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Pubblicato su "Galatea" settembre 2005

La “rivoluzione dei forajidos”, un esempio di democrazia

Ecuador, laboratorio latino

Un piccolo paese con un popolo pacifico e coraggioso. Un presidente populista, Lucio Gutierrez, cacciato da una rivolta spontanea della gente. L'Ecuador è una sintesi di tutte le caratteristiche del continente, geografiche e politiche, tranne una: la violenza. Viaggio nelle sfide del “cucciolo del Sudamerica”

“Fuera todos”. E' molto più di una scritta sui muri di Quito, affascinante capitale del piccolo Ecuador. E' un grido di rifiuto e di speranza, la sintesi della rivoluzione di aprile, detta dei “forajidos” (“fuoriusciti”, alla lettera, cioè sbandati, fuori dal sistema, termine usato dall'ex presidente Lucio Gutierrez in senso dispregiativo). Rifiuto della situazione presente e speranza in un cambiamento profondo. Un messaggio che va molto al di là di ciò che è successo in Ecuador, e forse proprio per questo ha avuto scarsissima considerazione dai mass media internazionali, a partire da quelli italiani, che invece avrebbero potuto trarne importanti spunti di riflessione. Per carità, la situazione dell'Ecuador è assai particolare, e qui tutto avviene su scala ridotta. Però in questo paese si è verificato forse il più interessante fenomeno politico latinoamericano degli ultimi anni, anche perché non c'è un protagonista che riassume tutto, come Chavez, Lula, Kirchner , i grandi presidenti, o Evo Morales, il subcomandante Marcos e altri grandi oppositori. Una rivoluzione senza leader, e questa è la notizia numero uno. Con l'esercito, quasi sempre determinante in questo continente, che rimane neutrale. Con le televisioni private (non esiste la tv pubblica in Ecuador) che occultano e minimizzano la realtà finché possono. Con i partiti, i sindacati, le associazioni di categoria, tutti i grandi attori sociali presi in contropiede, spiazzati dalla rabbia pacifica dei comuni cittadini, e con una grande, determinante presenza femminile in un paese profondamente maschilista.
Fuori tutti, “que se vayan todos”. E' una specie di “anno zero” per l'Ecuador, il punto e a capo di una democrazia ufficiale che a soli 25 anni di età è già vecchia, ha bisogno di ripartire su nuove basi, proprio come in Europa (Italia in primis), con la differenza che in Ecuador oggi c'è una consapevolezza critica che da noi è solo agli inizi, anche se ci sentiamo sempre più avanti di tutti. Venticinque anni di libere elezioni, lo spazio di una generazione: i giovani ecuadoriani hanno già visto tutto, e con Lucio Gutierrez si è chiusa l'ultima farsa, l'ultima presa in giro, quella più frustrante di tutte.
Fino al 1979 la storia dell'Ecuador non si distingueva da quella di tanti altri paesi latinoamericani, se non per il livello molto basso di violenza, che resta probabilmente la caratteristica migliore e più radicata del paese. Un'indipendenza “bolivariana” nella prima metà dell'Ottocento, che lascia del tutto inalterati i rapporti gerarchici all'interno del paese; il tradizionale confronto fra liberali e conservatori ; la grande instabilità politica, con un alternarsi continuo di presidenti e costituzioni e i frequenti interventi dei militari per “ristabilire l'ordine”.
Era stato così anche negli anni Settanta, una dittatura senza spargimenti di sangue e una transizione morbida verso il ritorno dei civili al governo, guidati dal presidente Jaime Roldòs Aguilera, che probabilmente era un autentico riformista, ma che morì prematuramente nel 1981 in un incidente aereo piuttosto misterioso.
