Reportages

 

  • Costa D'Avorio
Costa D'Avorio1 2 3 4 5

 

english version




Pubblicato su "Galatea" dicembre 2000

La Seconda Repubblica nasce sotto il segno della violenza

Costa d'Avorio, democrazia o barbarie

Era la “Svizzera dell'Africa occidentale”: un dittatore illuminato (Félix Houphuet Boigny), padre (e poi padrone) della nazione, le esportazioni di cacao e caffè, i legami strettissimi con la Francia. Ma negli anni Novanta il paese, incapace di cambiare, si è condannato alla decadenza. Fino ai drammatici avvenimenti degli ultimi mesi, il colpo di stato dei militari, le elezioni, la vittoria dell'opposizione democratica fra violenze mai viste: cronaca di una nazione sull'orlo della guerra civile

Il cadavere del soldato non ha più niente di umano. E' un manichino carbonizzato, gli avambracci protesi in avanti, forse per cercare di liberarsi dal copertone che gli hanno messo addosso per bruciarlo vivo. Qualcuno dice che se l'è cercata: non voleva arrendersi, l'hanno punito con una tecnica tristemente nota in tutta l'Africa. Abbandonato nel parco di fronte alla presidenza, non è stato rimosso per due giorni, come se dovesse salutare così l'insediamento del primo presidente della Seconda Repubblica, Laurent Gbagbo, che è un po' il Kostunica della Costa d'Avorio (e forse è anche meglio, ma la situazione qui è molto peggio che a Belgrado). Ha vinto la democrazia, alla fine, i buoni trionfano, i cattivi (rappresentati dal generale Guei) se ne vanno, ma quel cadavere è ancora lì, a segnalare che la pietas della gente è meno forte della paura. Il “Plateau”, la piccola Manhattan di Abidjan, affascinante città sulla laguna Ebriè, mostra i segni della battaglia. Si contano i morti: circa 200 riconosciuti ufficialmente, ma alcune associazioni per i diritti umani ne segnalano molti di più (500 e oltre). Un bagno di sangue mai visto prima: la Costa d'Avorio per quarant'anni (dall'indipendenza nel 1960) era stata un'oasi di pace. Ora è un paese che va di nuovo alle urne (per le elezioni legislative) in un clima di grande tensione e con lo spettro della guerra civile. Nessuno aveva previsto un simile scenario, per quanto i segnali degli ultimi dieci mesi fossero via via più inquietanti, a partire dalla vigilia di Natale del 1999.
Unica vera notizia dal mondo nei telegiornali che accompagnavano il pranzo natalizio dell'anno scorso: colpo di stato in Costa d'Avorio. Un golpe incruento, senza che sia stato sparato un colpo, della serie “la situazione è arrivata al limite, dobbiamo intervenire per il bene del paese (ovviamente), il potere tornerà ai civili appena avremo sistemato la situazione”. O meglio “ripulito la casa” (“balayer la maison”) nella dichiarazione ufficiale del generale (in pensione) Robert Guei, il Cincinnato-Babbo Natale di turno. Così, la Costa d'Avorio, fino a quel momento risparmiata dal criminale avventurismo dei militari africani, sperimenta per la prima volta l'emozione apparentemente rivoluzionaria del “Comitato nazionale di salvezza pubblica”.
Ma da chi o da cosa andava “salvata” la Costa d'Avorio? Ufficialmente, dal presidente Henri Konan Bedié (scappato a Parigi) e dal suo tentativo di svolta autoritaria per perpetuare un regime corrotto fino al midollo, anche a costo di utilizzare xenofobia e odio etnico in un paese che è un mosaico di popoli (cinque gruppi principali per quasi ottanta diverse etnie) e che ha il 30 per cento di residenti di un'altra nazionalità.
Più concretamente, il colpo di stato era il segnale estremo di una incapacità di cambiamento, di una stasi decadente spacciata come “stabilità” per almeno dieci anni.
