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Pubblicato su "Galatea" dicembre 1999

Nicaragua, storia di un paese dimenticato

C'era una volta la rivoluzione


Venti anni fa, i sandinisti rovesciavano il dittatore Somoza. Sembrava l'inizio di una nuova era, ma era solo l'ultimo ruggito della generazione del '68. Oggi, una nazione di ragazzi (più della metà della popolazione è minorenne) si ritrova senza prospettive per il futuro. Anche perché sul passato c'è solo ipocrisia


Acahualinca è da sempre la zona più brutta di Managua. Il nome, di origine indigena, sembra che indichi un'eruzione di lava, la presenza di un vulcano. Ma se un giorno era lava, oggi è fango ed escrementi. “No botar la basura” (non gettare la spazzatura) c'è scritto sul muro: un invito ironico per chi ci vive in mezzo. I camion della nettezza urbana lavorano a fianco dei “basureros”, gli uomini - immondizia, tristi artisti della raccolta differenziata.
Bambini seminudi sguazzano nelle pozzanghere, aspettando di seguire, come un piccolo corteo festoso, un altro carico di rifiuti: qualcosa si troverà, e un altro giorno sarà passato.
Non molto lontano, c'è il barrio “Vida Nueva”, quartiere ricostruito dopo l'uragano “Mitch”. Le case sono tutte uguali: piccole, grigie, sembrano ancora in costruzione. In compenso c'è un bel campo di basket, rettangolo pavimentato in mezzo ad una grande spianata verde. “Obras, no palabras” dice il cartello firmato Arnoldo Alemàn, presidente liberale eletto nel '96.
“Opere, non parole”. Uno slogan alla rovescia: tante, troppe parole spese per questa nazione, mentre la realtà era (ed è) sempre altrove, sempre un po' distante, ineffabile, incomprensibile. Il Nicaragua è stato gonfiato per undici anni dalla retorica ideologica, perché ha rappresentato, nel bene e nel male, l'ultimo rifugio dell'utopia rivoluzionaria prima del Grande Freddo. Gli anni Novanta. La fine delle ideologie. Per qualcuno, addirittura, la fine della Storia (e questa sciocchezza, targata Francis Fukuyama, ha fatto il giro del mondo).
In Nicaragua la Storia sembra finire, o iniziare (secondo i punti di vista), nel 1990, con la clamorosa sconfitta elettorale dei sandinisti, da undici anni al potere, e l'affermazione di Violeta Chamorro, leader di un'improbabile coalizione di 14 partiti che, paradosso involontario, si chiamava “UNO” (Uniòn Nacional Oposidora). Da quel momento, il Nicaragua esce dai riflettori dell'opinione pubblica mondiale per diventare un paese insignificante, che fa notizia solo per le catastrofi naturali (una costante, da queste parti). E in effetti, la prima impressione è quella di un paese mediocre, malinconico, che si potrebbe confondere con molti altri. Un paio di monumenti “guerriglieri” non bastano a caratterizzare una città, Managua, né vecchia, né nuova, né brutta, né bella. La povertà si nota, certo, ma tende a diluirsi su spazi enormi: c'è poca gente, sia in città che nelle campagne, e quindi poco movimento, poca vita. E' come se il Nicaragua si nascondesse. Una sensazione che si fa sempre più certezza, per il giornalista che cerca ostinatamente di farsi un'idea, di arrivare a qualche conclusione. Presenza e assenza, verità e finzione, si sente dire tutto e il contrario di tutto. La repubblica dell'ambiguità.
Uno studente che lavora alla libreria universitaria di Managua prova a spiegare questa realtà doppia con la tradizione “gueguense”, cioè con le rappresentazioni teatrali degli indigeni che, presentandosi in modo grottesco, si facevano in realtà beffe dei conquistadores , dei padroni che ridendo degli attori ridevano di se stessi.
Ma al di là della letteratura, le risposte vengono dalla Storia, che non comincia né con dona Violeta, né con i sandinisti, né con Somoza, il grande dittatore. Il Nicaragua è da sempre un paese incredibilmente conflittuale, capace di dividersi su tutto, e le cui classi dirigenti sono sempre state disposte a ricorrere a qualsiasi mezzo per garantirsi il successo.
L'indipendenza, nel 1821, vede subito la divisione fra repubblicani e monarchici. Una parte vuole unirsi al Messico, un'altra al Guatemala. Nel 1823 c'è il primo colpo di stato, e subito dopo, la prima guerra civile. Da quel momento comincia una storia pazzesca, inenarrabile: il Nicaragua si trova ad avere in certi momenti anche quattro governi contemporaneamente e due costituzioni. I governi sciolgono le assemblee, le assemblee destituiscono i governi. Le costituzioni vengono cambiate come fossero carta straccia. Ogni questione politica finisce a cannonate. Si firma un accordo e subito dopo si comincia a sparare. Tutti nazionalisti, comunque, todos caballeros.
Non c'è leader, da sempre, che non si riempia la bocca con l'orgoglio nazionale. Quasi una mania, quella della Patria, cantata anche dal grande poeta nicaraguense Ruben Darìo, uno dei massimi autori latinoamericani: “Se piccola è la Patria, uno grande la sogna/ Le mie illusioni e i miei desideri, e le mie speranze/ mi dicono che non c'è patria piccola...”
Eppure, nel 1855, venne eletto presidente un avventuriero americano, William Walker, che con poche centinaia di uomini era riuscito a “vincere” una delle tante guerre interne. E nel 1912 il presidente Diaz non esitò a chiamare in suo aiuto i marines, che rimasero nel paese fino al 1925. L'intervento diretto, militare, degli Stati Uniti, per appoggiare l'una o l'altra fazione (lo scontro era fra conservatori e liberali) fu la causa scatenante della guerriglia guidata dal generale Augusto César Sandino.
