Reportages
.Alla ricerca dell'Europa che non c'è
Lituania, le porte dell'aurora
Un popolo e una cultura dalle radici antichissime. I lituani furono gli ultimi europei a convertirsi al cristianesimo, e i primi a ribellarsi all'Unione Sovietica. Ma l'orgoglio nazionale e la fede cattolica non bastano oggi a frenare l'emigrazione, dovuta alla povertà endemica. Viaggio nel mistero lituano, sospeso fra sfiducia e speranzaC'è una strada a Vilnius che conduce alle “Porte dell'aurora”. E' una salita antica, lastricata, immersa nella magia della città vecchia, che è silenziosa, discreta, si arrampica sulle colline dove svettano le tre croci dei martiri francescani, e domina placidamente le acque del Neris. Il fiume abbraccia la città vecchia e la protegge dall'arroganza della modernità, fosse quella ormai malinconica del potere che fu (quello sovietico) o quella nuova, da shopping center, che la assedia partendo dalla periferia. No, nessuno distruggerà la bellezza unica di Vilnius, che è già patrimonio dell'umanità e nel 2009 sarà capitale europea della cultura. Le “Porte dell'Aurora” sono lì a ricordarlo, Ausros Vartai nell'affascinante lingua lituana, che si dice sia la lingua continentale più vicina al sanscrito, cioè alle sue radici indoeuropee. Un arco che guarda verso sud (anche se uno pensa che le “porte dell'aurora”siano rivolte ad oriente), vigilato dalla Vergine Maria, una “Madonna Nera” a cui i lituani, in gran parte cattolici, fanno da sempre i loro voti. Una porta aperta, non un muro.
Perché Vilnius, perla urbana circondata da una terra selvaggia di foreste e campagne dove si vive come mezzo secolo fa, deve il suo splendore antico allo spirito di accoglienza. E' il destino delle città-limite. Per alcuni geografi, strano a dirsi, Vilnius è l'esatto centro dell'Europa che va dall'Atlantico agli Urali, e dal Circolo polare artico al Mediterraneo. Su queste colline si riunirono il nord e l'est dei barbari e dei pagani con il sud e l'ovest dei cristiani civilizzati da Roma: fu il re Mindaugas nel XIII secolo a convertirsi e a far costruire la cattedrale, che chiude con bellissima prospettiva il corso principale della città, Gedimino. I lituani comunque rimasero in gran parte pagani fino al secolo di massimo splendore, il 1400: in questo periodo la Lituania estende i suoi confini dal Baltico al Mar Nero, Vilnius diventa un fiorente centro commerciale e stringe legami con l'Italia lungo la Via Baltica, che collega la capitale lituana con Venezia. Il re cattolico Vytautas apre le porte agli ebrei di tutto il continente, garantendo sicurezza e prosperità: Vilnius diventa la “Gerusalemme del Nord”, con 105 sinagoghe, una grande scuola talmudica, e la presenza del massimo interprete della Bibbia, il Gaon.
Questa è l'immagine storica della Lituania: una nazione antica e orgogliosa, profondamente cattolica, capace di accogliere altre etnie e altre religioni. Oggi, però, l'identità lituana appare fragile, disorientata, esposta talvolta alle sirene del nazionalismo e del revisionismo, “tentata di cancellare il ricordo di convivenze troppo faticose”, scrive Gad Lerner in un reportage estremamente severo (e forse anche un po' paranoico) sul paese baltico. La storia della Lituania moderna è un rosario di continue sopraffazioni, con le vittime che qualche volte aiutano i carnefici, per frustrazione o per convenienza. Schiacciata nelle lotte fra Svezia, Polonia e Russia per la supremazia nella regione, la Lituania soccombe nel 1795 all'impero zarista, che cerca a tutti costi uno sbocco sul mare. La lingua lituana deve sparire, ordina l'imperatore di Mosca, proprio mentre in Europa si sollevano gli irredentismi dei popoli succubi (come gli italiani, i greci, gli ungheresi). Un patriota lituano si incarica di stampare clandestinamente, nella tedesca Koenigsberg (oggi Kaliningrad) migliaia di libri nella preziosa lingua indoeuropea, scritta con i caratteri latini vietati dallo zar per poter imporre l'alfabeto cirillico (e la religione ortodossa). La cultura lituana sopravvive a tutto, come la fede cattolica e lo spirito indomito della gente. La ribellione cova sempre sotto la cenere, e alla prima occasione storica, con la Grande Guerra, la Lituania ritrova l'indipendenza (1918), incuneandosi fra i due litiganti Russia e Germania, come gli altri paesi baltici.
