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Pubblicato su "Galatea" ottobre 2006

La “polveriera” d'Europa vuole diventare un paese normale

Serbia, la nebbia dei fantasmi del passato

Nell'immaginario collettivo, i serbi sono stati i “cattivi” della storia della fine della Jugoslavia. Oggi non c'è quasi traccia del drammatico decennio vissuto sotto Milosevic, e nemmeno la tetraggine di tanti paesi post- comunisti. Eppure la politica serba non riesce a diventare europea, nonostante una società civile avanzata. La Serbia deve svegliarsi dall'incubo del nazionalismo

Belgrado è una città sorprendente. Ha la maestosità delle grandi capitali europee, ma anche la piacevolezza “latina” dei ritmi tranquilli, nei suoi caffè e nei suoi locali pieni di belle ragazze e di fumo (qui il puritanesimo anti-tabacco non è ancora arrivato). E' prettamente mitteleuropea nei suoi borghi sul Danubio, come Zemun, è profondamente slava nelle sue chiese ortodosse, è balcanica nei profumi di carne alla brace presenti un po' dovunque, è socialista nei casermoni di periferia e nei mausolei del Potere, stile “un grande futuro dietro le spalle”, è modernista e capitalista a Nuova Belgrado, il quartiere dove il passaggio dall'economia della famosa autogestione a quella di mercato, delle multinazionali e dei nuovi ricchi, si realizza senza soluzione di continuità. Ognuno ci può vedere ciò che vuole, ognuno può trovare conferma alla propria idea, proprio come nel rebus pazzesco che si chiamava Jugoslavia. Una cosa è certa, comunque: Belgrado non assomiglia più a quella città triste, alienata e allucinante che emerge nel film “La polveriera” di Goran Paskavljievic, una testimonianza straordinaria del periodo oscuro, quello del regime di Milosevic, durato tredici anni (1987-2000).
Belgrado comunque non è la Serbia, e verrebbe da aggiungere “purtroppo”. Paolo Rumiz, probabilmente il miglior cronista della tragedia jugoslava, ha insistito moltissimo sull'aggressione alle città, allo spirito urbano, da parte dell'anima profonda che veniva dalle campagne e dai monti, opportunamente manipolata dai leader politici (compreso Tito), a Belgrado come a Zagabria, a Sarajevo come a Novi Sad. La capitale serba non è stata sfigurata dalle bombe, nemmeno da quelle della Nato nel '99, ma da una mutazione prima politica e culturale, poi perfino antropologica, che l'aveva resa irriconoscibile ai suoi stessi occhi. Isolati dal mondo per un decennio, impoveriti dalle sanzioni internazionali, umiliati da un governo criminale,con un'inflazione sudamericana, i beni razionati, il mercato nero, la paura di uscire per strada (perché a Belgrado, negli anni Novanta, i ragazzini venivano aggrediti per un paio di scarpe), i belgradesi, abituati al miglior tenore di vita che un paese comunista abbia mai avuto, educati alla cultura e al cosmopolitismo, alla modernità e all'emancipazione delle donne, vedevano imporsi il modello di vita dei boss, grandi e piccoli: auto di lusso, pistole, gorilla, femmine da locale notturno nel quartiere che ancora oggi viene chiamato “Silicon Valley” (con riferimento alle maggiorate da chirurgia plastica), violenza, droga, bullismo, soldi facili nella miseria generale. Un modello incarnato perfettamente dalla coppia formata dal comandante Arkan, che da capo degli ultrà della Stella Rossa con precedenti penali era diventato ricchissimo leader di una formazione paramilitare (le “Tigri”), e dalla cantante Ceca (si pronuncia “Zeza”), regina del “Turbofolk”, la musica che faceva da colonna sonora a quegli anni così neri e “kitsch”.
Con sgomento, con incredulità, un'intera società si è dovuta chiedere “come ci siamo potuti ridurre così?”, e le risposte non sono mai state abbastanza chiare.
“E' incredibile l'ignoranza e la confusione sulla nostra storia recente – spiega Borka Pavicevic, ex sessantottina, direttrice di un centro culturale per la promozione della pace – “per molti la vicenda della Jugoslavia sembra ridursi a Tito e Milosevic. Cambiano i nomi delle vie, si confondono gli avvenimenti, si occultano le responsabilità, tanto che c'è ancora gente che nega Srebrenica e altri crimini”.