Un uomo duro e puro, Sandino. Di cultura limitata, non certo uno statista, né un ideologo, forse neanche un grande stratega. Però era coerente, onesto, cristallino. “Non mi vendo e non mi arrendo: devono vincermi”, diceva. E anche: “Ci sono uomini che credono, dal momento che vivono bene, che è una pazzia sacrificarsi per il bene collettivo”. Sandino ci credeva, anche se il suo principale obiettivo (per non dire l'unico) era di riscattare il Nicaragua dal servilismo nei confronti degli Stati Uniti. Cadde ingenuamente in una trappola tesa dal suo grande rivale, Anastasio Somoza, comandante della Guardia Nazionale inventata dagli americani, dopo aver raggiunto un accordo. C'è una foto incredibile che li ritrae abbracciati: Somoza, l'assassino, alto e grasso, dentro un'uniforme che sembra quella di un poliziotto; Sandino, la vittima, piccolo e magro, con il suo cappello a larghe tese, gli stivali e la cartucciera alla vita. E' forse la foto più emblematica di questo paese, anche se risale al 1934. Sandinisti e somozisti legati in un abbraccio mortale, quello della violenza, autentica costituzione materiale del Nicaragua.
Per quaranta anni, la famiglia Somoza ha il dominio della nazione, fino a considerare il Nicaragua proprietà personale. Il potere passa da Anastasio al figlio Luis, e da questi al fratello, un altro Anastasio. Ma la rivolta si fa sempre più forte e generalizzata. Alla guerriglia sandinista, iniziata nel 1962, si aggiungono settori sempre più ampi della società. La repressione diventa brutale e indiscriminata.
Il presidente americano Jimmy Carter non accetta più di coprire il dittatore nicaraguense, che si scava la fossa con un duplice omicidio: quello di Pedro Joaquìn Chamorro, direttore della “Prensa”, nel 1978, e quello di Bill Stewart, giornalista americano, nel 1979.
Pedro Joaquìn Chamorro, marito di Violeta, rappresenta l'opposizione borghese a Somoza. Aveva un'enorme reputazione (di cui si gioverà la moglie), il suo giornale sfidava apertamente il dittatore. I suoi funerali saranno i più seguiti della storia del Nicaragua.
La stragrande maggioranza della popolazione parteggia per i sandinisti, e il 17 luglio 1979, quando Somoza, ormai isolato e abbandonato da Washington, se ne va in esilio, Managua esplode in una festa memorabile. Il miracolo è avvenuto: la guerriglia rivoluzionaria, una delle meno forti e organizzate del Centro America, ha vinto. Il Nicaragua, una volta tanto, sembra unito dalla caduta del tiranno, del nemico comune.
Ma a partire da questo momento, tutto comincia a ritornare doppio. E' duplice l'interpretazione del periodo sandinista, duplice la valutazione di quell'esperienza, ambigua l'eredità lasciata dalla rivoluzione.
Per la sinistra, un tentativo generoso e perfino ingenuo di costruire una democrazia basata sulla giustizia sociale fu soffocato da una sporca guerra di aggressione perpetrata dagli Stati Uniti, cioè dal presidente Reagan, campione della destra ultraconservatrice.
Per la destra, il tentativo egemonico dei sandinisti mirava a costruire un regime di stampo cubano: i sandinisti hanno soffocato la libertà promessa e rovinato l'economia, hanno contribuito alla divisione del paese e sono crollati più o meno come tutti i regimi comunisti europei.
Questo è quello che si sente ripetere a tutti i livelli, dall'intellettuale al campesino, dal politico al mendicante. Giudizi contrapposti, versioni schizofreniche, a prescindere dal livello culturale e sociale. Comunque un bello stimolo ad andare oltre i luoghi comuni.
Il primo riguarda la guerra. Gente come Ken Loach (il regista di “La canzone di Carla”) non ha dubbi: da una parte il popolo, povero e nobile, con i sandinisti; dall'altra, un esercito di somozisti schifosi e crudeli, finanziati dalla CIA. Della serie: la verità è solo la verità del cuore. Però poi uno incontra alcuni contadini poverissimi che ti dicono che molti di loro, negli anni Ottanta, stavano con la famigerata “Contra” (abbreviazione di Contrarevoluciòn). Quando le testimonianze si moltiplicano, aumentano i dubbi. Com'è possibile? Dopo la riforma agraria, la crociata per l'alfabetizzazione, la scuola e la sanità gratuite, come si spiega un fenomeno del genere? Per i sandinisti “ortodossi” (vedi l'intervista a Bayardo Arce) non si spiega. Per i sandinisti critici (considerati “traditori”), come Sergio Ramìrez, autore del libro “Adiòs muchachos”, che è un po' il caso letterario dell'anno in Nicaragua, qualche possibile spiegazione c'è.
La questione della terra, per esempio. Per i sandinisti, la terra doveva essere proprietà dello Stato, utilizzata dalle cooperative (le “Unidades de producciòn agropecuaria”), e non divisa fra i contadini, che non dovevano avere accesso alla proprietà individuale. “Fu un errore che doveva costare sangue - scrive Sergio Ramìrez - perché la rivoluzione , violando la più sacra delle sue promesse, produceva la prima delle sue grandi delusioni”.
Ramìrez, che è uno dei leader storici dei sandinisti, ammette che l'élite rivoluzionaria, per la sua estrazione socio-culturale, non sapeva riconoscere a fondo i bisogni di una realtà rurale profonda e legata alla tradizione. Il caso più emblematico è stato quello degli indios Mizkito, una piccola etnia tendenzialmente anglofona della costa atlantica del Nicaragua, che combatterono contro i sandinisti per difendere la loro autonomia.
“Una guerra non può essere imposta solo dall'esterno, neanche dagli Stati Uniti - sostiene un esponente della Chiesa cattolica - lo dimostra l'esempio del Vietnam”. Per quanto inserito nel contesto della Guerra fredda, il conflitto degli anni Ottanta è l'ennesima guerra civile del Nicaragua, anche se i sandinisti vecchio stampo non lo ammetteranno mai. Come non ammetteranno mai che, se da un lato la guerra ha dissanguato il paese, impedendogli di raggiungere almeno i grandi risultati sociali ottenuti dal castrismo a Cuba, dall'altro ha rafforzato in modo incredibile il potere dei dirigenti sul partito e del partito sulla società, alienandogli però il consenso della maggioranza del popolo.