La Costa d'Avorio era il più avanzato, ricco e tranquillo degli stati dell'ex Africa occidentale francese. Nelle preferenze di Parigi aveva superato il Senegal, un tempo colonia prediletta, così come la nuova, scintillante Abidjan aveva rimpiazzato Dakar, decisamente imbruttita e “demodé”. Il segreto della “Svizzera dell'Africa occidentale”? Un uomo politico di rara astuzia e abilità (Félix Houphuet Boigny) e il cacao. La Costa d'Avorio è la repubblica del cacao: primo produttore mondiale, esportazioni record negli anni Settanta, fiumi di valuta pregiata che garantivano un benessere mai visto nei paesi africani dell'area. Il presidente a vita Houphuet Boigny, già ministro in Francia, di età imprecisata, un vecchio leggendario che sembrava un Enrico Cuccia di pelle nera, amministrava il tesoro vegetale ivoriano (fatto anche di caffè, banane, ananas, caucciù, legname pregiato e altro) con saggezza e scaltrezza: mentre lui, la sua famiglia, il suo clan, si arricchivano a dismisura, il paese si dotava di infrastrutture, strade, scuole, garantendo ai produttori agricoli (i planteurs) un prezzo fisso e la commercializzazione degli stock, attraverso una banca (la Caistab) che lucrava sulle esportazioni.
Per circa trent'anni il meccanismo ha funzionato a meraviglia, facendo passare inosservate sia le ruberie della classe politica, inquadrata in un partito-stato ( il PDCI) che, in puro stile democristiano, distribuiva a pioggia prebende e favori, sia gli sprechi colossali di opere concepite solo per lusingare la tranquilla megalomania del presidente Houphuet e un certo orgoglio nazionale.
Il senso del lusso era tale che in molti villaggi della foresta i planteurs facevano arrivare champagne e liquori italiani (anche se poi mancava l'elettricità o l'acqua corrente). La relativa ricchezza attirava l'emigrazione povera dei paesi vicini, soprattutto dal nord (Mali e Burkina Faso). Il piccolo commercio era gestito dagli immigrati musulmani, all'import-export pensavano i libanesi, i braccianti burkinabé riempivano le piantagioni di cacao e caffè, gli europei (francesi in particolare) gestivano le principali imprese: per l'ivoriano medio la massima aspirazione era di “sostituire la zappa con la bic”, cioè lavorare in ufficio, o al limite di indossare l'uniforme. Per soddisfare questa esigenza (e mantenere il consenso) vennero create miriadi di enti, organizzazioni per lo sviluppo, agenzie, dipartimenti con denominazioni burocratiche sempre più improbabili. E contemporaneamente si formò una piccola casta di militari, poliziotti, gendarmi, doganieri, guardie forestali, che arrotondavano i magri stipendi attraverso un sistema pazzesco di posti di blocco seminati capillarmente su tutto il territorio: difficile spostarsi senza pagare dazio. Vivere di rendita, più o meno legale, più o meno parassitaria, lussuosa o miserabile, diventa una caratteristica nazionale: “se débrouiller n'est pas voler” (arrangiarsi non è rubare), spiega la saggezza popolare.
La vera abilità di Houphuet consiste nell'accontentare più o meno tutti. Favorisce la Chiesa cattolica (che quasi sempre ricambia con devozione), ma anche i musulmani, che sono la maggioranza relativa (circa il 40 per cento della popolazione). Esalta il narcisismo della sua etnia (i baoulé) spostando la capitale nel suo villaggio natale Yamoussoukro (una piccola Brasilia creata in mezzo al nulla), ma dà una struttura territoriale al partito, presente ovunque. Accetta a braccia aperte gli immigrati poveri e gli stranieri ricchi. E' talmente legato all'Occidente che allaccia relazioni ufficiali con il Sudafrica già nel '92, dopo essere stato il più morbido dei leader africani nei confronti dell'apartheid. Si propone continuamente come mediatore nei conflitti (Houphuet sognava il Nobel per la pace), perfino quando sostiene la guerriglia in Liberia (Charles Taylor, attuale presidente, gli deve moltissimo). Insomma, se non fosse nato nella foresta della Costa d'Avorio, Félix Houphuet-Boigny poteva essere italianissimo, re dei compromessi e del trasformismo.