Protagonista assoluto dell'indipendenza e della storia lituana fra le due guerre è Antanas Smetona, leader del movimento indipendentista e futuro dittatore del paese.
Smetona era un giovane irrequieto, che aveva rinunciato alla formazione ecclesiastica per diventare prima esponente del movimento studentesco antizarista, poi giornalista della stampa nazionalista lituana, sempre in bilico fra l'esilio e la galera. Un po' Mazzini, un po' Mussolini prima maniera, Smetona diventa il primo presidente della Lituania indipendente. Il nuovo stato, abituato a difendersi da Russia e Germania, riesce a venire a patti con Lenin, che ne riconosce l'indipendenza, ma deve subire l'attacco della Polonia guidata con pugno di ferro dal generale Pilsudski. I polacchi occupano Vilnius e tutta la parte meridionale del paese (1920). La capitale si trasferisce a Kaunas, dove si installa il primo parlamento democratico, destinato ad avere vita breve: nel 1926 Smetona, leader della destra nazionalista, attua un colpo di stato, e nel giro di un paio di anni perfeziona il suo personale regime. Un'escalation simile a quella del fascismo in Italia, anche se con meno violenza, secondo un modello che stava facendo scuola in tutto il continente. L'Italia di Mussolini, fra le potenze europee uscite vittoriose dal primo conflitto mondiale, è la più solidale con la Lituania, dal momento che la Francia mantiene la storica alleanza con la Polonia e l'Inghilterra bada soprattutto al commercio marittimo con i porti baltici.
A Vilnius quindi comandano i polacchi, dopo che sono andati via prima i russi e poi i tedeschi. Questo valzer di dominazioni si farà sempre più macabro, e spingerà una parte dei lituani prima nelle braccia dei sovietici, poi in quelle dei nazisti. Il destino più tragico, però, tocca agli ebrei lituani. Assai avanzati culturalmente, nettamente predominanti nelle libere professioni, gli ebrei di Vilnius hanno anticipato il movimento sionista per il ritorno in Israele, sono in buona parte orientati a sinistra e comunque preoccupati dall'ascesa del nazismo in Germania.. Quando nel 1940 arrivano le truppe di Stalin, secondo gli accordi di spartizione con Hitler (patto Ribbentrop-Molotov), molti ebrei entrano nelle nuova nomenklatura bolscevica, che collabora alla deportazione di quasi tutta l'élite lituana in Siberia. Questo fatto crea l'ennesima leggenda antisemita, di cui purtroppo si possono sentire gli echi ancora oggi, che vuole gli ebrei artefici del comunismo (allo stesso modo, qualcuno scarica sui figli di Abramo anche tutte le colpe del capitalismo). La realtà è completamente diversa: gli orrori staliniani colpiscono gli ebrei tanto quanto gli altri lituani e anche di più, in proporzione. Per contro, non sono pochi i lituani “doc” che accolgono l'avvento del comunismo, per convinzione o per opportunismo, tanto che il presidentissimo Smetona, che voleva opporsi fino in fondo ai sovietici, viene isolato, e sceglie perciò di andare in esilio negli Stati Uniti, dove morirà pochi anni dopo in un incendio.
Mentre la Lituania vive le purghe staliniane, a Berlino si organizza la resistenza antisovietica presso l'ex ambasciata lituana. Con il supporto dei nazisti, gli attivisti lituani fanno penetrare una vasta propaganda anticomunista e antisemita, preparando pervicacemente il terreno per quella che sarà la più grande mattanza degli ebrei nel continente europeo. Quando Hitler invade l'Unione Sovietica, e l'esercito tedesco arriva in Lituania, si scatena una carneficina. I lituani in molti casi anticipano la stessa Gestapo e spesso la superano in ferocia nell'eliminazione fisica degli ebrei. In soli cinque mesi, dal luglio al dicembre 1941, vengono trucidate oltre 160mila persone, pari all'ottanta per cento della popolazione ebraica: in Lituania la “soluzione finale” è stata attuata immediatamente, prima ancora della sua approvazione ufficiale da parte del regime hitleriano. Alla fine della guerra, il paese baltico detiene un lugubre primato: la percentuale più alta di ebrei sterminati, il 95 per cento della popolazione originaria.
