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Pubblicato su "Galatea" ottobre 2003

Luci e ombre di una nazione che ha “dribblato” la globalizzazione

Il tango lento dell'Uruguay

Un paese diverso da tutti e orgoglioso della sua diversità. Quasi un avamposto europeo in America. Un passato idilliaco, macchiato dalla violenza dei Tupamaros e soprattutto dal terrorismo di Stato nella lunga notte della dittatura. L'Uruguay ha tranquillamente evitato i guasti della globalizzazione, ma non ha ancora cicatrizzato le sue ferite

“L'Uruguay? Un paese divino, ma non ti pagano per essere divino”. La sintesi rabbiosa è di un disoccupato che vuole sfogarsi in un bar di Montevideo. Siamo in piena estate europea, cioè in pieno inverno australe qui: la capitale dell'Uruguay langue sotto la pioggia o al sole discreto che viene dal Rio della Plata, un clima che ne aumenta il fascino e la malinconia. Il paragone inevitabile è con la vicina Argentina, con la maestosa Buenos Aires che sta sull'altra sponda del fiume, in tutta la sua spocchia messa in ginocchio dalla crisi devastante degli ultimi anni.
Montevideo in confronto sembra una cittadina di provincia, modesta e dimessa, a tratti quasi desolata, nella parte vecchia che contorna la zona del porto, con i venti freddi dell'Atlantico a spazzare un lungomare che potrebbe assomigliare al Malecòn dell'Avana, ma non ha assolutamente niente di turistico.
Il viaggiatore superficiale sembra quasi invitato ad andarsene, con poche immagini e nessun ricordo particolare. E invece. Montevideo è una città “femmina” al cento per cento, è lenta, sinuosa, imprendibile e passionale. In una sola parola, è magica. Ti seduce, in un abbraccio lungo come un tango, che probabilmente è nato qui, e non in Argentina. Lo spazio e il tempo si modificano, perché non c'è niente di nordamericano o sudamericano, da queste parti, e i ritmi sono così tranquilli che sembra di tornare a volte in un'Italia che non c'è più. L'Uruguay si chiama ufficialmente “Republica oriental del Uruguay”, e in quell'aggettivo, “oriental”, c'è forse già spiegato il suo mistero: l'Uruguay guarda sempre verso l'Europa, e potrebbe essere anche considerato il lembo più avanzato del Vecchio Continente verso ovest. Un po' come l'Argentina, ma molto più e molto meglio dell'Argentina.
Al di là del fascino letterario di una città, di un paese, di grande cultura e profondamente umanista, ci sono solide ragioni storiche e politiche a spiegare l' “eccezione Uruguay”, la sua irriducibile diversità. Innanzi tutto, questa è una zona dell'America latina trascurata dai conquistadores spagnoli: nessuna risorsa mineraria, meno che mai l'oro e l'argento che attiravano gli avventurieri europei, solo tanta terra quasi disabitata, pascoli a perdita d'occhio che richiamavano ad una sola attività: l'allevamento.
Certo i “gauchos” non furono teneri con i pochi indios presenti, ma nella sostanza non c'è stato l'incontro-scontro di civiltà che altrove ha marcato la storia sudamericana: gli uruguayani, come gli argentini, si possono definire secondo lo schema del sociologo brasiliano Darcy Ribeiro “popoli trapiantati”, a differenza dei “popoli testimoni” (discendenti dei rappresentanti delle civiltà precolombiane) e dei “popoli nuovi” (il risultato della fusione di matrici etniche africane, europee e indigene). Non a caso un detto popolare sostiene che “I messicani discendono dagli aztechi, i peruviani dagli incas, gli argentini dalle navi”. L'Uruguay in effetti faceva parte del Viceregno del Rio de la Plata, una delle quattro grandi aree coloniali spagnole, e poteva diventare semplicemente una provincia argentina, o al contrario finire sotto il dominio brasiliano. E invece no.