A partire dagli anni Ottanta, l'Ecuador vive tutte le alternative possibili della democrazia classica, che un giornalista di Quito definisce ironicamente “bostoniana”: prima i conservatori del Partito socialcristiano, guidati da Leòn Febres Cordero, detto “il padrone del paese”, esponente politico potentissimo di quella oligarchia commerciale e finanziaria che domina il paese da sempre. Poi la sinistra moderata di “Izquierda Democratica”, quelli che in qualche modo si accontentano di essere semplicemente “meno peggio” degli altri, proprio come in Italia, anche se con la caratteristica tutta latinoamericana di assorbire l'unico movimento guerrigliero di qualche rilievo, l'”Alfaro vive! Carajo!” , con tanto di punto esclamativo e parolaccia, un po' come dire “Giolitti vive! Cacchio!” (visto che Eloy Alfaro è il presidente delle grandi riforme liberali di inizio Novecento) . Per completare il quadro, ci sono pure i democristiani, che daranno vita al peggior governo di sempre, e i comunisti del Movimento Popolare Democratico. L'Ecuador continua a essere nella sostanza una repubblica delle banane (in senso letterale: è il primo produttore mondiale), un paese esportatore di materie prime (petrolio e legno) e derrate alimentari (gamberi), completamente succube degli Stati Uniti e delle politiche del Fondo Monetario Internazionale, eternamente strozzato dal debito estero.
Ma intanto siamo arrivati agli anni Novanta, e sulla scena irrompono le due componenti fondamentali dell'Ecuador attuale: il populismo dei presunti “uomini nuovi” della politica e il movimento indigeno, il vero grande protagonista di fine secolo. Le due correnti si fonderanno poi nella sciagurata alleanza che porterà Lucio Gutierrez al potere.
“Le comunità indigene erano sempre state considerate come un ostacolo allo sviluppo nazionale. Gente che non contava niente, né dal punto di vista politico, né dal punto di vista economico, e quindi era come se non esistesse”. Rafael Pandam è il portavoce della CONAIE, la grande federazione di tutti i movimenti indigeni creata alla fine degli anni Ottanta “per non essere più spettatori, ma attori nella società ecuadoriana”. In effetti, la popolazione di origine indigena rappresenta il 40 per cento della nazione, a cui si aggiungono un 40 per cento di meticci, un 15 per cento di europei (indicati semplicemente come “blancos”) e un 5 per cento di afroamericani. Però l'identità indigena non è definita chiaramente: per alcuni è quasi solamente un fatto fisico, di origine; per la maggioranza è legata alla lingua (il quechua) e alle tradizioni; per altri ancora è soprattutto un'appartenenza sociale e “politica”.
La questione indigena si poneva soprattutto nella grande regione amazzonica (che qui chiamano “Oriente”), ed era strettamente legata alla questione della terra, cioè della foresta. A chi appartiene questa terra? Per secoli e secoli semplicemente a chi ci viveva, cioè agli Huaorani, ai Secoya, agli Shuar, ai Cofan e altri. Popolazioni che vivevano di caccia e pesca e potevano contare su vastissime aree di foresta per la loro economia. Ma le risorse della regione amazzonica erano anche nelle mire del governo, a partire da quella più preziosa di tutte: il petrolio.
Le prime esplorazioni avvengono verso la fine degli anni Sessanta,e nel 1972 la Texaco dà inizio allo sfruttamento petrolifero, concentrato nella regione amazzonica al confine con la Colombia. Il governo ecuadoriano delega tutte le operazioni alla multinazionale statunitense, che opera indisturbata per circa vent'anni, senza la minima preoccupazione per le devastanti conseguenze ambientali e meno che mai per le comunità indigene che vivono nella zona.