In realtà, all'occorrenza sapeva colpire duramente i suoi avversari, senza il minimo scrupolo; ma cercava sempre di non creare martiri, mostrava il bastone per poi sottolineare la sua magnanimità. Giornalisti, oppositori, intellettuali hanno fatto dentro e fuori le prigioni con una facilità sconcertante. I diritti dovevano sempre apparire gentili concessioni, atti di umanità personale: l'eredità di Houphuet è soprattutto questa.
Nel paternalismo autoritario e corrotto del “Vecchio” (così era chiamato Houphuet) sono in tanti a sguazzare allegramente. Ma il “sistema Costa d'Avorio” è alla frutta già alla fine degli anni Ottanta: il periodo delle vacche grasse è finito.
Lo stato ivoriano è uno dei più indebitati di tutta l'Africa, il prezzo del cacao è minacciato dalle multinazionali che favoriscono l'accesso al mercato di Malesia e Indonesia, per abbassare il prezzo. I paesi produttori sono disuniti, Houphuet nel 1989 prova il braccio di ferro bloccando le vendite: i magazzini sono strapieni di cacao, Abidjan è avvolta in una coltre dolciastra e un po' nauseabonda. Il tira e molla continua fino alla resa totale del “Vecchio”, che alla fine svende. Il mercato di cacao e caffè non si risolleverà più. L'Unione Europea recentemente ha dato un'ulteriore mazzata (non c'è limite al peggio) abbassando le quote minime di cacao nella produzione di cioccolata (alla faccia del consumatore europeo).
Ma il vento rivoluzionario dell'89 soffia anche in Africa, soprattutto in quella di lingua francese. Gli studenti si ribellano un po' dovunque: Benin, Togo, Mali, Niger. L'università di Abidjan è in subbuglio: i giovani sono stufi del partito unico e del presidente a vita, chiedono libertà e miglioramenti economici. Scendono nelle strade al grido di “Houphuet ladro”, il mito intoccabile del padre della patria è infranto, l'ipocrita simulazione di una società senza conflitti smascherata. Ad esasperare la situazione ha contribuito la costruzione della faraonica cattedrale di Yamoussoukro, vera e propria imitazione della basilica di San Pietro, che in tutto il mondo viene presentata come uno schiaffo alla povertà della gente. Houphuet ha la faccia tosta di dichiarare che la chiesa è stata costruita attingendo esclusivamente dal suo patrimonio personale (come se fosse normale per un capo di stato che viene dal nulla essere così ricco). Dopo un'iniziale freddezza, il Vaticano accetta l'ingombrante dono: Giovanni Paolo II visita la Costa d'Avorio (settembre 1990) e benedice la chiesa, ma il centro ospedaliero e la scuola che Houphuet aveva promesso di costruire accanto alla cattedrale (nel deserto) non saranno mai realizzati.
Il 1990 è un anno importante per la Costa d'Avorio: sotto la spinta delle proteste, viene riconosciuto il multipartitismo e si tengono le prime elezioni presidenziali con più candidati. Sulla scena politica sono già presenti tutti i protagonisti che si affronteranno dieci anni dopo nel thriller ivoriano, sempre a metà fra la farsa e la tragedia: Henri Konan Bedié, Alassane Ouattara, Robert Guei e Laurent Gbagbo.
Henry Konan Bedié è il presidente dell'Assemblea nazionale, delfino di Houphuet Boigny e suo successore designato in caso di morte del “Vecchio”. Fa parte, in senso lato, dello stesso gruppo etnico (il gruppo Akan, lo stesso degli Ashanti del Ghana), rappresenta la continuità del regime targato PDCI. Dietro una faccia paciosa (somiglia a Ollio) nasconde smisurate ambizioni.
Alassane Ouattara è il tecnocrate: brillante economista, già direttore di banca, viene chiamato da Houphuet a dirigere il governo per applicare la solita amara ricetta dettata dal Fondo monetario internazionale, le famigerate misure di “aggiustamento strutturale” (tagli alla spesa pubblica che colpiscono soprattutto le fasce sociali deboli). Originario del Burkina Faso, musulmano, diventa rapidamente l'uomo più amato dagli occidentali (in primo luogo da Washington), e dopo l'esperienza di governo viene nominato direttore amministrativo proprio nel FMI, dove lavorerà fino al 1999.
