Reportages
…siamo la nostra lingua e la nostra religione
«Avanti, distruggete l'Armenia. Vediamo se ci riuscirete. Mandateli nel deserto senza pane o acqua. Distruggete le loro case e chiese. Poi vedrete se non rideranno, canteranno, e pregheranno ancora. Perché quando due o tre di loro si incontrano da qualche parte nel mondo, vedrete se non creeranno una nuova Armenia.»
Le parole di William Saroyan, scrittore americano di origine armena, bene inquadrano la dimensione interiore di un popolo e la parabola della sua storia ultra millenaria. Di un grande impero bagnato da tre mari, Mediterraneo, Caspio e Nero, esteso dalla Cappadocia al Caucaso alla Persia, ora resta una piccola nazione, ma soprattutto una lingua e una religione, da sempre gli strumenti più efficaci per il mantenere un'identità condivisa, quale che sia il posto nel mondo in cui ci si trovi.
Non a caso la chiesa apostolica Armena è una delle la più antiche, la prima, nel 311 d.c., ad essere proclamata religione di stato da Tiridate III, mentre Mesrop Mashots, inventore dell'alfabeto un secolo dopo, (sempre in funzione della diffusione della religione) proclamato santo, è celebrato come un eroe: la nostra patria è a nostra lingua.
Al di là di tutte le varie ipotesi e leggende, prodigi e miracoli tramandati circa la cristianizzazione, verosimilmente si trattò di una decisione necessaria per rinsaldare l'identità nazionale di un popolo sottoposto continuamente a dominazioni straniere e al conseguente rischio di assimilazione culturale.
La diffusione delle sacre scritture procedette parallela con quella della nuova lingua, differenziando immediatamente l'Armenia dai potentati che la circondavano.
Il sistema ha retto per secoli, fino ai settanta anni di regime sovietico, gli ultimi che non sono riusciti a strappare queste millenarie radici, solide come gli oltre 30.000 Khatchkar, croci-pietra scolpite, ognuna diversa dall'altra.
Oggi la maggior parte dei numerosi fedeli che affollano le nuove chiese e gli spettacolari monasteri restaurati, ha meno di 40 anni. Partecipano a messe cantate che durano ore, in piedi, entrano ed escono, pregano e conversano con gli amici fra le candele, avvolti dall'incenso e dal suono ipnotico delle campane.
Quasi la liturgia dell'essere ancora Armeni.
Il momento determinante per la nascita dell'Armenia contemporanea coincide con una delle pagine più tragiche della storia moderna. Dopo niente sarà più come prima.
Già dal 1909, con l'arrivo al potere dei Giovani Turchi in un impero Ottomano in disfacimento, ma soprattutto dal 1914 al 1920, esplode la follia in nome di un illusorio nazionalismo panturco misto a “ Turanismo” (quando tutti i popoli di lingua turca saranno uniti in una stessa entità nazionale estesa dall'Asia Centrale al Mediterraneo, ritornerà l'età dell'oro in cui Turan, l'antenato dei Turchi, lottava contro Ario, l'antenato degli Ariani e estendeva il suo dominio su tutta l'Asia).
Pianificato e messo in atto quasi scientificamente, città per città, casa per casa, il Metz Yeghern, il Grande Male, il primo genocidio del XX secolo colpì oltre un milione e mezzo di Armeni, trucidati nei modi più atroci.
La dispersione per il mondo dei pochi sopravvissuti fu inevitabile.
Oggi, a fronte dei tre milioni in patria, sono otto milioni gli Armeni che vivono all'estero, dall'Europa agli Stati Uniti, dal Sud America al Medio Oriente, all'Australia, condividono la stessa lingua, la stessa religione da cui un senso di appartenenza estremamente radicalizzato, ma anche una opportunità concreta di sviluppo negli anni del rilancio post sovietico.
La neonata Repubblica Armena era uno stato ridotto alla fame, i contraccolpi del terremoto del 1988 (25.000 vittime) e il disfacimento dell'Urss ebbero effetti devastanti su un'economia fino ad allora abbastanza stabile. Furono anni di vera e propria carestia.
Materie prime, capitali, scambi commerciali, fonti energetiche e quant'altro era gestito da Mosca improvvisamente venne a mancare, anche se si trovarono le risorse per la guerra contro l'Azerbaigian per il Nagorno Karabakh, con la conseguenza di un blocco da parte degli Azeri del flusso di petrolio e di gas.