E' contraddittorio constatare oggi, e qui ha ragione Gad Lerner, che il “Museo del Genocidio” a Vilnius non riguarda gli ebrei vittime dell'Olocausto, ma i lituani deportati in massa da Stalin, prima e dopo la guerra fra Unione Sovietica e Germania. Un fiume umano di oltre 300mila persone, in gran parte formato da donne e bambini, che si disperse nei gulag, fu mandato a morire di freddo, fame e schiavitù in Siberia o al Circolo polare artico, venne chiuso in carcere e torturato fino alla morte. “E' come se, in proporzione, gli Stati Uniti avessero perduto 20 milioni di persone”, scrivono gli storici Kuodyte e Tracevskis. E aggiungono: “Nessun capo del Partito Comunista ha pagato per i suoi delitti. Nessun comandante di un campo di sterminio ha dovuto rispondere per la sua inumanità. Di riparazioni, non si parla neanche. I crimini del comunismo sovietico sono perlopiù ricordati solo nei cuori e nelle anime delle vittime”. Quest'ultima affermazione è vera solo in parte, perché mentre la memoria dell'Olocausto qui è stata confinata in un piccolo centro quasi nascosto, lungo la strada che fa da confine al vecchio ghetto, il Museo del Genocidio sta in pieno centro, nel grande palazzo che fu sede tanto della Gestapo quanto del KGB. Rachel Kostanian, direttrice del minuscolo museo dell'Olocausto, l'ha chiamata “separazione della memoria”. Rachel era una bambina, quando il padre mandò la famiglia in URSS per salvarla dal massacro: “Non ho mai saputo granché dell'Olocausto. Stalin ne aveva cancellato la memoria, perché non doveva esistere una specifica questione ebraica, ma solo una guerra terribile vinta dall'Unione Sovietica contro il nazismo”. Soltanto con la “glasnost” voluta da Gorbaciov negli anni Ottanta, ricorda Rachel, si è cominciato a parlare in modo completo dello sterminio degli ebrei. Ed è proprio grazie alle aperture di Gorbaciov nel campo della libertà di espressione che il movimento indipendentista lituano, mai completamente domato, ha rialzato la testa dopo anni di vessazioni.
La Lituania è l'unica delle repubbliche sovietiche in cui ci fu una forte resistenza armata contro il potere di Mosca dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, addirittura fino al 1953, anno della morte di Stalin. I partigiani lituani, chiamati “Fratelli della foresta”, con la loro guerriglia (praticamente sconosciuta in Occidente) scoraggiarono di fatto la politica di immigrazione russa che invece stravolse la fisionomia di Estonia e Lettonia. Fatto sta che in Lituania non si è posto il problema della convivenza con la minoranza russofona che ha caratterizzato le altre due repubbliche baltiche.
Ma non è solo la maggiore omogeneità etnica (i lituani di origine russa sono solo l'otto per cento della popolazione, poco più della componente di origine polacca) a distinguere il percorso dell'indipendenza lituana. In questo paese l'opposizione antisovietica è sempre stata collegata in qualche modo alla Chiesa cattolica (praticamente assente in Estonia e Lettonia), che ha sempre funzionato da polo di attrazione della dissidenza, tanto che le prime conquiste democratiche hanno riguardato la libertà di culto e la riappropriazione delle chiese principali, a partire dalla cattedrale. Questo è uno dei due fattori che hanno reso meno controverso il passaggio dell'indipendenza, e lo hanno accelerato (la Lituania ha anticipato di oltre un anno il distacco da Mosca, avvenuto l'undici marzo 1990). L'altro fattore è legato all'atteggiamento del partito comunista guidato da Algirdas Brazauskas.