Al momento della sconfitta elettorale del 1990, i sandinisti controllavano praticamente tutto: l'esercito, la polizia, i sindacati, i mezzi di comunicazione. La transizione è stata lenta e faticosa, e non è ancora finita. E' in questa fase che avviene il tradimento più clamoroso degli ideali della rivoluzione: con l'approvazione delle leggi speciali 85, 86 e 88, passate alla storia come le leggi della pinata. La pinata, nel linguaggio popolare, è l'equivalente della “pentolaccia” o della “cuccagna”. Con quelle leggi, i sandinisti ufficialmente tutelarono le proprietà confiscate e ridistribuite durante la rivoluzione. Più concretamente si garantirono le loro ricchezze personali.
I guerriglieri cresciuti nella filosofia marxista - leninista, si sono “sputtanati” proprio sulla proprietà privata. Gli alti dirigenti del FSLN (Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale) si sono aggiunti alle famiglie che da sempre gestiscono la ricchezza del paese (i Chamorro, i Lacayo, eccetera). Solo la guida indiscusso del partito e della rivoluzione, Daniel Ortega, sembra essersi mantenuto fuori dalla “cuccagna”, ma i soldi in compenso li ha fatti il fratello Humberto, capo supremo dell'esercito fino al 1995, oggi imprenditore di successo in Costarica.
Sulla proprietà (della terra, degli immobili, delle imprese) si è aperto un contenzioso interminabile, che va avanti da dieci anni. Nella totale incertezza del diritto (che si riscontra a tutti i livelli), prevalgono ovviamente i più forti (ci sono vecchi proprietari che hanno chiesto e ottenuta la cittadinanza USA per potersi “difendere” meglio). Le campagne, che avrebbero grandissime potenzialità per una popolazione di soli cinque milioni di abitanti, sono in uno stato di abbandono incredibile. Arnoldo Alemàn è un presidente impresentabile: da sindaco di Managua prima e da capo di stato poi ha aumentato il suo patrimonio personale del 900 per cento, secondo un'indagine del “Controlor” (l'equivalente della Corte dei Conti in Italia).
Ma Daniel Ortega non lo incalza sulla questione morale e giudiziaria, anche perché si è avvalso dell'immunità parlamentare per sottrarsi al processo intentato dalla figlia della sua compagna, Zoilamerica Narvaez Murillo, che lo accusa di averla violentata quando era una ragazzina. Pur non avendo cambiato di una virgola i toni da leader rivoluzionario, e gli atteggiamenti (la sede del FSLN sembra una caserma, chiusa ad ogni visitatore e sorvegliata da soldati armati di mitra) Ortega adotta da tempo una politica consociativa con il governo definito sprezzantemente “somozista”.
Considerando lo scarso peso morale e l'ambiguità degli esponenti sandinisti (gli altri, i liberali, non sono neanche da prendere in considerazione), non c'è da stupirsi se il Nicaragua appare tutto rivolto al passato, senza idee e soprattutto senza modelli per il futuro.
E' un vuoto enorme, che si avverte soprattutto nelle basi della società: la famiglia, la scuola e la chiesa. La chiesa cattolica nicaraguense è rappresentata perfettamente, a livello di vertice, dal cardinale Obando y Bravo, il mediatore dei mediatori, incapace di andare oltre un moderatismo endemico ( e filogovernativo). A livello di base, se mai c'è stato lo slancio generoso della Teologia di Liberazione, ci si chiede dove sia andato a finire. I sacerdoti sono pochissimi, la religiosità della gente è una delle più spente dell'area latinoamericana. Il Nicaragua è davvero terra di missione.
L'istruzione è il problema numero uno: se i sandinisti hanno incredibilmente gonfiato i risultati della “crociata dell'alfabetizzazione” e della scuola per tutti, le politiche neoliberiste dell'ultimo decennio hanno affossato quello che resta il primo e più importante fattore di sviluppo di una nazione.
Ma il disagio profondo del Nicaragua si esprime all'interno della famiglia.
“E' l'assenza della figura paterna il dato che pesa più di ogni altro” spiega il rappresentante della UNICEF per il Nicaragua Bernt Aasen, norvegese. Il nucleo familiare è spesso costituito da una madre giovane o giovanissima, dai figli e da compagni saltuari. Le unioni di fatto sono una costante tradizionale, così come è tradizionale il mantenere relazioni con una pluralità di donne, magari una ufficiale, e altre “ufficiose”, con figli legittimi e naturali.
L'eredità della storia più recente riguarda la generazione di adolescenti che si trovò a combattere o ad avere responsabilità politiche e sociali negli anni Ottanta (i sandinisti abbassarono la maggior età a 16 anni). Una generazione bruciata. Cresciuti per forza prima del tempo, indottrinati dall'epica rivoluzionaria, i trentenni di oggi si sono ritrovati incapaci di gestire la normalità. I loro problemi sono stati acuiti da una disoccupazione che arriva a punte del settanta per cento. Sono padri incapaci di costituire un modello. Il tradimento dello spirito rivoluzionario è anche il tradimento di una generazione, quella dei cinquantenni, gli eroi della lotta guerrigliera. Un processo analogo a quello che si è verificato in Europa con i “sessantottini”, che, integrati quasi tutti perfettamente nel modello dominante, si permettono ancora di dare lezioni di vita ricordando “quegli anni formidabili”.
I ventenni, in Nicaragua, contrariamente a quello che accade da noi, per ora continuano ad ascoltarli. Quanto meno ragazzi come quelli della “Gioventù Sandinista” di Jinotepe. Preparati, entusiasti, curiosi, “tosti”. Forse ancora troppo poco critici nei confronti dei loro “padri”. Forse ancora un po' schiacciati dai miti del passato. Magari sarà necessario che assistano alla terza sconfitta consecutiva del FLSN (elezioni del 2001) perché decidano di mandare in pensione chi continua a sentirsi insostituibile e non lo è, chi continua a essere rivoluzionario a parole e più realista del re nei fatti. Di questa generazione, in ogni caso, ci si può fidare.
Cesare Sangalli