Borka ha la schiettezza di chi è rimasto saldo su posizioni giuste, e l'amarezza di chi ha visto un'intera classe di intellettuali coltivare per anni i semi dell'odio e della follia. I frutti sono stati puntualmente raccolti da un leader luciferino come Milosevic, rappresentante di una nomenklatura comunista che è ancora ben presente nelle istituzioni, dalla magistratura alla polizia, e condiziona pesantemente la vita del paese.
L'intellighentsia serba è oggi in un cono d'ombra. La “gloria” degli anni Ottanta si è trasformata in infamia, la Serbia non ha più voci credibili, e forse è per questo che sembra così difficile fare luce sul passato recente, metabolizzare la lezione della tragedia jugoslava. Una tragedia che si incarna alla perfezione nella figura di Milovan Djilas, il più grande e misconosciuto fra gli intellettuali serbi (in questo caso sarebbe più corretto dire “jugoslavi”). La sua vita riassume la grandezza e il fallimento di una generazione e di una nazione.
Milovan Djilas, classe 1911, fu innanzi tutto un protagonista della lotta partigiana durante la Seconda guerra mondiale. Nessun altro paese europeo ha avuto un movimento di resistenza antinazista forte come quello jugoslavo: un esercito di un milione di persone, in grado di liberarsi da solo dall'occupazione tedesca, senza aspettare né i russi, né gli americani. Ma l'eroismo dei partigiani di Tito si macchiò nell'epurazione feroce di ogni possibile oppositore, non solo dei collaborazionisti criminali come gli “ustascia” : la seconda Jugoslavia, la Jugoslavia socialista dell'”unità e fratellanza”, nasceva con l'imprinting del totalitarismo violento, e la rimozione totale di quegli anni drammatici operata dal regime titino avrà effetti nefasti quarant'anni dopo, quando intellettuali come Dobrica Cosic, la controfigura negativa di Djilas, cominceranno a riscrivere la storia per legittimare teorie deliranti. La grande simpatia che la Jugoslavia riscuoteva nei paesi occidentali per la sua opposizione all'Unione Sovietica di Stalin, contribuì per anni a nascondere i crimini del periodo 1943 - 1948 (compreso le famigerate foibe triestine) e ad alimentare la mitologia positiva sulla nazione forgiata da Tito.
Nella seconda Jugoslavia che vuole superare a tutti i costi l'eredità della precedente monarchia a dominio serbo (durata più di venti anni), Djilas è l'unica voce fuori dal coro. Già nel 1952 denuncia le storture del regime, che in nome di un ideale astratto e sempre di là dall'essere realizzato, pretende di comandare indiscusso in ogni settore della vita sociale, garantendo privilegi intoccabili ai suoi burocrati, la “nuova classe”. Nel suo libro “Anatomia di una morale”, Djilas descrive la decadenza dei valori etici dei comunisti jugoslavi, attraverso la storia di un ex comandante partigiano che sposa una soubrette. Anticipa quasi profeticamente l'immagine di Arkan e Zeza; la cronaca aggiungerà solo gli elementi di farsa, immortalati nello spettacolare matrimonio fra il guerriero e la star, in mezzo a decine di Mercedes lussuose, fiumi di champagne e kalashnikov che sparano allegramente.
Per Djilas, dopo l'espulsione dal partito e l'ostracismo totale, si aprono le porte della galera. Nello stesso periodo, invece, lo scrittore Dobrica Cosic, uno dei padri del futuro nazionalismo serbo, fa il consigliere personale di Tito, e lo accompagna nel suo primo tour africano (1961).
E' uno strano rapporto, quello fra gli intellettuali jugoslavi e il regime comunista. Non esiste il dissenso nel senso stretto del termine, perché Tito accetta un certo grado di critica, favorisce chi si occupa di arti e scienze, e arriva anche a parlare direttamente con gli studenti ribelli del '68, come descritto nell'ottimo saggio di Jasna Dragovic-Soso “Saviours of the Nation”, una lucidissima analisi del ruolo degli intellettuali nell'ascesa del nazionalismo.
