Reportages

 

  • Guyana Francese
Guyana Francese1 2 3 4 5

 

english version




Pubblicato su "Diario" febbraio 1998

Sulle orme di Dreyfus e Papillon, fra passato e futuro

Gli “evasi” della Guyana francese

L'inferno di ieri è diventato il “paradiso” di oggi. Si scappa dalla Francia, dall'incubo della società moderna, seguendo la rotta dei forzati di un tempo, per trasferirsi alla Cayenna o alle Isole della Salute. Eppure i fantasmi del passato si fanno sentire ancora, e pongono una domanda subdola e opprimente: che cos'è la libertà?

“Non si rifà una vita come si cuce un bottone”. Henri Charrière, detto Papillon, lo sapeva bene. L'ergastolano più famoso di tutti i tempi era arrivato qui, a Saint Laurent du Maroni, con un unico obiettivo: andarsene il prima possibile e tornare in Francia per vendicarsi di quelli che l'avevano condannato a percorrere “la strada della putredine”. La Guyana era il punto di non ritorno della feccia francese, mandata dai giudici a crepare di fatica, malaria, dissenteria, maltrattamenti nei famigerati penitenziari di oltremare.
Teatro degli eterni conflitti coloniali fra Francia, Inghilterra e Olanda, questo pezzo di foresta amazzonica vicino alla linea dell'Equatore passò definitivamente all'Impero di Napoleone nel 1807. La legge per farne un luogo di deportazione c'era già, dai tempi della Rivoluzione (1792). Saint Laurent du Maroni nacque nel 1857 per volontà del principe Luigi Napoleone.
Da allora il tricolore francese sventola sulla riva orientale del fiume Maroni. Ma i poliziotti della gendarmerie, impeccabili nelle loro divise estive e con il loro “chepì” d'ordinanza, cercano oggi di controllare non chi scappa ma chi entra, i mille clandestini surinamesi che passano il fiume per i piccoli traffici di frontiera o per cercare lavoro in questo angolo remoto di Francia, 120mila abitanti, di cui 90mila nella Cayenna, insignificante capitale amministrativa. Un territorio che è circa un terzo dell'Italia, occupato all' ottanta per cento dalla foresta, dipartimento (d'oltremare) come la Savoia o la Normandia, con tanto di deputati (due) all'Assemblea Nazionale, ma che continua a sembrare una colonia.
Questa è l'unica delle tre Guyane che è rimasta agli antichi padroni (la Guyana britannica è diventata indipendente nel 1966, quella olandese nel 1975 col nome di Suriname). La differenza c'è e si vede: la piroga che porta da Albina a Saint Laurent si lascia alle spalle una frontiera gestita all'africana (quella del Suriname), mentre sulla riva francese si avverte subito l'impronta della civilisation europea, rassicurante, ordinata, educata e due volte più costosa. Eppure nell'aria c'è qualcosa di strano, di negativo, di opaco: lo ritrovi negli sguardi e nelle parole dei gestori francesi dei pochi alberghi e locali aperti; lo percepisci nella freddezza nervosa, ai limiti dell'arroganza, dei militari di leva quando controllano i documenti alla gente del posto (quasi tutti afroamericani più una minoranza di indios caribe); lo senti nelle parole risentite dell'assistente nella casa di riposo a due passi dal vecchio penitenziario (che è rimasto praticamente intatto), una donna sulla cinquantina, che, senza volerlo, ricorda un po' miss Ratched di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. I vecchi ospiti della casa di riposo sono in buone mani, ma i loro sguardi si perdono verso la linea del tramonto: la memoria, il passato sono perduti, o forse mancano solo le parole per dirlo. “C'era un ex galeotto, ma è morto pochi mesi fa”. L'assistente è dispiaciuta. “Era l'ultimo?” domanda obbligata. “Sì, era l'ultimo”.
L'ultimo prigioniero di Saint Laurent du Maroni. Ma forse gli altri si illudono di essere liberi. Perché quaggiù, oggi, si viene per evadere, ma forse si entra in una nuova prigione a cielo aperto, fatta di sonnolenza, di caldo, di droga (in questa cittadina di 13mila abitanti il “crack” si trova con facilità incredibile), di isolamento, di silenzio. Lontano dalla normalità di una vita casa - lavoro - casa nella civiltà occidentale, in Francia, “en métropole”, come si dice qui. I francesi sono semplicemente “les métros”, gli altri sono “les créoles”, cioè i “bushnegroes” o gli amerindiani che però non si integrano più di tanto.
Si scappa quindi dalla normalità per ritrovarne un'altra, più vera (o più alienata) alla periferia del mondo, abbandonata da tutti tranne che dal fiume, eterno, opaco di terra, difficile da risalire per via delle forti correnti. I movimenti, le fughe, la conoscenza, sono affidati alle piroghe. Per andare ai villaggi vicini bisogna spesso aspettare il giorno del mercato, cercarsi un passaggio per l'andata e uno per il ritorno. Pagarsi un barcaiolo francese è uno sfizio per i pochi turisti che arrivano fin qui (solo 70mila all'anno, in tutta la Guyana). Sfilano i luoghi della memoria come le pagine del libro. Ecco le mura esterne della prima evasione di Papillon, ecco l'Isola dei Piccioni, che tutti indicano come l'isola dei lebbrosi, dove “Papi” trovò la solidarietà inaspettata dei rifiuti umani che abitavano questo scoglio di palme e mangrovie in una lunga, noiosa agonia.