Incontro con Bayardo Arce, dirigente sandinista
Fregati dalla “vipera”
Sconcertante. Questa è la sensazione di fronte alla persona e a quello che dice. Bayardo Arce, 50 anni, è stato sempre nella sala dei bottoni della rivoluzione, cioè nella Direzione generale del partito. E' uno del “Gruppo dei nove”, i nove capi guerriglieri che guidarono il FLSN alla vittoria contro Somoza. Ma non comunica l'orgoglio dei militari, e non cede mai alla tentazione di mitizzare il passato. O forse lo fa, ma nel modo che non ti aspetti. Parla del sandinismo come di un “marxismo tropicale”, presentando una visione moderata della rivoluzione: loro volevano “una società pluralista”, “un'economia mista”, “con le garanzie dei diritti individuali” e “alleanze con tutti i paesi”. Reagan avrebbe lottato contro una socialdemocrazia nascente, proprio perché non voleva che quel modello, e non una nuova Cuba, si affermasse in Centro America.
Idealista rivoluzionario o moderato pentito? C'è o ci fa? Come definire uno che giudica “romantica” l'idea che i poveri dovrebbero votare naturalmente per la sinistra? Un ex guerrigliero comunista che fa studiare i suoi figli nelle scuole private e cattoliche? Inutile cercare risposte. Il comandante Arce, come i suoi ancora lo chiamano, è sfuggente, come tutta la dirigenza sandinista.