Fin dall'inizio, questo piccolo, indomito paese ha lottato contro i due giganti, e contro i due giganti ha definito una sua identità del tutto peculiare, anche se ad uno sguardo superficiale le analogie con l'Argentina possono sembrare superiori alle differenze. Perfino nel calcio l'Uruguay ha saputo entrare nella storia, lasciando a bocca aperta prima gli europei, con la doppia affermazione olimpica negli anni Venti a Parigi e ad Amsterdam, poi proprio gli argentini e i brasiliani (titoli mondiali del 1930 e 1950).
E fin dall'indipendenza del 1825, l'Uruguay si è addirittura diviso all'interno in due fazioni di avversari irriducibili, protagoniste di tutta la storia politica del paese fino ai nostri giorni. Due anime, due geografie, due classi sociali: la città (Montevideo) contro l'interno quasi selvaggio; i commercianti, i professionisti e i letterati contro l'orgogliosa oligarchia terriera con il suo braccio armato, i “gauchos”, mandriani fieri, libertari e violenti . La mentalità cosmopolita, internazionale della città di mare, che l'Inghilterra voleva come ricca valvola del suo import-export, contro la durezza nazionalista di chi viveva grazie alla terra e anteponeva la patria e l'identità tradizionale a qualsiasi condizionamento dall'estero. Si possono chiamare liberali e conservatori, qui si chiamarono colorados e blancos, e si fecero la guerra ai tempi di Garibaldi. L'eroe dei due mondi combatté sul Rio de la Plata contro il tentativo di annessione da parte dell'Argentina, e poi si schierò dalla parte dei liberali di Montevideo, chiamati “colorados” perché le loro bandiere erano rosse.
L'Uruguay vive quindi il suo Risorgimento in parallelo con l'Italia, ma raggiunge tutti i suoi obiettivi (politici, economici e sociali) almeno mezzo secolo prima: in questo caso il Mondo Nuovo è molto più antico della Vecchia Europa, e questo forse spiega perché questo paese è legato al suo passato come ad un sortilegio, ed è forse condannato a danzare con la Storia con il suo paso doble, la sua cadenza lenta e unica, perché quando non lo ha fatto (negli anni Settanta) è stata una tragedia. Fuori dalla metafora, le due fazioni politiche caratterizzano tutta la storia dell'Uruguay fino ad oggi, come se da noi esistessero ancora i liberali di Cavour e la sinistra garibaldina, e come se da noi governassero ancora i discendenti della famiglia Giolitti (nel caso dell'Uruguay la famiglia Batlle in particolare).
Furono comunque i “colorados” i vincitori della guerra civile. La loro visione modernista si sposò perfettamente con quella dell'Inghilterra dello splendore vittoriano di fine Ottocento: l'Uruguay esportava carni e lane pregiate per le industrie manifatturiere inglesi, che a loro volta costruivano le infrastrutture necessarie alla seconda rivoluzione industriale. Cioè la ferrovia, le navi, ma anche i primi frigoriferi per la conservazione della carne, e perfino l'industria Liebig per ricavare l'estratto di carne. Il Novecento si apriva all'insegna del nuovo, sul Rio de la Plata si cominciò a praticare il britannico football prima che in altri paesi europei, e un presidente colorado, José Battle y Ordonez, seppe cavalcare il progresso economico indirizzandolo politicamente verso uno stato sociale forte e moderno, il primo (e praticamente unico) di tutto il continente (1903-1907).
Orario lavorativo di otto ore, sussidio di disoccupazione, finanziamenti all'agricoltura, sistema pensionistico per tutti i lavoratori, e soprattutto scuola obbligatoria, gratuita e non confessionale. L'Uruguay apriva le porte agli immigrati, che sapeva integrare come pochi altri paesi al mondo, e gli italiani arrivarono in massa (secondo alcune stime gli uruguayani di origine italiana arriverebbero oggi fino al 40 per cento della popolazione). Più che un paese, un miracolo, considerando l'ambiente geografico e il periodo storico. Montevideo stabiliva la sua tradizione di città aperta a ogni idea, piccolo grande rifugio per anarchici, esuli politici, intellettuali poco graditi in patria, con una forte presenza massonica e una consistente, coltissima comunità ebraica.