Gli anni novanta furono quindi drammatici, anche per tutta una serie di scelte disastrose da parte del primo Presidente armeno, eletto per due mandati, Ter-Petrossian. Il mancato colpo di stato del 1998, (Presidente Robert Kocharian) con l'assalto all'Assemblea Nazionale e l'uccisione di otto parlamentari, ha rappresentato il punto di non ritorno per avviare davvero tutta una serie di riforme in campo sociale, politico e economico.
Con il sostegno del Fondo Monetario Internazionale, (forse un po' troppo mirato alle privatizzazioni), si è potuto comunque creare un'economia di mercato da cui è scaturita una crescita costante del PIL, per la cosiddetta “tigre caucasica”, con tassi anche a doppia cifra, almeno fino alla crisi del 2009.
Telecomunicazioni, tecnologie informatiche e turismo sono stati i settori trainanti e i giacimenti di molibdeno, oro, rame e zinco hanno dato un forte impulso alle esportazioni dirette, ma anche al rilancio dell'industria siderurgica. Nonostante le proteste di neonati movimenti ambientalisti, la necessità di materie è diventata una ragione di stato, estrazione selvaggia a discapito di montagne sventrate e interi boschi abbattuti.
Il maggiore partner commerciale è ancora sicuramente la Russia, ma molto importanti sono anche l'Unione Europea, oltre la Cina e l'Iran.
Il problema più evidente rimane comunque quello della distribuzione della ricchezza, con la capitale Yerevan che da sola produce il 40% del prodotto interno, mentre nelle altre regioni si riscontra un'indigenza diffusa, soprattutto nelle zone maggiormente isolate.
Un fenomeno però determinante, soprattutto a livello psicologico, oltre che per i dollari o rubli investiti, è stato quello delle rimesse del popolo armeno oltre confine, sia i lavoratori emigrati all'estero, ma in particolare i figli della diaspora che contribuiscono a importanti opere attraverso organizzazioni di beneficienza o fondazioni. Creando un senso di fiducia e di speranza dopo le difficoltà e le sofferenze post indipendenza hanno contribuito a risollevare il paese.
Secondo un detto locale se l'Azerbaigian ha il petrolio, l'Armenia ha Kirk Kerkorian…
Magnate americano dei casinò, degli hotel, del cinema, (sua la Metro Goldwyn Mayer), Kerkorian rappresenta meglio di chiunque altro questo spirito di appartenenza ad un unico popolo. Attraverso la Lincy Foundation ha speso oltre 200 milioni di dollari in infrastrutture a Yerevan e in altre regioni del paese, costruendo strade, ma soprattutto case per i senzatetto a causa del terremoto del 1988, oltre che altre iniziative sociali e economiche a supporto delle imprese locali.
Come lui Gerald Cafesjian, imprenditore dei media e comunicazioni, che ha investito decine di milioni di dollari nella spettacolare riqualificazione della Cascata.
La bruttissima struttura in cemento, progettata per la celebrazione del Soviet dell'Armenia e poi abbandonata, ora sale su una altura di Yerevan quasi come un giardino, mentre all'interno è stato allestito un centro artistico di grande pregio, con teatri e sale espositive e gallerie d'arte (il primo incontro è con Cat, opera di Fernando Botero).
Dall'alto si gode una splendida veduta da una parte sul Monte Ararat, oltre il confine con la Turchia, dall'altra, sul Memoriale del Genocidio.
Agob Jack Abolakian, figlio di rifugiati armeni in Siria, è successivamente emigrato in Australia, dove è diventato ricco con l'edilizia. Nel 1999, in vacanza con la moglie si rende conto che a Stepanakert praticamente non esistono hotel.
Un anno dopo riesce a farsi dare da funzionari locali una scuola bombardata che lui trasforma in un albergo con le pareti curiosamente decorate con immagini di canguri, Ayers Rock o l'Opera House di Sydney.