Tutto il materiale di risulta, e cioè il gas e l'acqua che fuoriescono insieme al petrolio, viene tranquillamente scaricato nell'ambiente, inquinando l'aria e l'acqua. A ciò si aggiungono le frequenti perdite dagli oleodotti, che annullano ogni forma di vita in una regione che presenta una delle massime concentrazioni di biodiversità nel mondo, un numero enorme di specie animali e vegetali. Gli indios assistono impotenti al saccheggio, in molti casi non si rendono nemmeno conto del danno che stanno subendo: continuano ad utilizzare acque intrise di sostanze tossiche, in certi casi addirittura mangiano gli animali morti per avvelenamento. Nessuno si è degnato nemmeno di avvertirli delle conseguenze, che spesso si manifestano solo dopo svariati anni: tumori, leucemie, malattie della pelle, malformazioni genetiche. A nulla servono le richieste di riparazione dei danni e di concessione esclusiva di territorio da parte della neonata CONAIE: non si muove nulla finché non esplode la rabbia indigena. E' il 1990. Mentre un gruppo marcia su Quito, si bloccano le strade, si interrompono i collegamenti elettrici e telefonici, si occupano fattorie e pozzi petroliferi. Gli indigeni sono molto lenti a metabolizzare le questioni, per la loro atavica pazienza e per le grandi difficoltà di comunicazione fra i vari gruppi dispersi su un territorio vasto e selvaggio. Ma quando si muovono, dimostrano una capacità di mobilitazione e un coraggio impressionanti. Il governo è costretto a mediare, a riconoscere la CONAIE come soggetto importante nel paese, a fare concessioni. Dal levantamiento del 1990, ogni presidente dovrà fare i conti con le rivolte indigene, che spesso si saldano alle proteste dei sindacati.
Nel 1992 la Texaco cede tutti i suoi pozzi a Petroecuador, la nuova compagnia di stato, che continua ad operare allo stesso modo, e soprattutto ad utilizzare strutture che nel frattempo sono invecchiate, soprattutto le tubature soggette a continue perdite. Però nel '93 i movimenti indigeni appoggiati da associazioni ambientaliste internazionali riescono a trascinare la Texaco sul banco degli imputati negli U.S.A. La multinazionale americana sosteneva la totale nullità del procedimento a suo carico. Dopo diversi anni di dispute legali, i giudici statunitensi hanno stabilito che non spetta a loro dirimere la questione, ma che la Texaco non può sfuggire al giudizio: il processo è tuttora in corso a Lago Agrio, cittadina amazzonica creata dal nulla vicino ai pozzi petroliferi.
La vicenda del petrolio è lo specchio della situazione dell'Ecuador: nonostante una produzione di tutto rispetto (circa mezzo milione di barili al giorno) e i prezzi dell'oro nero in costante aumento, il paese non beneficia quasi per niente della sua ricchezza: il 70 per cento delle entrate petrolifere è assorbito dal pagamento del debito internazionale, la cui origine è ancora più misteriosa se si pensa che l'Ecuador esporta più di quanto importi, e che gli standard sociali sono fra i più bassi del Sudamerica. La beffa finale è che la benzina costa praticamente quanto in Italia.
Ma i governi che si alternano negli anni Novanta continuano imperterriti a seguire la stessa linea: privatizzare le aziende nazionali (compresi vari tentativi di vendere Petroecuador), aumentare tariffe e prezzi dei carburanti, rubare nelle casse dello stato e fare sparire capitali all'estero. L'alleanza fra grandi esportatori, settore bancario e classe politica si salda con le politiche economiche degli Stati Uniti e del loro braccio finanziario mondiale, il FMI: l'Ecuador è un paese eterodiretto, con i governanti che operano a scapito dei governati. La gente cerca di ribellarsi in tutti i modi, i politici rispondono con lo stato di emergenza, in una situazione di precarietà permanente. Il populismo nasce semplicemente per disperazione, per rifiuto dello status quo: quando si presenta un leader che non ha legami storici con la classe dirigente, e parla un linguaggio semplice, fatto di slogan fiammeggianti contro l'oligarchia e contro la corruzione dei governi, la gente lo vota per cambiare qualcosa. Salvo poi rendersi conto di essere caduta dalla padella nella brace.