I movimenti di critica degli anni Sessanta, come la cosiddetta “Black Wave” (che si espresse per lo più nel cinema, mostrando il lato oscuro della Jugoslavia in una sorta di neorealismo), non misero mai veramente in discussione le fondamenta del sistema, la leadership di Tito o il monopolio del partito comunista. Ma proprio in quegli anni iniziano i fermenti autonomisti nelle varie repubbliche, accentuati dalla prima ribellione degli albanesi nel Kosovo (1968). Invece di dire che il problema era Tito e il regime comunista, si è cominciato a dire che il problema era la Jugoslavia, questo stato federale con “sei repubbliche, cinque etnie, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e una sola bandiera” secondo una definizione attribuita allo stesso Tito.
Qui sta l'errore di fondo, che verrà purtroppo reiterato fino all'esasperazione: confondere le aspirazioni nazionali, la tendenza all'autodeterminazione delle varie repubbliche, con la vera questione, che era l'assenza di democrazia per tutti, serbi, croati, sloveni, bosniaci e minoranze varie. La Jugoslavia doveva prima liberarsi della dittatura comunista, e solo dopo, democraticamente, affrontare la questione dell'unità nazionale ed eventualmente decidere una separazione consensuale. Si è fatto l'esatto contrario, tanto al vertice quanto alla base, con un'ostinazione che non ammette nessun tipo di giustificazione.
Il primo a seguire questa strada fu proprio l'ineffabile maresciallo Tito: da un lato, assecondò le tendenze centrifughe delle varie repubbliche nella nuova costituzione del 1974 (che per la prima volta considerava etnia i musulmani di Bosnia, un altro errore fatale); dall'altro represse duramente ogni forma di dissenso, esasperando il controllo del partito sulle istituzioni e promuovendo tutta una serie di nuovi gerarchi che saranno gli architetti e gli esecutori dell'orrore.
Alla morte di Tito, nel 1980, la Jugoslavia era entrata in una crisi profonda, con il suo complicato sistema federale che non funzionava più, l'economia dell'autogestione che annaspava, la corruzione del regime sempre più inarrestabile.
L'unica cosa positiva fu il ritorno ad una discreta libertà di espressione, che paradossalmente sarà ampliata in Serbia proprio da Milosevic. Ma invece di utilizzarla per imporre la svolta democratica, come in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia e perfino nella vituperata Unione Sovietica, gli intellettuali jugoslavi si fanno prendere dal demone del nazionalismo, i serbi più di tutti.
Certo, la Serbia è in una posizione particolarissima rispetto alle altre repubbliche: oltre tre milioni di serbi (cioè il 40 per cento dell'etnia) vivono fuori dal paese, sparsi nel resto della Jugoslavia (soprattutto in Croazia e in Bosnia), e la Serbia è l'unica repubblica che ha regioni autonome al suo interno (la Vojvodina e il Kosovo, che resta il vero detonatore di ogni conflitto successivo). Una situazione di svantaggio che alimenta il vittimismo serbo, progressivamente spinto a livelli paranoici.
Comincia a diffondersi il mito secondo cui “i serbi hanno vinto la guerra, ma perso la pace”. Dobrica Cosic è l'indiscutibile maestro di questa nuova tendenza, il primo ad agitare il fantasma del sacrificio storico dei serbi: “Come può un popolo così degno, orgoglioso e coraggioso in guerra essere così docile e umiliato nella pace?” , dichiara già nel 1977, al suo ingresso nell'Accademia delle Arti e delle Scienze di Belgrado, che sarà la fucina del nazionalismo serbo.
Il povero Milovan Djilas, fra una prigionia e l'altra, avverte già nel 1982 che il regime comunista sta cominciando ad usare la carta del nazionalismo come sostituto della democrazia. Predica nel deserto. Nello stesso periodo, un altro scrittore dissidente, Vuk Draskovic, che sarà uno dei protagonisti della vita politica serba negli anni a venire (e attualmente è ministro degli esteri) sostiene che i musulmani di Bosnia sono solo dei serbi che si sono lasciati convertire all'Islam, dei traditori vigliacchi, e che “ è proprio per il fatto che hanno lo stesso sangue che il loro odio non conosce limiti, così come la loro follia”.
Ora che è cominciata a calare la censura sui sanguinosi anni che hanno portato alla creazione della Jugoslavia, si riscopre il genocidio dei serbi ad opera non tanto del regime degli ustascia, e quindi del nazifascismo, secondo la visione politicamente corretta accettata per anni, ma “dei croati e dei bosniaci”. Intanto, in Croazia, intellettuali cresciuti a pane e comunismo cominciano a diffondere tesi revisioniste sulle atrocità commesse durante il conflitto mondiale, e rinforzano così sull'altra sponda la teoria che vuole i serbi vittime storiche, gente minacciata da tutto e da tutti. La Chiesa Ortodossa, che sta rialzando la testa dopo anni di immersione coatta, dà il suo valido contributo alla follia generale, rileggendo la Storia come complotto antiserbo: in Kosovo, secondo il vescovo Atanasio Jevtic, i “nazisti albanesi” stanno solo completando l'opera iniziata secoli prima dagli Ottomani, per spazzare via le ultime testimonianze della cristianità e del popolo serbo.