Partiamo dalla sconfitta inaspettata alle elezioni del 1990. Come la spiegate, a distanza di tempo?
Il fattore fondamentale della sconfitta è che la capacità di resistenza del popolo nicaraguense, dopo sei anni di aggressione nordamericana, era arrivata ad un limite. La gente era sfinita dalla guerra. Il presidente Bush lasciò intendere che se avessimo vinto le elezioni, non ci sarebbe stata la pace. E comunque fummo sconfitti di misura, il paese era sostanzialmente spaccato in due.

E la sconfitta alle elezioni del '96? La guerra ormai era solo un ricordo...
R - Nel '96 ci sono stati brogli clamorosi. Certo, Alemàn aveva una bella fetta di elettorato dalla sua parte, ma come minimo si doveva andare al ballottaggio. Poi c'è stato l'appoggio della Chiesa, attraverso il cardinale Obando y Bravo, che, a campagna elettorale chiusa, ha celebrato una messa presenziata da Alemàn, raccontando la ormai famosa “parabola della vipera” ( una parabola inventata di sana pianta, in cui un uomo che ha aiutato una vipera ferita, viene comunque morso, perché la vipera non può smentire la sua natura - allusione ai sandinisti - N.d.A). La messa fu trasmessa dalla televisione e l'omelia di Obando influenzò enormemente la gente, visto il modesto livello culturale della maggioranza delle persone..

Ma non era normale aspettarsi, in un paese così povero, che dopo sei anni di politiche liberiste la gente avrebbe optato per un cambio radicale?
L'idea che i poveri debbano votare automaticamente a sinistra è un'idea romantica...La sinistra altrimenti governerebbe in tutto il mondo.. (a nulla vale l'obiezione che i poveri nei paesi occidentali sono una minoranza N.d.A.). E poi c'è una mentalità arretrata che non è cambiata, perché occorre molto tempo per modificarla...Non tutte le scelte della gente sono comprensibili. Pensa che c'è anche chi si lascia morire pur di non accettare una trasfusione... (immagino alluda ai Testimoni di Geova N.d.A)

E' d'accordo con chi sostiene che se Daniel Ortega si candiderà per la terza volta, i sandinisti non hanno nessuna possibilità di vincere le elezioni?
R - Non lo so, è prematuro parlare della candidatura alle presidenziali. Prima dobbiamo affrontare le elezioni comunali del 2000. L'esito di queste elezioni certamente influenzerà il dibattito sulla candidatura presidenziale. Resta comunque il fatto che oggi Daniel Ortega è il leader più carismatico di tutto il Nicaragua, e non solo del FSLN.

Crede che ci siano alternative al modello culturale dominante, quello del consumismo targato USA?
R- Durante la rivoluzione ci siamo posti il problema di come sottrarci al modello culturale nordamericano. Ma eravamo già in ritardo, perché la Storia, con la diffusione dei “mass media”, andava in senso opposto. Non si poteva impedire questo processo. Abbiamo cercato di conviverci. Io non ho neanche provato a indottrinare i miei figli. Loro sono semplicemente diversi da noi, appartengono ad un'altra epoca. Loro sono la generazione di Internet...