Così, la piccola nazione sudamericana diventa già nella prima metà del secolo scorso un'oasi di libertà, armonia sociale e sviluppo economico in un continente tragicamente arretrato (quando l'Uruguay inaugura il suo welfare state esiste ancora la schiavitù, anche se non ufficialmente).
Ma alla fine degli anni Cinquanta, la rivoluzione cubana infiamma gli animi di tutta l'America latina, soprattutto in chiave nazionalista: l'ex “bordello degli U.S.A.” diventa il simbolo del riscatto dall'imperialismo degli yanquis, e la dimostrazione concreta che l'utopia rivoluzionaria può vincere anche a queste latitudini. Il comunismo era visto fino ad allora come una costruzione europea, un po' astratta per la realtà latinoamericana, valida più come strumento di ispirazione intellettuale che non come mezzo per cambiare la realtà. Con Fidel Castro invece ogni sogno rivoluzionario sembra pronto per essere realizzato. “La rivoluzione cubana – scrive lo storico inglese Eric Hosbawm – aveva tutto: spirito romantico, eroismo nelle montagne, ex leader studenteschi con la disinteressata generosità della loro gioventù (il più vecchio passava appena i trent'anni), un popolo festante in un paradiso turistico tropicale che pulsava a ritmo di rumba”.
Eppure, proprio Ernesto “Che” Guevara in persona, durante una visita all'università di Montevideo nel 1961, ammonì la gioventù uruguagia: l'Uruguay non aveva bisogno di nessuna rivoluzione, perché era già una democrazia avanzata, con standard notevoli di giustizia e d equità sociale.
E' difficile anche dopo molti anni riuscire a capire come si formò uno dei più formidabili e innovativi gruppi di lotta armata, destinato a costituire un modello per tutte le formazioni terroriste europee negli anni Settanta. Nessuno sa bene perché nacquero i Tupamaros, un nome che è rimasto impresso nella memoria collettiva di tutto il mondo. Una cosa è certa: non si era mai visto niente di simile prima. La rivoluzione cubana, e tutte le altre guerriglie latinoamericane, nascevano negli ambienti rurali, nelle montagne e nelle foreste dell'interno; i guerriglieri combattevano per fare uscire i campesinos dalla loro miseria, lottavano contro regimi autoritari che non lasciavano spazio alla dialettica democratica.
In Uruguay non c'era nulla di simile. I Tupamaros furono il primo caso di guerriglia urbana, portata avanti da giovani (l'età media non superava i 25 anni) provenienti dalla media e piccola borghesia, integrati da funzionari e insegnanti, con pochissimi operai e praticamente nessuno dell'ambiente rurale.
Una doppia identità, gente normale di giorno, “tupamaros” di notte. Anche se si ispirarono costantemente al marxismo-leninismo, l'ideologia non fu mai preponderante, e la linea politica piuttosto confusa. Fra i tupamaros c'erano tante componenti: della sinistra tradizionale e di quella anarchica; ex “blancos” nazionalisti, cattolici post-conciliari, e anche avventurieri tout court.
No, non c'era in origine né un'analisi corretta della società uruguayana, né un progetto rivoluzionario coerente, come spiega Alfonso Lessa nel libro “La Revoluciòn imposible”. Il vero collante fu il fascino irresistibile della violenza, l'esaltazione della lotta armata, dell'impresa coraggiosa. “Il narcisismo rivoluzionario ha bisogno, in modo viscerale e come componente della propria identità, di situazioni di violenza. Violenza praticata e violenza subita. Eroismo e martirio”. Così scrive Pablo Giussani, ex militante dei montoneros, la guerriglia peronista “gemella” dei Tupamaros.