Nell'indigesto minestrone culturale e ideologico che si sta preparando tutto si mescola: nostalgie monarchiche e rigurgiti socialisti, paragoni con gli ebrei perseguitati e miti di stile nazista del “suolo e del sangue”, difesa dell'identità cristiana e difesa del laicismo dalla minaccia dell'integralismo islamico (inesistente), voglia di capitalismo liberale e mantenimento dello statalismo puro. Nella cacofonia di tante idee sbagliate, una sola convinzione generale: così com'è, la Jugoslavia non ha futuro.
Tutto questo accadeva nella prima metà degli anni Ottanta: quando Milosevic arriva al potere, non si deve inventare nulla, gli intellettuali gli hanno già spianato la strada (lo stesso accade, specularmente, nelle altre repubbliche, ma a livelli diversi). Se i serbi sono in pericolo ovunque, ecco l'Uomo della Provvidenza, il Salvatore della Patria: il livello di consenso di cui gode Milosevic al suo debutto è incredibile, entusiastico: solo Tito era stato più popolare. L'avvento del pluralismo politico, con le “libere” elezioni nel 1990, serve solo a confermare la tendenza in atto, a dare una legittimazione di tipo occidentale a “Slobo”, che comincia a fare affari d'oro con tutti i paesi capitalisti, privatizzando a modo suo (emblematica la vicenda di Telekom Serbia, acquistata dal governo Prodi quando era ormai evidente la natura criminale di Milosevic).
Dove ha portato questa sorta di follia collettiva lo sappiamo tutti, anche se sarebbe ingiusto dimenticare una coraggiosa e forte minoranza immune dal nazionalismo di guerra che ha umiliato la Serbia per dieci anni. Ma è altrettanto importante ricordare che quando Milovan Djilas, che aveva ampiamente previsto la catastrofe, morì nel 1995, il parlamento serbo gli negò perfino il minuto di silenzio alla memoria: il coraggioso leader partigiano, uno dei padri della patria, non è mai stato riabilitato.
A guidare il riscatto della Serbia e la ribellione contro Milosevic furono due intellettuali (ancora loro) dell'area liberale: Vojislav Kostunica e, soprattutto, Zoran Djindjic. Nessuno dei due era del tutto “vergine” in quanto a nazionalismo: durante gli anni del conflitto avevano avuto posizioni ambigue riguardo alla guerra. Ma erano fieri avversari di Milosevic, e furono loro a guidare l'opposizione democratica prima alla vittoria elettorale, poi alla rivolta spontanea che spodestò il tiranno (mentre i belgradesi andavano all'assalto del parlamento, nell'ottobre 2000, il nostro ministro degli esteri Lamberto Dini sosteneva che l'opposizione doveva cercare un compromesso, e accettare il ballottaggio dopo che Milosevic le aveva scippato la vittoria al primo turno).
“Quello era il momento giusto per fare piazza pulita del vecchio regime. Nessuno avrebbe osato opporsi. Noi all'epoca abbiamo chiesto invano la messa al bando del partito di Milosevic e dei radicali”, lamenta Borka Pavicevic. Ma Kostunica, in nome di una strana idea di “riconciliazione nazionale” che salvasse tutti quanti, adotta una linea di compromesso che lo contraddistingue ancora adesso. Ossessionato dalla forma più che dalla sostanza, da giurista di formazione qual è, Kostunica ormai è un leader finito, senza idee e senza consenso. Il suo giocare a nascondino con i criminali di guerra, come il generale Mladic, ha fatto infuriare Carla Del Ponte, magistrato del Tribunale dell'Aja, e provocato uno stop nel processo di adesione della Serbia all'Unione Europea.
Djindjic era diverso. Deciso, dinamico, voleva portare avanti le riforme economiche e politiche ed accelerare il processo di integrazione europea. E' lui che ha fatto arrestare Milosevic, è lui che lo ha consegnato al Tribunale dell'Aja, nel 2001. Purtroppo per la Serbia, Zoran Djindjic è stato assassinato il 12 marzo 2003, e ancora oggi non si conoscono i mandanti del suo omicidio.