E' così che un personaggio improbabile come Abdalà Bucaram diventa presidente nel 1996. Uno spregiudicato uomo d'affari, soprannominato “il pazzo” (“el loco”), uno da sceneggiata napoletana, che canta e balla circondato di belle ragazze, con un linguaggio volgare e aggressivo riesce a vincere a sorpresa le elezioni, a governare 180 giorni facendosi accusare di truffa e peculato, finché viene destituito dal parlamento per “infermità mentale” e cacciato dal paese a furor di popolo. Sarà il suo clamoroso ritorno, concordato con il presidente Gutierrez, la goccia che farà traboccare il vaso della pazienza ecuadoriana.
Alle elezioni successive (1998), scottati dall'avventura populista che comunque lascia all'Ecuador l'eredità di un nuovo partito (il Partito Roldosista), si torna ad un politico tradizionale, il democristiano Jamil Mahuad. Peggio che andare di notte. Il nuovo presidente impiega poco più di un anno per scatenare l'ennesimo levantamiento popolare, forse il più impressionante di tutti. Il suo governo è un concentrato delle peggiori politiche di sempre: per aggiustare l'economia del paese, applica misure draconiane seguendo la linea del FMI. Il prezzo dei carburanti aumenta del 160 per cento, le tariffe di gas e luce schizzano alle stelle, i conti correnti vengono bloccati per evitare un collasso finanziario, come in Argentina, per ben due volte si dichiara lo stato di emergenza per fronteggiare le proteste. Il debito estero ormai ammonta al 90 per cento del PIL, e mentre si comincia a parlare dei reati finanziari commessi da Mahuad, il presidente annuncia la fine della valuta nazionale (il sucre) e l'adozione del dollaro. Il paese impoverito non tollera l'ennesima svendita della sovranità nazionale da parte di un presidente corrotto: nel gennaio del 2000 gli indios marciano su Quito e danno l'assalto al governo. Una parte dell'esercito si schiera fin dall'inizio con i rivoltosi. Mahuad fugge come un ladro, e per pochissimi giorni l'Ecuador è guidato da una giunta composta da due militari, il generale Mendoza e il colonnello Lucio Gutierrez, e dal leader del movimento indigeno Antonio Vargas.
Ma Mendoza, dopo frenetiche trattative, ci ripensa e accetta la successione “costituzionale” del vicepresidente Noboa. Gli indios si ritirano e Gutierrez viene arrestato per l'insurrezione e liberato dopo una breve detenzione.
La sua figura ricorda moltissimo quella di Hugo Chavez: originario dell'Oriente amazzonico, di sangue indigeno e famiglia modesta, Lucio Gutierrez sembra un militare senza macchia e senza paura, anche se ha fatto parte della guardia presidenziale del loco Bucaram. Qualcuno lo convince a giocarsi la carta della carriera politica, visto che si avvicinano le elezioni presidenziali, e quel qualcuno probabilmente ha buone relazioni con Washington. Appare evidente che il movimento indigeno, che da qualche anno ha anche un suo braccio politico in parlamento, il Pachakutik, è diventato troppo forte per poterlo reprimere con la forza: occorre coinvolgerlo nel governo per dividerlo e neutralizzarlo, e Gutierrez è l'uomo perfetto allo scopo.
Alle elezioni del 2002, a cui partecipa solo il 63 per cento degli ecuadoriani, Lucio Gutierrez con il 20 per cento dei voti va al ballottaggio contro un nuovo leader populista, Alvaro Noboa, un ricchissimo imprenditore del settore bananiero, piuttosto forte nella regione costiera, dove si concentra la ricchezza del paese ed è più marcato l'orientamento di destra. Ma Gutierrez prende i voti degli indigeni e vince anche nella regione andina, la Sierra, dove è situata la capitale Quito. Si presenta con mille promesse progressiste, e con lo slogan che tutti gli rinfacceranno sarcasticamente “cambierò il paese, contro l'oligarchia, o morirò nell'intento”. D'altra parte, la retorica, le grandi parole gonfie di sentimento e spesso di orgoglio nazionalista, sono un po' il cancro di tutta la dialettica politica latinoamericana, che più parla di rivoluzioni e più resta uguale a se stessa nella pratica.