Dopo vari investimenti anche nell'agricoltura, ha in progetto una fabbrica di mattoni, e poi la costruzione di condomini con standard di vivibilità occidentali.Oggi l'Armenia è una repubblica parlamentare presidenziale. Alle elezioni svoltesi il 6 maggio 2013 i l duo del presidente Serzh Sargsyan e del primo ministro Tigran Sargsyan , entrambi del Partito Repubblicano Armeno (HHK), ha retto estremamente bene il colpo delle urne, portando a casa il 44,8% dei voti (era il 34% nel 2007), così come il suo compagno di coalizione , il partito Armenia Prospera (BHK), legato all'ex presidente Kocharyan, raddoppia i consensi passando dal 15% al 30%. Solo il terzo partito della coalizione di governo, Stato di Diritto (OEK) perde qualcosa. Le opposizioni entrano tutte in parlamento ma con poche prospettive di cambiamento.
La scommessa principale, per l'Armenia tanto quanto per i suoi interlocutori internazionali (UE in testa), era che le elezioni si dimostrassero “ free and fair ” , libere e competitive, così da legittimare il governo e porre le basi per un rafforzamento della democrazia nel paese. Migliaia di giovani hanno provato a vigilare come osservatori volontari sulle operazioni di voto e di spoglio. Ancora non c'è una svolta ma i risultati mostrano un miglioramento.
Questo forse è il dato più incoraggiante: la consapevolezza che non si possa più tollerare, anche se continua ad accadere, ciò che prima era considerato normale.
Con i brogli, il voto di scambio, la corruzione, difficilmente Bruxelles potrà garantire la partecipazione dell'Armenia alla piattaforma del Partenariato Orientale della Comunità Europea, con tutto quello che potrebbe conseguirne visti i fondamentali rapporti commerciali con l'UE.
Dopo essere stata per secoli terra di conquista l'Armenia ora ha in mano il proprio destino e l'opportunità di essere una democrazia compiuta.
Nagorno Karabakh
Un enigma nascosto nel cuore del Caucaso.
Il Nagorno Karabakh è un condensato di genti, cultura e religione armeni racchiuso entro i confini dell'Azerbaigian, di cui fa formalmente parte secondo i protocolli internazionali.
Mai riconosciuto come stato sovrano, se non dall'Armenia che ne controlla di fatto il territorio e l'unico confine aperto, si è auto-proclamato indipendente il 6 gennaio 1992. La guerra che ne è scaturita fra Azeri e Armeno-Karabakhi ha lasciato profonde ferite nel paesaggio e fra le persone, ma la vita continua e si ricostruisce pietra su pietra un'anima particolare e controversa.
La cosa davvero paradossale, probabilmente, è la pretesa di uno stato di esistere a tutti i costi proprio nel luogo dove Oriente e Occidente si incontrano, dove Islam e Cristianesimo si danno la mano, o magari si sparano. Difficile, lì lungo l'antica via della seta, traccia millenaria di commercio e di scambi, commistione di popoli e culture, avere una identità propria.
Non a caso il nome stesso è una sintesi di tutto questo: Nagorno in russo significa montagnoso, Kara nero in turco, Bakh giardino in persiano, ma la gente del posto chiama il proprio paese Artskh.
E Artskh è costato trentamila morti e migliaia di dispersi, distruzione e rovine che ancora marcano le città. E un milione di profughi, anche Azeri, allo sbando fra le valli del Caucaso.
Fra le strade di Shushi, Martuni e Agdam, i palazzi sventrati e anneriti sono ferite aperte, cicatrici che non si rimarginano. Dalle moschee solo i minareti si innalzano perché all'epoca utili ai cecchini, tutto intorno macerie, rovi e erba alta, nemmeno le capre ci pascolano più, come se percepissero ancora l'odore delle sanguinose battaglie infuriate casa per casa, ora scheletrici monumenti alla follia dell'uomo, come in qualsiasi altro teatro di guerra.
La diplomazia mondiale è sempre al lavoro per una soluzione alla questione del Caucaso, se non per ragioni umanitarie o di diritto internazionale, almeno per opportunità politico-economiche, e di equilibri di potere.
Le ultime notizie parlano di un rinnovato interesse e apertura da parte della Turchia ma soprattutto dell'Iran, in una delicata partita sullo scacchiere geopolitico con Stati Uniti e Unione Sovietica.
Il problema fondamentale, a questo punto, è che si sta tentando una via diplomatica per una pace mai firmata, lasciando però fuori proprio i Karabakhi, come denunciato dal ministro degli esteri Mirzoyvan, secondo cui un più diretto coinvolgimento dei vertici del piccolo stato potrebbe favorire una risoluzione pacifica tra le parti.