La Serbia non si è ancora ripresa da quello shock. Nessun altro leader democratico è emerso sulla scena politica: solo il presidente in carica Boris Tadic, che si è separato da Kostunica, ha una certa credibilità, ma appare troppo debole per imporre la svolta di cui il paese ha bisogno. Anche perché all'opposizione è continuato a crescere come un fungo velenoso il Partito Radicale di Vojislav Seselj, leader storico degli ultranazionalisti, attualmente sotto processo all'Aja come criminale di guerra.
Alle ultime elezioni, tre anni fa, i radicali hanno ottenuto il 28 per cento dei voti, risultando nettamente il primo partito. Oggi i sondaggi lo danno addirittura al 40 per cento. E perfino il partito di Milosevic (cioè l'ex partito comunista serbo) può ancora contare sul sette per cento dei consensi. Sembra incredibile, ma è così.
“I radicali sfruttano la crisi economica, il doloroso passaggio all'economia di mercato che sta lasciando intere classi senza certezze – spiega Igor Bogic, 36 anni, giornalista di Radio B92, unica voce critica negli anni della guerra – “Kostunica e i democratici hanno deluso molte persone, molta gente non è più andata a votare, e in questo clima di sfiducia, con il governo coinvolto in scandali finanziari a getto continuo, il Partito radicale usa tutto il populismo possibile, facendo leva ancora una volta sul vittimismo della Serbia profonda, quella della provincia, degli anziani, dei disoccupati”. In effetti, almeno a Belgrado, le nuove generazioni sembrerebbero più “sane”: i giovani parlano l'inglese molto più che in Italia, e sono ormai abituati ai caratteri latini, che un po' dappertutto stanno sostituendo il cirillico. La tradizionale apertura culturale, il cosmopolitismo, la voglia di viaggiare hanno ripreso il sopravvento, e sicuramente si respira un'atmosfera europea, la voglia di uscire dall'isolamento, dall'ossessione per l'identità serba. Nessuno vuole più sentire parlare di guerra, e perfino la questione del Kosovo sembra ormai più una fissazione dei politici e della Chiesa ortodossa che non della gente comune.
Ma questa voglia di normalità non si traduce per ora in un progetto politico. Nei Balcani si tende ad andare avanti per forza di inerzia, in questa fase, e certo l'Unione Europea non sta accelerando il processo di integrazione, anche se in prospettiva si dà per scontato l'ingresso di tutti i paesi della ex Jugoslavia, Kosovo incluso.
I mass media non aiutano più di tanto. Buona parte dei giornalisti implicati col vecchio regime sono spariti; alcuni si sono riciclati nella radio dei radicali (“Focus”); uno solo è stato condannato, Milanovic, ex direttore della televisione di stato, per aver deliberatamente lasciato morire i suoi redattori nel bombardamento dell'emittente pubblica (il governo serbo era stato avvertito dalla Nato). Ma si è andata affermando una tendenza commerciale e scandalistica, sia nella stampa che nelle televisioni private, che non aiuta la maturazione della coscienza collettiva. Come non aiutano gli atteggiamenti ambigui della Chiesa Ortodossa, che tende ad avallare una sorta di “tutti colpevoli, nessun colpevole”. Il funerale di Milosevic ha rappresentato una cartina di tornasole: la maggioranza dei belgradesi, soprattutto i giovani, lo ha ignorato, ma le autorità hanno lasciato che la cerimonia si svolgesse di fronte al mausoleo di Tito, hanno permesso al “reducismo” di fare la sua lugubre parata. L'immagine di “Slobo” è esposta in pieno centro, in una traversa della Kneza Mihaila che è il cuore della città, sopra la sede del Partito socialista serbo.
Tutto il passato è stato malamente e frettolosamente seppellito. Ma i suoi fantasmi volteggiano beffardi nel presente. Fra tanti monumenti, fra tanti luoghi che onorano perfino un re oscurantista e reazionario come Alessandro Karageorgevic, ne manca sicuramente uno, da dedicare ai “disertori” degli anni Novanta, ai tanti giovani serbi che preferirono il carcere alla divisa militare. E' ora di capire che i veri eroi sono quelli che in guerra non ci vanno.

Cesare Sangalli