E infatti. Non passano nemmeno due mesi che Gutierrez riprende pari pari la linea dei suoi predecessori, negoziando l'ennesimo prestito con il FMI. E quando Bush scalda i motori per lanciare l'assalto all'Irak, Gutierrez si dichiara “migliore alleato” del presidente americano. Intanto, ha chiamato al governo gli esponenti del movimento indigeno, a partire da Antonio Vargas, a cui affida il Ministero del Benessere Sociale. E' proprio da questo ministero che comincia l'opera di divisione del movimento indigeno. Lo spregiudicato sottosegretario Gonzalez, il vero “boss” del dicastero, finanzia selettivamente i progetti dei leader indigeni fedeli ed emargina i non allineati, servendosi all'occorrenza di una sorta di milizia filogovernativa che non esita ad usare le maniere forti.
Il paese è esterrefatto. Non riesce a credere di avere eletto un voltagabbana così spudorato. Gutierrez piazza familiari e amici dappertutto, soprattutto nell'esercito, e si illude ad un certo punto di dominare il paese. Ma sarà proprio la sua presunzione ad affossarlo. Diventa il re della smentita, dice tutto e il contrario di tutto, sostiene di lottare contro l'oligarchia e, dopo un tentativo di alleanza, si mette contro il machiavellico Febres Cordero, il vecchio leader del Partito Socialcristiano che ha la maggioranza relativa al parlamento. La lotta politica è diretta solo alla spartizione della torta, a partire dai proventi petroliferi, e il popolo assiste sempre più disgustato ai continui litigi dei rappresentanti.
Per garantirsi una maggioranza parlamentare, Gutierrez cerca l'appoggio del Partito Roldosista, quello del “pazzo” Bucaram. In un incontro che doveva restare segreto, nel corso di una visita ufficiale a Panama, Bucaram ottiene dalla sua ex guardia del corpo la garanzia di poter ritornare, amnistiato, in Ecuador. Detto, fatto. Con una manovra incostituzionale del parlamento, votata clamorosamente anche dai comunisti del Movimento Popolare, Gutierrez manda a casa tutta la Corte Suprema, e ne fa nominare un'altra di fedelissimi, alcuni dei quali erano addirittura neolaureati in legge. Dopo pochi mesi, arriva puntuale l'amnistia per Bucaram: mentre la classe politica fa disquisizioni sul rispetto della costituzione, si prepara il rientro in grande stile dell'ex presidente populista.
La gente assiste sempre più sconcertata allo scempio istituzionale. Il movimento indigeno stavolta è muto, anche perché molti dei suoi leaders si sono venduti da un pezzo. L'opposizione di Izquierda Democratica non va oltre la protesta formale, neanche troppo convinta. Il sindaco izquierdista di Quito, Paco Moncayo, convoca una marcia di protesta; ma quando si accorge che la gran massa di persone che partecipano chiede la cacciata di Gutierrez , cerca di calmare gli animi, moderare la rabbia del popolo.
La vergogna finale del rientro di Abdalà Bucaram, il presidente cantante (e ladro) avviene in coincidenza con l'agonia del papa, ai primi di aprile: el loco, senza il minimo pudore, sciorina tutto il vecchio repertorio da showman, e le televisioni, che hanno amplificato ad arte l'avvenimento per giorni e giorni, gli concedono tre ore di diretta mentre gli ecuadoriani pregano per Giovanni Paolo II. “Perfino il papa ha aspettato a morire per permettere il mio ritorno”, dichiara Bucaram.
Lo scarto fra il mondo ufficiale e il sentimento della gente, soprattutto degli abitanti di Quito, i più politicizzati, è allo zenit. Ma l'unico che se ne accorge è un giornalista, Paco Velasco, direttore di una piccola radio di successo, “Radio La luna”, che da tempo ha aperto il microfono alle persone comuni, diventando quasi a sua insaputa il catalizzatore della protesta generale.
