in Nepal sembrava non dover finire mai. Il progresso arrivava dall'alto e per imitazione: un re o un maharajà faceva un viaggio in Inghilterra, rimaneva impressionato da qualche avanzamento della tecnica, fosse l'automobile o l'elettricità, e la introduceva nel paese, o meglio, a Kathmandu, la capitale.
Per scoprire la politica, i nepalesi dovettero aspettare le due guerre mondiali. In Europa, fra una battaglia e l'altra, le truppe nepalesi che combattevano al fianco degli inglesi vennero in contatto con le pericolose idee del Novecento occidentale. Le prime, inaudite critiche alla monarchia cominciarono a circolare quando i reduci della Grande Guerra tornarono a casa, insieme ai fermenti indipendentisti della vicina India, la vera incubatrice di ogni movimento nepalese.
Il maharajà dell'epoca, Chandra Rana, considerato un grande riformista, agli inizi degli anni Venti pensò bene di abolire la schiavitù (!) e di concedere per la prima volta la possibilità di diventare proprietari della terra agli agricoltori, che fino a quel momento potevano solo prenderla in affitto. L'arretratezza del Nepal era davvero leggendaria, e risulta difficile da decifrare se non attraverso le lenti deformanti di una religione impossibile qual è l'induismo. Una religione essenzialmente pagana e politeista, ma con un livello di sofisticazione incredibile, una proteiforme capacità di adattamento che le ha consentito di attraversare i millenni senza essere mai messa veramente in discussione, con un'intatta, enorme capacità di attrazione, fosse per la complessità, l'ascetismo, il misticismo, l'estrema elasticità, o la tolleranza (che Gandhi diceva non essere una virtù cristiana). Un autentico mistero. Visto con gli occhi occidentali, l'induismo provoca un senso di estraniamento, di sogno ad occhi aperti, lo stesso che si prova leggendo “Il dio delle piccole cose “ di Arundhaty Roy, o “I versetti satanici” di Salman Rushdie. O, per tornare al Nepal, “Forget Kathmandu”.
Prendiamo la nascita dei partiti. Il primo, il Praja Parishad, viene fondato nel 1940 con un solo vero progetto, concordato con il re della dinastia Shah (che in quel momento era una specie di prigioniero del maharajà Rana): sterminare tutta la famiglia Rana, e ripristinare il comando della famiglia reale. Il complotto è scoperto, i leader del “partito” vengono giustiziati, e gli aspiranti killer diventano ipso facto “martiri della democrazia” per tutti i nepalesi, come scrive candidamente Manjushree Thapa.
Nello stesso periodo, si registra l'aperta ribellione di Yogmaya, “prima poetessa nepalese”, che voleva abolire le imposte sui poveri, i matrimoni infantili e concedere alle vedove il diritto di risposarsi. Yogmaya è di casta bahun, quella dei religiosi (o bramini), e anche se ha rinnegato la sua appartenenza, sa che uccidere un membro di tale casta è un delitto imperdonabile, per la religione induista: allora minaccia il maharajà di suicidarsi, se questi non avesse dato ascolto alle sue richieste. Il maharajà fa arrestare lei e i suoi discepoli. “Ma appena vennero rilasciati – scrive Thapa – Yogmaya guidò sessantanove dei suoi seguaci verso le rapide del fiume Arun, dove si lasciarono affogare in segno di protesta”. Sembra “La canzone di Marinella”, ma a quanto pare questa è la lotta politica in Nepal negli anni Quaranta.
Non c'è da meravigliarsi troppo, quindi, se il nascente Partito del Congresso Nepalese, fondato in India sulle orme di quello indiano di Gandhi e Nehru, e perfino, in qualche misura, il coetaneo Partito Comunista, hanno come primo obiettivo il ritorno al potere degli Shah, in una forma costituzionale di monarchia.
Nel 1951, dopo una lunga trattativa, condotta fra incarcerazioni, esili, fughe e scioperi della fame, si trova un compromesso a tre fra il maharajà della famiglia Rana, il re “prigioniero” Shah e lo storico leader del Partito del Congresso, B.P. Koirala, che, dopo essere stato in galera, diventa primo ministro.
A niente è valso lo squallido tentativo del maharajà di nominare sovrano il nipote del re, un bambino di tre anni che si chiama Gyanendra e tornerà alla ribalta cinquant'anni più tardi. Insomma, per i libri di storia delle scuole, questo accordo al vertice fra il re e il partito sarebbe l'avvento della democrazia. Per vedere le prime elezioni, bisognerà aspettare il 1959. Vi prenderà parte anche il Partito Comunista. Come riescano a convivere l'ideologia marxista-leninista e una monarchia di impostazione feudale è un mistero che solo il Nepal riesce a capire. E' importante insistere su questo punto, perché la dialettica fra i due principali partiti (il Partito del Congresso e il Partito Comunista) e il re caratterizza mezzo secolo di storia politica nepalese, e cambierà solo con l'avvento della guerriglia maoista. C'è come uno schema fisso: ad un'apertura democratica segue una restaurazione assolutista della monarchia, e viceversa.