Robert Guei è capo di stato maggiore. Ufficiale di lungo corso, si è formato nelle scuole militari francesi. Proviene da un oscuro villaggio dell'ovest, quasi al confine con la Liberia; è laconico e misterioso come la sua gente (gli yacouba). E' lui il responsabile della brutale repressione contro gli studenti nel 1991, ma Houphuet lo salva dalla commissione d'inchiesta garantendogli un'impunità che in Costa d'Avorio non si nega quasi a nessuno.
Laurent Gbagbo rappresenta l'oppositore solitario. Docente universitario di storia, cattolico, si fa le ossa nel sindacato degli insegnanti e conosce ben presto le patrie galere. Dopo un esilio di sei anni in Francia, dove stringe forti legami con il Partito socialista di Mitterrand e Jospin, torna in Costa d'Avorio alla fine degli anni Ottanta per fondare il Fronte popolare ivoriano (FPI) e sfidare, in modo un po' donchisciottesco, primo e unico nella storia del paese, il presidentissimo Houphuet Boigny. Gbagbo è un beté dell'ovest, la sua etnia è considerata da sempre la più ribelle della Costa d'Avorio e rivale dei baoulé di Houphuet. Lui cerca di dare solide basi nazionali al suo partito, rifiutando ogni caratterizzazione etnica o religiosa, anche se l'elettorato ivoriano è ancora molto sensibile all'origine dei candidati.
Alle elezioni presidenziali Houphuet stravince, lasciando a Gbagbo un modesto 19 per cento. Inutile dire che le intimidazioni e i brogli sono stati massicci, anche se non tali da alterare il verdetto finale: la Costa d'Avorio non è pronta per il cambiamento, il fatto che Houphuet non abbia raggiunto il 90 per cento dei consensi viene già considerato un affronto. Gbagbo ha incrinato il regime monolitico del PDCI e di Houphuet, è una voce coraggiosa che si leva contro gli abusi di potere: quando protesta per le violenze contro gli studenti viene arrestato per la quarta volta. Alla vigilia della morte del “Vecchio” (1993) le posizioni dei futuri candidati sono chiarissime: Bedié, Ouattara e Guei al potere; Gbagbo in carcere.
La morte di Houphuet non cambia assolutamente niente. Bedié prende il suo posto e continua la vecchia politica come se nulla fosse. L'economia va di male in peggio, i prezzi dei prodotti agricoli restano irrisori per i coltivatori e nel 1994 arriva lo shock della svalutazione del franco CFA, la moneta unica di molti paesi dell'Africa occidentale, il cui valore si dimezza. Oltre tutto la Costa d'Avorio deve fronteggiare l'esodo dei profughi dalla Liberia (circa 600mila), a cui si aggiungono successivamente quelli della Sierra Leone.
La presenza di tanti stranieri in epoca di crisi, comincia a diventare un fattore di tensione. Gli ivoriani, abituati meglio dei loro vicini, vedono sistematicamente peggiorare il loro tenore di vita, con un futuro che si preannuncia sempre più cupo. La situazione politica è bloccata: il solo cambiamento è la scissione di un'ala del PDCI che va a formare un “nuovo” partito, il “Rassemblement des republicains” (RDR), guidato da Alassane Ouattara. Le elezioni del '95 sono boicottate dall'opposizione di Laurent Gbagbo, uscito di prigione dopo la consueta amnistia: Bedié viene eletto presidente, in pratica la Costa d'Avorio è tornata al candidato unico. La corruzione dilaga, il governo non ha alcun vero programma, Bedié si preoccupa solo di introdurre riforme costituzionali per aumentare i poteri presidenziali e prolungare il suo mandato.
Il delfino di Houphuet, novello apprendista stregone, pensa di cavalcare il malcontento popolare indirizzandolo contro gli immigrati stranieri e facendo mostra di un grottesco patriottismo. La nuova scadenza elettorale si avvicina: per eliminare Alassane Ouattara, considerato il più forte dei suoi avversari, Bedié tira fuori dal cilindro delle riforme il concetto di “ivorianità”: il candidato alla presidenza deve essere nato in Costa d'Avorio da genitori ivoriani , Ouattara è figlio genitori burkinabé (anche se lui nega). I militanti RDR non ci stanno, le loro manifestazioni sono particolarmente violente, la situazione sembra precipitare.