E' un passato che non molla la presa, quello della Guyana, almeno qui a Saint Laurent. E forse è meglio delle mille, falsissime luci di Kourou, base spaziale europea dei satelliti “Ariane”, lusso in mezzo alla giungla, città senz'anima e senza poveri, fatta su misura per ingegneri e funzionari. E' più vera la decadenza di Saint Laurent, marcia come le travi del vecchio ospedale, arrugginita come i binari della ferrovia abbandonata, arenata come la nave brasiliana che sta incollata al letto del fiume da trent'anni, squarciata nel ventre , violentata e posseduta dalla natura che si prende la rivincita e avvolge con i rampicanti il pennone più alto. “Cinquant'anni fa, per quello che so, la vita era molto più frenetica qui a Saint Laurent” sostiene Jean Pierre, il barcaiolo trentenne, che ha fatto il militare qui e poi c'è tornato, si è comprato una piroga e porta a spasso i turisti.
Nel 1946 l'amministrazione soppresse i bagni penali; la legge francese aveva già vietato le condanne ai lavori forzati nel 1937, ai tempi del “Fronte” delle sinistre guidato da Léon Blum. “C'era un progetto per fare un porto turistico con una lunga passeggiata, ma non è mai partito. L'amministrazione locale è in mano a quattro o cinque famiglie creole che fanno il bello e il cattivo tempo da sempre. E' difficile portare avanti iniziative private, ti fanno diventare scemo con i permessi, i controlli e le tasse”. Eppure Jean Pierre non se ne va. E' più comprensibile la presenza dei militari: stipendi molto più alti che in Francia, indennità, “ogni giorno lavorato in Guyana ne vale due ai fini della pensione”, spiega il comandante della Gendarmerie. Ha la faccia da ragazzino, ma ha già passato sicuramente la quarantina: parla della difficoltà con la popolazione locale, si sforza di dimostrare che tutto va per il meglio, ma trasuda amarezza e orgoglio nazionalistico. Solo “una certa idea della Francia” (quella di De Gaulle, ovviamente) tiene in piedi un posto del genere, tutto spese e nessun ricavo: si importa cinque volte di più di quello che si esporta (676 milioni di dollari contro 133, rappresentati da pesce, manufatti, oro e legname), il deficit di bilancio costa al governo francese circa un miliardo di franchi all'anno (300 miliardi di lire).
Agli indigeni va bene così: essere francesi conviene, c'è gente (come i cinesi della “Charbonnière”, quartiere di catapecchie vicino ai prefabbricati della maggioranza nera, versione moderna del villaggio africano) che entrerà in Europa senza mai essere uscita dalla giungla. Ma voi, “métropolitains”, che ci fate qui? “Avevo voglia di viaggiare, ma non i soldi per farlo - spiega Nathalie, 20 anni, di Tolosa, barista in una discoteca - Ho cominciato a lavorare come stagionale fuori dalla mia città e anche all'estero; poi mi capitò di vedere un documentario alla televisione sulla Guyana e sono partita con un po' di soldi, senza conoscere nessuno”. E come ti sei trovata? “All'inizio è stata dura, non avevo né un alloggio fisso, né un lavoro. Ma dopo un po' conosci tutti, a Saint Laurent, e ci si dà una mano a vicenda. In questo posto sto imparando che si può vivere anche senza tutte le comodità europee. In Francia la gente diventa matta al primo guasto della lavatrice: qui la gente lava la roba nel fiume, ma sono tutti tranquilli. E comunque, si cresce solo in salita, non in discesa”.
Dominic, 28 anni, ha cominciato nei ristoranti di Cayenna nel ‘94, poi si è piazzato all'Isola Reale, la più grande (28 ettari) delle “Iles du Salut”. Lavora nell'unico locale del luogo, un bar ristorante di stile esotico (banco in legno, ventilatori a pale, carte nautiche alle pareti), con una terrazza che guarda la famigerata Isola del Diavolo: “Mi piace il lato selvaggio di questa isola. E' un piccolo paradiso. Qui siamo in dieci a lavorare, gli unici abitanti fissi della zona che appartiene al Centro spaziale. Isolati? Non saprei: abbiamo il telefono, il fax, il satellite. La posta dalla Francia ci arriva in tre giorni. Penso che non tornerò mai in Europa.”. Angela Saracino, direttrice sulla cinquantina, chiare origini italiane, è sulla stessa lunghezza d'onda: “Ho lasciato la Francia 17 anni fa, senza rimpianti. Sono stata a lungo in Martinica, ma la situazione laggiù è diventata penosa: gli abitanti sono sempre più aggressivi nei confronti dei bianchi, dei turisti. Da queste parti si sta molto meglio”. Sarà. Ma passeggiando per i capannoni chiusi che ospitavano i galeotti, o davanti alla vecchia chiesa in legno che sta andando in rovina, si avverte un'oppressione, un senso di morte che non ti lascia mai. Davanti, separata da un braccio di mare che si farebbe volentieri a nuoto (ma è molto rischioso, per le correnti e qualche volta per gli squali), l'Isola del Diavolo, un palmizio fittissimo in mezzo all'Oceano. E' riserva naturale, controllata dalla Legione straniera, ci vuole un permesso speciale per visitarla. Sull'isola sono di stanza due legionari: spesso si tratta di giovani provenienti dall'Europa dell'Est.
I due legionari dell'Isola del Diavolo. Una storia che nessuno scriverà mai. Chissà se vanno a sedersi sulla panchina di Dreyfus, l'ufficiale ebreo ingiustamente condannato per spionaggio alla fine del secolo scorso. Chissà se sanno che proprio cent'anni fa Emile Zola cominciava sulle pagine dell' “Aurore” la battaglia per la libertà del più famoso prigioniero politico della storia francese. Chissà cosa significa, per loro, la libertà.

Cesare Sangalli