Invece, solo le diplomazie armene e azere sono state ammesse allo riapertura dei lavori del Gruppo di Minsk, una struttura creata dalla OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) nel 1992, con lo scopo di facilitare una soluzione pacifica tra la regione e l'Azerbaijan.
Il Nk, con una economia a livelli di sussistenza e una identità politica che dire precaria è poco, si trova in una posizione troppo strategica per non rischiare di essere fagocitato in dinamiche così grandi da non potervi fare fronte.
Gasdotti da far passare, risoluzioni Onu da aggirare, atomica da nascondere, miliardi di dollari in gioco possono risucchiare ideali e aspirazioni di totale indipendenza.
Intanto, da una parte e dall'altra del filo spinato, un confine ancora armato, si continua a ammazzarsi in un cosiddetto «conflitto a bassa intensità». Si spara, ma poco, si muore forse un po' meno, ma si muore quasi tutti i giorni.
I presidenti del Gruppo di Minsk (Igor Popov, russo, Jacques Faure, francese e Ian Kelly, americano) hanno manifestato forte preoccupazione per la recrudescenza delle ostilità lungo la Linea di Contatto, il confine tra il NK e l'Azerbaijan, stabilito con gli accordi di cessate il fuoco del maggio 1994.
(Ci sono state vittime anche durante la visita in Armenia di Hillary Clinton).
La nebbia delle montagne continua a nascondere cecchini e commandos che da una parte e dall'altra cercano di snidarsi a costo della vita.
Il crollo dell'ex Unione Sovietica non ha esaurito i propri effetti e dopo anni di stallo, il Caucaso rischia di rinfiammarsi nuovamente.
A Stepanakert incontriamo Vera Grigoryan, ci offre un the nella sede dell'Associazione e del museo dei dispersi in guerra.
Una donna minuta, fiera, che da anni riesce a sopportare il dolore per la perdita del figlio organizzando incontri a volte politici, spesso di preghiera come è capitato a noi, qualcosa per tenere viva la memoria di chi ha pagato carissimo il paradosso dell'esistenza del NK.
Potrebbe essere la qualsiasi custode di un convento di cui solo lei ha la chiave, si muove tranquilla, con serena rassegnazione, determinata a illuminare un passato ormai solo reliquia, come nei monasteri di Gandzasar o di Amaras.
Ma lì ci sono solo uomini, la chiesa armena è la più antica del cristianesimo, una delle più ortodosse, baluardo di confine di fronte alle pretese musulmano-azere.
Pareti di volti, medaglie, divise e mostrine, mappe e quadri a tema. Trentamila morti e migliaia di dispersi. La vita di Vera è tutta dentro queste quattro mura, in Nzhdeh Poghots a Stepanakert, la guerra ormai, dopo averle dilaniato la famiglia, continua a tatuarle addosso il marchio di reduce.
Sorride della nostra presenza, certifichiamo che il mondo non ha dimenticato, apre le finestre per dare luce a un dolore collettivo che ancora si riflette nei volti dei pochi passanti lì fuori, molto simili a quelli delle foto che ci circondano. Il silenzio non è totale, si percepisce il suono struggente di un duduk.
I panni stesi fra i palazzi colorano il tramonto, le facce dimesse degli Artskhani affollano gli autobus che attraversano Stepanakert, belle le donne, vestiti di nero gli uomini, anche i bambini; la via principale, Azatamartikmeri Poghots è l'unico bagliore di presunta ricchezza mentre le galline tornano disordinate ai loro pollai condominiali dietro le facciate di finto benessere.
E quando comincia a fare buio ancora di più, nel silenzio, deflagra inevitabile la domanda sull'utilità di questa autoproclamata indipendenza conquistata a raffiche di kalashikov e colpi di mortaio, e che ancora nessuna Autorità Internazionale ha riconosciuto, un confine aperto solo tra il NK e l'Armenia. Il resto è filo spinato e barattoli di latta pronti a segnalare qualsiasi movimento sospetto che fa scattare il fucile di un cecchino o un coltello. La guerra è sempre in agguato, la quotidiana partita con la morte resta ancora tutta da vincere.
Michele Castelvecchi