Così, all'inizio degli anni Sessanta, il re Mahendra si stanca dei continui litigi all'interno del Partito del Congresso, che poi sono litigi in famiglia fra il mitico B.P Koirala e suo fratello M.P. (li chiamano proprio così, con le iniziali), e dell'instabilità politica (nove governi in nove anni). Si rimangia la costituzione, assume il potere assoluto, e inaugura il sistema del panchayat, consigli di villaggio con funzione consultiva. Nella sua visione, la democrazia non si adatta ai nepalesi, che sono molto più affezionati al potere tradizionale. A questa bugia reazionaria, ampiamente propagandata, finiscono per credere un po' tutti, a partire dai turisti europei che vengono sempre più numerosi a visitare il paese. Per circa trent'anni, il Nepal assomiglia più a un sogno che a uno stato: è un reame incantato, aperto a tutti, pacifico e tollerante, che riesce a metabolizzare la modernità occidentale senza perdere la sua purezza originaria, il suo straordinario sincretismo fra induismo e buddismo. Un vero paradiso per chi cerca esperienze alternative (ma non troppo faticose) alla corrotta civiltà dei consumi. In parte, ovviamente, il Nepal è proprio così, con la sua gente gentile e rilassata, le decine di templi, le fantastiche montagne che circondano Kathmandu, i tanti percorsi di trekking in mezzo a scenari incontaminati. All'immagine idilliaca del regno himalayano contribuisce indubbiamente il massiccio consumo di cannabis indica, l'erba fumata da sempre da guru e da re, assolutamente legale fino al 1973.
Per gli hippies di tutto il mondo, è difficile trovare qualcosa di meglio: in Nepal ci sono alberghi e ristoranti per tutti i gusti, a prezzi imbattibili. Nelle strade di Kathmandu, i suoni del rock anni Settanta si confondono con le melodie indiane, si può passare dalla meditazione yoga ai massaggi ayurvedici, ma si può anche bere alcolici senza problemi o fare sesso a pagamento. Ognuno può trovare ciò che cerca, in Nepal. Ma per la gente delle caste inferiori, per le donne, per i contadini delle campagne, per le minoranze etniche come i Madhesi del Terai, la realtà è molto più prosaica: il loro paese è inchiodato al sottosviluppo, le statistiche sociali (sanità, istruzione) sono agli ultimi livelli del pianeta.
Negli anni Ottanta, i partiti rialzano la testa, organizzando una campagna di disobbedienza civile e numerose manifestazioni, che sfidano la dura repressione del regime monarchico. Arresti, detenzioni arbitrarie, torture e intimidazioni sono prassi quotidiana. La censura dei media è soffocante. Ma dopo i grandi rivolgimenti internazionali del 1989, tutti movimenti politici si compattano nel cosiddetto Jana Andolan (Movimento del Popolo), che inizia una serie di scioperi generali e manifestazioni di massa. Il re Birendra, figlio di Mahendra il restauratore, educato in Inghilterra, gran fumatore di canne, che stranamente si è fatto una fama di uomo aperto e tollerante, concede infine la nuova costituzione, che garantisce il multipartitismo, la libertà di espressione, limita le prerogative del sovrano e abolisce la pena di morte. E' il 1990.
Alle elezioni del 1991, le prime dopo 32 anni, il Partito del Congresso ottiene una solida maggioranza, ma anche il Partito Comunista, che nel frattempo è diventato Unione marxista leninista (UML) ha una buona performance, e stravince a Kathmandu. Il nuovo governo è presieduto ancora da un Koirala, terzo fratello della famiglia di premier, che si chiama G.P. Questa propensione familistica della politica nepalese è assolutamente rivelatrice del reale stato delle cose. In apparenza, infatti, negli anni Novanta si alternano al potere, con una serie di crisi, rimpasti ed elezioni anticipate che nemmeno l'Italia, due litigiosi partiti orientati a sinistra, di cui uno nominalmente marxista-leninista (specializzato in scissioni e cambi di nome: deve essere una sindrome mondiale). Ma la rappresentanza politica in entrambe le formazioni è sempre e solo espressione delle caste alte: c'è da stupirsi se il Nepal non cambia di una virgola, pur facendo registrare una relativa crescita economica? Perfino una larga fetta degli aiuti internazionali finisce nelle casse della famiglia reale, sempre più corrotta. La nuova costituzione, che alcuni esponenti giudicano una delle migliori del mondo, non ha prodotto nessun avanzamento. E' da questo fallimento che nasce, nel 1996, la guerriglia maoista, derivata da una delle tante fazioni scissioniste dell'ex Partito Comunista. Il leader dei maoisti si chiama Pushpa Kamal Dahal, ma è noto come “Prachanda” (“il fiero”).