I comunisti lituani non aspettarono la vittoria di Eltsin sui golpisti che volevano restaurare il regime sovietico nell'agosto del 1991, per sposare la causa dell'indipendenza e della democrazia: avevano già operato la svolta decisiva, con tanto di scissione, due anni prima (perfino il PCI di Occhetto in Italia non seppe fare meglio).
Così, per quanto i protagonisti della transizione all'indipendenza furono i membri del movimento “Sajudis” con il loro leader Landsbergis, alle prime elezioni gli eredi del partito comunista (che ora si chiamavano “laburisti democratici”, per poi diventare semplicemente “socialdemocratici”) ottennero la maggioranza, e il loro leader Brazauskas vinse le presidenziali del 1993. A determinare la vittoria degli ex-comunisti, fu probabilmente il duro impatto della società lituana con l'economia di mercato, la difficoltà per un paese dall'anima ancora rurale ad accettare la svolta della “modernità”. Una difficoltà che si riscontra ancora oggi, a quindici anni di distanza dalle prime elezioni, ed è assolutamente comprensibile.
In primo luogo, la politica ha dato risposte comunque deludenti alla popolazione. I tentativi operati dai lituani sono stati notevoli, in termini di mobilità del voto. Basta dire che alle seconde elezioni, nel 1996, gli ex comunisti furono spazzati via (da 73 a 13 seggi), e gli elettori optarono decisamente per la destra di Landsbergis (da 16 a 70 seggi). E alle presidenziali del 1998 scelsero Adamkus, un manager dell'ambiente che aveva sempre vissuto negli USA. Ma i quattro anni all'insegna del liberismo e di una politica che più filo occidentale non si poteva non risolsero nessuno dei problemi del nuovo paese, dalla diffusa corruzione delle classi dirigenti alla povertà di gran parte della popolazione; dall'abbandono delle campagne, che avevano subito lo smantellamento dei “kolchoz” (le fattorie collettive di epoca sovietica che bene o male costituivano le uniche strutture funzionanti) alla crescente disoccupazione giovanile. Quindi, alle elezioni del 2000, altro ribaltone: i conservatori al governo vengono castigati di brutto (da 70 a 9 seggi), e vincono di nuovo gli ex comunisti del vecchio volpone Brazauskas, che molti davano già per finito, coalizzati con alcuni partiti di centro. Sinistra, destra, centrosinistra: i lituani le provano tutte, bocciando sistematicamente i partiti al governo e premiando ogni volta l'opposizione. Ma la frustrazione resta, e si riflette nel basso tasso di partecipazione alle elezioni (poco oltre il 50 per cento).
“C'è un'intera generazione, quella dei trenta-quarantenni, che ha rifiutato la politica, concentrandosi sul lavoro, sull'economia”, spiega Andrei Baranovskij, 38 anni, insegnante all'Istituto culturale italiano (che ha più iscritti dell'Istituto di francese). Per questo al potere in Lituania c'è ancora gran parte della vecchia nomenklatura, contrariamente a Lettonia ed Estonia, dove le nuove leve si sono già affacciate prepotentemente sulla scena politica, spesso saltando la generazione nata negli anni Sessanta, che si è trovata letteralmente in mezzo al guado (della fine del comunismo) e ha pensato essenzialmente a come cavarsela nel “mondo nuovo” senza farsi troppe illusioni. “Non sarei neanche troppo severo, con i vecchi politici dell'era sovietica – continua Andreij, con il disincanto tipico della sua generazione – In molti casi erano gli unici ad avere la necessaria preparazione politica, e la corruzione è un problema generale, che riguarda anche quelli che non sono mai stati comunisti”.
Sono proprio gli ex comunisti a portare la Lituania nell'Unione europea e nella Nato. Il consenso sull'integrazione europea, peraltro ormai scontato, è quasi unanime. Ma il paese non riesce a fare il salto in avanti, tanto che la popolazione lituana continua a diminuire di numero: l'emigrazione dei giovani, soprattutto verso Inghilterra, Irlanda e Stati Uniti, rimane massiccia. Delusi un po' da tutto e da tutti, i lituani alle ultime elezioni (2004) si fanno incantare dalle promesse di un imprenditore di origine russa, Viktor Uspaskikh, dal dubbio passato. Il suo “Partito laburista” (non c'è molta fantasia politica da queste parti), nato dal nulla, conquista la maggioranza relativa, ma non può governare da solo ed è costretto ad allearsi con il governo uscente di centrosinistra. Uspaskikh si fa dare il ministero dell'economia, anche se qualcuno grida al conflitto di interessi per le varie attività dell'imprenditore. La parabola del Berlusconi lituano dura poco: coinvolto in uno scandalo di corruzione e malversazioni, il disinvolto businessman scappa in Russia, provocando una minicrisi che vede il passaggio di consegne fra il vecchio Brazauskas, definitivamente uscito di scena, e il suo delfino Kirkilas, attuale premier.