Così, quando i militari irrompono sulla scena con il colpo di stato natalizio, la maggioranza dei politici e dell'opinione pubblica accoglie positivamente la svolta. Se ne pentiranno tutti amaramente.
Il generale Guei promette di rispettare il calendario elettorale e assicura che non si presenterà mai come candidato. Parola di ufficiale. I partiti politici abbozzano, i militari, mai così vicini al potere, scalpitano, dal più decorato dei generali all'ultimo caporale in caserma. Inizia un'allucinante partita di poker lunga dieci mesi, in cui ogni protagonista si crede più furbo degli altri. All'estenuante trattativa sul potere partecipa anche Laurent Gbagbo. Uscita dalla porta, la questione dell'ivorianità rientra dalla finestra. In realtà, sembra essere una priorità per tutti, perfino per Alassane Ouattara (che sarà il primo a farne le spese): il parlamento approva la riforma costituzionale a larga maggioranza, gli emendamenti sono sottoposti a referendum popolare e il popolo sovrano approva senza incertezze: i candidati alla presidenza dovranno dunque essere ivoriani DOC, oltre ad avere una moralità senza macchie.
Nel frattempo, i militari fanno il bello e cattivo tempo: sempre più arroganti, sempre più impuniti, si dividono in fazioni, si fanno dare soprannomi criminali (chissà perché, tutti italiani): “Cosa Nostra”, “Camorra”, “Brigades Rouges”. E' il loro momento: vogliono più soldi, più potere. Poco prima del referendum escono per le strade di Abidjan e per due giorni rubano, picchiano, ricattano, minacciano. Il generale Guei li riporta faticosamente alla calma, probabilmente annunciando la sua candidatura, che diventa ufficiale ad agosto. Guei si presenta come “candidato del popolo”, il suo clamoroso voltafaccia è un segnale chiarissimo: i militari non hanno alcuna intenzione di andarsene. Sono in tanti a sentire puzza di bruciato: gli Stati Uniti (preoccupati in realtà solo per le sorti del loro pupillo, Alassane Ouattara) sospendono immediatamente il contributo finanziario alle elezioni. Il PNUD, agenzia dell'ONU incaricata del coordinamento, si ritira, comandato a bacchetta da Washington. La data della elezioni viene spostata da settembre a ottobre: tutti aspettano il verdetto della Corte suprema sulle 19 candidature a presidente della Seconda Repubblica .
Il 6 ottobre i giochi sono fatti: fuori Alassane Ouattara, perché non è ivoriano; fuori Henri Konan Bedié (che aspettava in Francia), per una storia di arricchimento illecito ai danni dello Stato; fuori il nuovo candidato del PDCI, Emile Bombet, per gli stessi motivi. Restano solo in cinque: il generale Guei, presidente in carica, Gbagbo Laurent, lo sfidante, e tre comparse di scarso rilievo.
Gli esclusi sono indignati, si grida al complotto: il presidente della Corte suprema Tia Koné era stato consigliere giuridico di Guei. In ogni caso, da grande esperto di diritto, non sembra essere andato al di là del dettato costituzionale. Per la maggior parte dei commentatori le elezioni del 22 ottobre sono già decise in partenza: vincerà il generale Guei. “Le Monde” scrive che “ci sarà un voto truccato, preludio all'instaurazione di una dittatura militare”, senza degnare di una parola Laurent Gbagbo e il suo Fronte popolare e rimpiangendo addirittura i bei tempi di Houphuet.
Eppure, nella strana tranquillità di un paese spaventato o rassegnato, gli unici segnali di vita vengono proprio dall'opposizione. I simpatizzanti del Fronte popolare sono tanti, soprattutto fra i giovani, e manifestano con passione la voglia di un cambiamento profondo: non vogliono perdere un'occasione storica. La campagna elettorale di Guei è penosa: se ne sta chiuso nel suo palazzo, non fa nemmeno un comizio, la presenza dei suoi sostenitori è praticamente inesistente.