Chi sono i maoisti nepalesi e chi è Prachanda? Al vertice, inutile farsi illusioni, ci sono ex politici di professione o intellettuali, quasi tutti provenienti dalle caste alte, anche se non sempre questo corrisponde ad una classe sociale benestante. Prachanda, per esempio, è di casta braminica, ma la sua famiglia era piuttosto modesta. Lui comunque, classe '54, ha potuto studiare all'università, dove si è laureato in agraria. Insegnante per una decina d'anni a Kathmandu, diventa politico di professione all'interno del Partito Comunista. A 42 anni, si stanca definitivamente dei giochi di potere dei suoi compagni e decide di prendere la via delle montagne, nelle povere province dell'ovest, e iniziare la lotta armata contro il regime monarchico.
La guerriglia maoista nei primi anni è largamente sottovalutata. A Kathmandu la vita continua più o meno come sempre, con le infinite dispute di palazzo fra i partiti, e le continue interferenze del re. Poi, la sera del primo giugno 2001, accade l'impensabile.
Durante la cena al Palazzo Reale, il principe ereditario, esasperato perché la madre, la regina Aishwarya, si oppone al suo matrimonio con una ragazza appartenente ad una famiglia rivale, massacra l'intera famiglia reale e si suicida.. Il gesto di un pazzo, si direbbe, ma il principe non aveva mai dato segni di squilibrio, anche se si dice che al momento della strage fosse ubriaco e drogato. In realtà, la fretta con cui tutti i corpi sono stati cremati senza autopsia, la ridicola superficialità delle indagini, e gli sviluppi successivi, fanno pensare ad un colpo di stato da parte del fratello del re, Gyanendra, cioè il bambino che mezzo secolo prima era stato proposto per l'incoronazione.
Il massacro della famiglia reale segna il passaggio finale della monarchia nepalese. Gyanendra, pur sapendo che la gente sospetta di lui, imprime una svolta autoritaria alla politica in nome della lotta alla guerriglia maoista, che si sta facendo sempre più intensa. Ma più il gioco si fa sporco, più il re si scava la fossa.
Per cinque lunghissimi anni, il Nepal sembra stretto in una morsa soffocante: da una parte, la lotta della guerriglia maoista, che controlla direttamente e con pugno di ferro parti sempre più ampie del paese; dall'altra, la repressione militare sempre più dura guidata dal re. In mezzo, i partiti tradizionali, irretiti dalle iniziative di Gyanendra, che alla fine si sbarazza degli ultimi impicci costituzionali e assume direttamente tutti i poteri (febbraio 2005). Le vere vittime sono sempre e solo i civili, soprattutto quelli più poveri, gli agricoltori che vivono fuori dalle città. Ricattati dai maoisti, che all'occorrenza sanno essere spietati, massacrati dall'esercito che li considera in massa fiancheggiatori della guerriglia e scarica su di loro le frustrazioni di un conflitto di cui non possono venire a capo. Il Nepal ormai è una terra insanguinata che non attrae più nessuno, incastrato in un tunnel che sembra privo di uscite. “Forget Kathmandu” si chiude con il lamento di una vecchia che ha visto uccidere i suoi figli, segnalati come maoisti da alcuni vicini invidiosi: “La mia vita è stata distrutta. La mia verità è stata distrutta”.
Ma la politica non deve cercare verità assolute, anche perché il mondo normalmente non si divide in buoni e cattivi. I maoisti, per quanto violenti nel loro puritanesimo militante (vietano alcol e droghe, puniscono l'adulterio e la prostituzione), hanno posto drammaticamente la questione che andava posta da sempre: l'abolizione della monarchia, come primo passo per uscire dal regime delle caste e far avanzare gli esclusi. I partiti tradizionali, comunisti compresi, ci giravano intorno da cinquant'anni. Per non rimanere stritolati nella morsa della guerra civile, devono scegliere se aggrapparsi al re-dittatore o accordarsi con i guerriglieri maoisti. Tertium non datur ( anche se ancora oggi c'è chi sostiene che si doveva seguire un'altra strada).
Finalmente, nell'aprile 2006, si rivoltano contro Gyanendra, in una serie di manifestazioni di massa che provocano scontri e arresti a Kathmandu, e raggiungono un accordo con i guerriglieri sulla base dell'accettazione della repubblica.