“Non si può calpestare impunemente la dignità di un popolo – sostiene Velasco – “La gente stavolta non si è ribellata su questioni economiche, per quanto la situazione generale sia molto difficile. E' stata una rivolta spontanea su una questione di politica, anzi, di etica”.
A partire dal 13 aprile, nella capitale ecuadoriana sale una marea di manifestazioni spontanee, coordinate dalla radio e ampliate dal passaparola.
Il presidente Gutierrez sottovaluta la protesta, perché è convinto che, senza l'appoggio del movimento indigeno (mai così diviso e indebolito), ogni forma di rivolta popolare sia destinata a fallire. Parla di una minoranza di “forajidos”, di “fuoriusciti” senza appartenenza politica, senza organizzazione alcuna. Il termine viene immediatamente utilizzato dalla gente, che adesso sa come chiamarsi. Nessun leader, nessuna bandiera politica: l'unico simbolo è la bandiera nazionale, i colori giallo, rosso e blu dell'Ecuador, le magliette della nazionale di calcio. Alcuni leader politici provano a “inquadrare” la protesta, si presentano come potenziali emissari, ma vengono clamorosamente rispediti al mittente.
Le televisioni, le stesse della scandalosa “diretta” a Bucaram, oscurano e minimizzano, finché possono, la rivolta. Poi, ovviamente, fanno a gara per dare spazio agli avvenimenti, cercando di enfatizzare gli episodi violenti dei manifestanti, che per fortuna rimangono assai limitati, nonostante la repressione a colpi di gas lacrimogeni (che provocano la morte di un fotografo cileno) e le provocazioni dei teppisti privati di Gutierrez che vorrebbe far degenerare la situazione per usare le maniere forti. Ma gli abitanti di Quito non abboccano, anche perché sono persone comuni, gente che normalmente non scende in piazza, con molte famiglie al completo e un gran numero di donne, dalle ragazzine alle signore anziane. Tutti gli avversari di Gutierrez, a questo punto, si coalizzano contro di lui. I militari fanno capire che non useranno la forza contro i manifestanti. Ormai tutti vogliono scendere dalla nave che affonda, e alla fine Gutierrez decide di fuggire negli Stati Uniti, seguito a ruota da Bucaram.
I “forajidos” hanno vinto. E' stata per tutti una lezione di democrazia, anche se adesso non c'è quasi più traccia dell'entusiasmo di quei giorni. Un'intera classe dirigente comunque si è sentita sotto accusa, e oggi si interroga per cercare di capire quali mosse adottare in vista delle elezioni del 2006. A chi obietta che i “forajidos” non hanno né un programma, né rappresentanti, né un minimo di organizzazione, Paco Velasco replica:
“Non ha nessuna importanza. Nessuno crede più al simulacro elettorale, ai salvatori della patria. Non è che votando rinunciamo a tutti i nostri diritti di cittadini, delegando un potere quasi assoluto ad un sistema politico che ha minato il concetto di rappresentanza, trasformandosi in un settore che trasferisce la ricchezza dal pubblico al privato, cioè legittimando un saccheggio. Chiunque vinca, entra sotto sospetto: la democrazia deve cominciare il giorno dopo le elezioni”. A Quito, forse la capitale più a misura d'uomo del continente, regna la calma, i fatti di aprile sono presenti solo nell'immaginario collettivo, che si esprime continuamente attraverso le scritte sui muri, quasi sempre ironiche e creative. A parte il classico “fuera todos”, si segnala: “Vietato rubare. Il governo non ammette concorrenza”, oppure: “Vorrei che governasse la mia mamma”.
E soprattutto, come un epitaffio sulla civiltà delle comunicazioni, e un avvertimento alla democrazia a 24 pollici, “la rivoluzione non verrà teletrasmessa”.

Cesare Sangalli