Il mistero faceva parte del fascino che i Tupamaros esercitarono su una parte considerevole della società uruguayana nella prima fase. A partire dal '63, una strana stella a cinque punte, con una “T” al centro, cominciò a comparire sui muri di Montevideo. Nelle notti di inverno degli anni seguenti, un gruppo di giovani esplorava pazientemente e con cura la rete fognaria della capitale: sarebbe stata la via segreta delle spettacolari azioni degli anni a venire.
Le prime operazioni risalgono al 1967, e conoscono nel giro di mesi un'escalation eccezionale. Un po' Robin Hood, un po' Arsenio Lupin, i Tupamaros attaccano e svaligiano i simboli del capitalismo e quelli degli U.S.A.: dal Casinò di Punta del Este alla sede della General Motors. Colpiscono con genio e audacia, in modo pulito, senza fare una vittima: poi sono capaci di ridistribuire il denaro rubato ai coltivatori di canna da zucchero. Spiegano nei loro verbosi comunicati (proprio come le Brigate Rosse, chiaramente ispirate al modello uruguayano) la logica dei loro colpi. Puntano ad una radicalizzazione dello scontro, che nella loro visione è il preludio della rivoluzione. La risposta non tarda a venire, il presidente Pacheco comincia ad adottare misure straordinarie, a governare con la forza svuotando il ruolo del Parlamento. Tutti stanno facendo un gioco più grande di loro. Eppure il “Che” era stato esplicito, pochi anni prima: “Abbiamo iniziato il cammino della lotta armata, un cammino molto triste, molto doloroso, che ha seminato di morti tutto il territorio nazionale, quando non si poté fare nient'altro. Quando si comincia con il primo sparo, non si sa mai quando ci sarà l'ultimo…”.
Dalle cose si passa alle persone: i tupamaros si specializzano nei sequestri, per il momento in cambio di soldi. Poi cominciano i processi ai sequestrati, il rito giudiziario inutile dei tribunali del popolo. La sentenza è già scritta: morte. Mentre i tupamaros si alienano le residue simpatie della gente, gli Stati Uniti non stanno certo a guardare. La loro strategia è lucida e spietata, le varie guerriglie offrono solo una splendida legittimazione, ma il vero obiettivo resta quello di impedire l'avanzata delle sinistre di ispirazione socialista in tutto il continente (il caso del Cile di Allende sarà la brutale dimostrazione di questa politica: e quando arriva il momento della verità, il presidente cileno resterà solo, “tradito” anche a sinistra dagli estremisti che lo hanno affossato e non muoveranno un dito per difenderlo).
Le due parabole (la violenza sempre più cieca dei tupamaros e la strategia di repressione di Washington) si incontrano perfettamente nel 1970, con il rapimento del funzionario dell'ambasciata americana Dan Mitrione (caso che ha ispirato il film di Costa Gravas “L'amerikano”). L'uomo è in realtà un agente della CIA, specializzato nella cosiddetta contrainsurgencia. Fra le sue mansioni, quella di istruire poliziotti e militari uruguayani alle migliori tecniche di tortura. Dopo una lunga prigionia, Mitrione viene ucciso. L'episodio segna una svolta decisiva: i Tupamaros vogliono alzare il tiro, cercano lo scontro frontale contro l'esercito, che fin lì era stato coinvolto solo marginalmente. I militari, e soprattutto gli U.S.A., non aspettano occasione migliore. Nel giro di due anni i Tupamaros vengono sbaragliati, e intanto in Uruguay la legalità ha fatto vergognosi passi indietro, di fronte allo strapotere delle uniformi garantito dalle continue misure di emergenza.
Quando i militari chiudono il parlamento, il 27 giugno 1973, il colpo di stato uccide una democrazia già moribonda. Non sono stati i tupamaros a provocare il golpe (erano già militarmente sconfitti un anno prima); ma hanno aiutato, neanche tanto paradossalmente, gli assassini e i torturatori di stato.