Gyanendra, ormai isolato in patria e screditato all'estero, restituisce la sovranità al parlamento. Viene formato un governo provvisorio di cui fanno parte anche esponenti dei maoisti, che si dicono pronti ad accettare la sfida democratica, rinunciando a imporre il loro potere con la violenza. In realtà, quasi nessuno si fida di loro. Né gli intellettuali, né i media, né la comunità internazionale, meno che mai gli Stati Uniti che da anni li hanno classificati come “terroristi” (stendendo un velo pietoso sul fatto che la gran parte delle uccisioni dei civili sono a carico dell'esercito monarchico, appoggiato fino in fondo). Ancora alle vigilia delle elezioni, sono in molti a temere un bagno di sangue, anche perché la campagna elettorale è stata contrassegnata da molte violenze e intimidazioni, subite però anche dagli stessi maoisti (come Jimmy Carter, chiamato ad osservare l'intero processo elettorale, ricorderà ai giornalisti).
Giovedì 10 aprile 2008 il sole splende su Kathmandu, anche se le montagne dell'Himalaya si possono solo immaginare. Davanti ai seggi, che aprono alle sette e trenta, ci sono già lunghe file di elettori che aspettano pazientemente di partecipare al voto. Il “Kathmandu Post” nel titolo parla di “uno storico balzo verso il futuro”. “The Rising Nepal” riporta, a nove colonne: “Il Nepal decide di scrivere il suo destino”.
La tensione di tanti inviati e fotoreporter si scioglie mentre la gente vota senza il minimo problema praticamente in tutti i seggi del paese. Ci sono tantissime donne, alla fine risulteranno il 53 per cento dei votanti. E' un segnale importante, in un paese dove le donne hanno sempre contato pochissimo. Ma la vere sorprese cominciano con lo spoglio dei voti. Tutto manuale, estenuante, febbrile. Prima i collegi uninominali, con i singoli vincitori. Poi si passa al conteggio per il proporzionale, che assegna la maggior parte dei 601 seggi dell'Assemblea Costituente. Il primo eletto, festeggiato con corone di fiori e polvere rossa in viso, è Prakash Man Singh, del Partito del Congresso, che stravince nel collegio di Kathmandu 1, centro storico. Ma più si contano i voti, più è chiaro che i maoisti stanno vincendo alla grande. Nessuno aveva previsto uno scenario simile. I “cattivi” della storia non potevano essere premiati dal popolo. C'era perfino qualche analista, che, con supremo sprezzo del ridicolo, paventava incubi cambogiani, un regime alla Pol Pot scelto dalla gente, una specie di suicidio politico di un'intera nazione. Quando la vittoria dei maoisti era ormai certa, gran parte dei giornalisti, nepalesi e stranieri, sosteneva la tesi di un voto condizionato dalla paura, dallo spettro del ritorno dei maoisti alla lotta armata. Può anche darsi. Ma la gente che festeggiava davanti al centro elettorale, in un tripudio di bandiere rosse e falci e martello, non sembrava affatto sotto ricatto. L'analisi del voto infatti racconta tutta un'altra storia. La vittoria dei maoisti è stata schiacciante nei collegi uninominali, dove conta molta la persona, e assolutamente normale nel proporzionale (32 per cento, contro il 22 per cento del Partito del Congresso e il 21 dell'UML). E se si guardano i candidati, nessun altro partito aveva così tante donne, così tante persone delle caste basse o fuori casta, così tanti giovani o persone fuori dalla politica tradizionale. La verità è che con i maoisti, e non solo con loro (c'erano 54 partiti), gli esclusi di sempre sono entrati a Palazzo. La gente dell'etnia Madhesi, disprezzata da sempre, ha portato una massiccia rappresentanza (40 deputati) dentro l'Assemblea che dovrà costruire il nuovo Nepal, repubblicano, federale e democratico. C'è anche il primo parlamentare dichiaratamente gay, eletto con una lista comunista.
Insomma, le elezioni di aprile sono una vera, grande vittoria della democrazia. Se Prachanda e i suoi saranno all'altezza delle enormi aspettative suscitate è tutt'altra questione. Le loro prime dichiarazioni da vincitori sono assolutamente moderate, soprattutto in campo economico. Hanno detto che il re può rimanere nel paese come privato cittadino, con tutte le sue ricchezze. In altre circostanze si sarebbe trovato sotto processo. Ma il Nepal ha già deciso di chiudere con il suo passato recente, quello più tragico. Nessuno sembra avere l'esigenza di riaprire ferite che si sono appena rimarginate. La parola d'ordine è cambiare. Per 28 milioni di nepalesi, dal 10 aprile 2008 è assolutamente evidente che un mondo diverso è possibile.Cesare Sangalli