Gli ultimi anni della politica lituana sono stati avvelenati soprattutto dalle rivelazioni sugli elenchi degli ex collaboratori del KGB, un po' come sta avvenendo, in maniera quasi grottesca, in Polonia. Ancora una volta, il passato sembra non passare mai. Per qualcuno, la cosiddetta lustracija (l'apertura di tutti gli archivi con conseguente “repulisti”) è una necessità storica; per altri (soprattutto i giovani) è sostanzialmente un gioco di potere che non interessa più di tanto alla gente. I problemi dei lituani sono più gravi rispetto allo stabilire se Tizio o Caio vent'anni fa hanno effettivamente collaborato con i servizi segreti sovietici o erano solo registrati dal KGB senza svolgere un ruolo attivo, anche perché all'epoca qualsiasi carriera passava attraverso l'adattamento al potere comunista.
D'altra parte, creare un sentimento di ottimismo nei lituani appare impresa titanica. Se n'è accorta anche la Chiesa cattolica, che si illudeva di aver intercettato una sorta di “boom” della fede romana, che avrebbe dovuto contagiare addirittura la Russia, sogno proibito del Vaticano. Niente di tutto ciò. I nuovi seminari, gli istituti religiosi spuntati come funghi negli anni dell'indipendenza sono rimasti in gran parte vuoti. L'approccio alla religione è ancora assai legato alle espressioni tradizionali, rituali, di semplice culto, in una mentalità quasi pre-conciliare..
Il disagio lituano sembra essere profondo, e non sempre facilmente interpretabile. Questo paese ha avuto per 15 anni consecutivi il primato dei suicidi in Europa (l'anno scorso è stato scavalcato dalla Russia). L'alcolismo è molto diffuso, come il consumo di droghe e la prostituzione, destinata soprattutto ad essere esportata (qualcuno dice addirittura che la metà delle prostitute che lavorano in Polonia sia di origine lituana).
Eppure, la Lituania, nonostante tutti i suoi problemi, sembra molto più vera delle altre repubbliche baltiche, più consapevole di se stessa, più umile e più forte allo stesso tempo. Qui non c'è l'entusiasmo un po' fasullo di Lettonia ed Estonia, i lituani non si sono fatti abbindolare più di tanto dalle sirene del consumismo. E nonostante le chiese piene di fedeli, non esiste qui, come in Polonia, un integralismo cattolico stile Radio Maria. Le tendenze revisioniste non hanno creato movimenti di estrema destra rilevanti, come riconoscono gli esponenti della comunità ebraica che si sentono più che tranquilli. E nascosti nella loro riservatezza, i lituani valutano con sagacia e a volte con sarcasmo la falsa sicurezza degli occidentali che arrivano da queste parti. “Qui c'è una bellissima gioventù – dice Ido Baldasso, psicologo e regista teatrale, che vive qui da qualche anno – “con una forte presenza femminile. Le facoltà umanistiche sono piene di gente appassionata, e il teatro, che già ci ha regalato un grande come Nekrosius, è vivissimo”. Insomma, la Lituania sembra credere nell'Europa che ancora non c'è. Che va inventata, perché l'Unione è nata vecchia, prigioniera dell'illusione di comprarsi il favore dei popoli (ora soprattutto di quelli dell'est) un tanto al chilo, e rinunciando a tutto il resto, cioè a testimoniare una chiara visione del mondo. Però, come diceva il filosofo Lacordaire, “bisogna credere ai ritardi”. In Lituania si ha la sensazione che la nottata stia per passare. Attraverso le porte dell'aurora, si vede che un altro futuro è possibile.Cesare Sangalli