Nelle strade di Abidjan, la gente comune sembra avere le idee più chiare di tanti esperti europei, giornalisti o diplomatici: sono tutti sicuri della vittoria di Gbagbo , a condizione che le elezioni siano trasparenti. L'unica vera divisione è fra pessimisti (la maggioranza silenziosa), già rassegnati al regime militare, e ottimisti (i sostenitori del Fronte popolare) che non sono disposti ad accettare un verdetto truccato.
Domenica 22 ottobre il sole splende sulla laguna, Abidjan è più tranquilla che mai: la gente va alla messa come ogni domenica, poi si avvia ai seggi per compiere il proprio “dovere civico” (è l'espressione più in voga). L'affluenza è bassa ma regolare: d'altra parte i partiti tradizionali (PDCI e RDR) hanno decretato il boicottaggio, e perfino gli imam islamici si sono prestati alla strumentalizzazione di Alassane Ouattara, il quale ha sostenuto che la sua esclusione era l'esclusione di tutti i musulmani e della gente del nord.
Tutto procede nella calma piatta fino alle sei del pomeriggio, quando inizia lo spoglio delle schede: in un attimo, i militari circondano ogni seggio e ogni crocevia, con atteggiamento intimidatorio. La gente che prometteva di festeggiare la vittoria già la sera di domenica è scomparsa. Per fortuna ai seggi ci sono i rappresentanti del Fronte popolare e degli altri partiti in lizza, oltre ad una trentina di osservatori europei che si prodigano perché non ci siano irregolarità.
Alle otto, con decreto presidenziale, il generale Guei annuncia che il giorno dopo sarà festivo. La tensione comincia a salire, i risultati elettorali non arrivano. La sede della commissione elettorale sembra una caserma: ci sono più soldati (armati fino ai denti) che giornalisti. Tutta la giornata di lunedì scorre inutilmente, ma le notizie trapelano lo stesso: Gbagbo Laurent ha vinto nettamente, il presidente della commissione elettorale ha già detto al generale Guei di accettare il risultato. Ma la proclamazione ufficiale non arriva.
Martedì 24 ottobre la situazione precipita: i giornalisti vengono minacciati e allontanati, un commando arresta tutta la commissione elettorale, il ministro degli interni la dichiara sciolta e proclama vincitore Guei. Dal suo quartiere generale, Laurent Gagbo fa altrettanto, chiamando i cittadini a scendere nelle strade. Il Plateau, centro nevralgico di Abidjan, si svuota come a liberare il campo per lo scontro finale, che si realizza nella mattina di mercoledì 25: la folla dei manifestanti disarmata avanza a ondate contro le pattuglie dei militari, mentre nei palazzi del potere si consumano tradimenti e regolamenti di conti. La città è un unico campo di battaglia, i soldati sparano sulla folla, ma i militari della guardia presidenziale cominciano a ritirarsi. All'una e mezzo arriva la notizia che tutti si aspettano: Guei è scappato, Gbagbo ha vinto.
Sembrerebbe finita, ma non è così: approfittando del caos, Alassane Ouattara chiede l'annullamento delle elezioni e chiama i suoi sostenitori all'insurrezione. Un atteggiamento criminale, degno di un uomo pronto a sacrificare qualsiasi cosa per la sua sfrenata sete di potere. Per due giorni si scatena la mattanza, che perde ogni connotazione politica: musulmani contro cristiani, ivoriani contro stranieri, militanti FPI contro sostenitori RDR, soldati contro civili. Un'orgia di sangue, per battezzare la nascita di una “democrazia” sotto il segno del caos.
Quando l'ondata di follia si placa, si torna a parlare di “riconciliazione nazionale”. Il nuovo governo del Fronte popolare si è già insediato, dopo un accordo con il PDCI. Il presidente Gbagbo ha già perdonato tutti quanti, persino il generale Guei, che, sparito per qualche settimana, è riapparso all'improvviso per riconoscere il nuovo corso e invitare i militari che ancora lo sostengono a rientrare nelle caserme (!).
In un clima surreale, la Costa d'Avorio va di nuovo alle urne per le elezioni legislative. Ancora una volta, alla vigilia di Natale, la nazione è ad un bivio. La violenza orribile che per la prima volta ha contaminato il paese rende la scelta più drastica, un'alternativa che vale per tutto il continente africano: democrazia o barbarie.

Cesare Sangalli