L'Uruguay entrava così nella lunga notte della dittatura militare, undici anni di vergogna. A trent'anni di distanza, i politici non sembrano spiegarsi perché. Il frettoloso dibattito parlamentare, in un'aula vuota per metà, difende le ragioni generali della democrazia, ribadendo che ciò che accadde non dovrà più accadere, qualcuno si azzarda a parlare di “complicità” di settori della società uruguayana, stranamente nessuno chiama mai in causa né l'esercito, né gli Stati Uniti. In momenti come questi, l'intera classe politica uruguayana sembra ammalata di consociativismo e autoreferenzialità. Le responsabilità storiche, però, non possono assolutamente essere equamente ripartite.
I più colpevoli sono indubbiamente i colorados, oggi al potere con il presidente Jorge Batlle, ennesimo rampollo della famiglia politicamente più importante del paese. I presidenti Pacheco prima e Bordaberry poi, coinvolsero sempre di più i militari nella gestione della cosa pubblica, illudendosi di poterli controllare.
Gli eterni avversari, i blancos, possono vantare all'epoca uno dei più fieri oppositori del regime, Wilson Aldunate Ferreira, il loro leader, e sono stati fra gli ultimi ad accettare l'uscita indolore (per i militari) dalla dittatura. Però hanno accettato, e da anni reggono al governo con un “compromesso storico” con gli ex avversari di sempre del partito colorado.
Resta il terzo incomodo, il partito delle sinistre unite che si chiama Frente Amplio, la maggior vittima del colpo di stato. Il Frente Amplio, al momento del golpe, era apparso da poco sulla scena politica nazionale, e rappresentava l'alternativa di sinistra allo stanco bipolarismo fra liberali e conservatori. In trent'anni è diventato il primo partito dell'Uruguay, alleandosi con la sinistra più dura di Encuentro Progresista e riciclando al suo interno gli ex-tupamaros (un classico latinoamericano); ma non riesce ad arrivare al governo per la strana alleanza fra blancos e colorados (anche se da anni stravince le elezioni a Montevideo, mentre è ancora debole nell'interno rurale del paese).
Il popolo uruguayano negli anni Settanta arretrò spaventato di fronte ad una violenza che non rientrava minimamente nel suo DNA. Forse troppo benestante per essere martire, sicuramente vittima di chi comandava veramente il gioco (in primis la CIA, che pure tenne un “basso profilo” per il piccolo Uruguay). Sfortunato il paese che ha bisogno di eroi. Però, al primo appuntamento con le urne, e cioè al referendum indetto dai militari nel 1980 per legittimare e perpetrare il regime, gli uruguayani, nonostante il clima di terrore, risposero con un netto rifiuto (che lì per lì non cambiò niente).
Il ritorno alla democrazia non fu né rapido, né molto onorevole. Fu un'operazione condotta dall'alto, dopo che erano già finiti i regimi dittatoriali in Argentina e Brasile (1984-85). Come a voler rimuovere il passato, in un altro referendum, nel 1989, si approvò la legge di amnistia per tutti i reati commessi dai militari negli undici anni di dittatura.
Però, come si dice in un film, “noi possiamo chiudere con il passato; ma è il passato che non chiude con noi”. Ed ecco riemergere, per via giudiziaria, il caso di Juan Carlos Blanco, ex senatore del Partido colorado, coinvolto nell'assassinio della maestra Elena Quinteros ad opera delle squadre della morte del regime. E' il segnale che l'Uruguay ha bisogno di cambiare, rinnovando la classe politica e cacciando finalmente all'opposizione i vecchi blancos e colorados. Perché la tranquillità a volte degenera nella putredine, e anche la sinistra ha bisogno di una bella scrollata (magari assumendo infine il governo a partire dalle elezioni del prossimo anno).
L'Uruguay si sta lentamente riprendendo da una crisi economica devastante. Se si pensa che il paese è indubbiamente meno ricco dell'Argentina, si capisce che il vecchio modello assistenzialista e statalista (l'Uruguay non ha mai vissuto la stagione delle privatizzazioni), con i suoi tanti deficit, ha retto l'urto della crisi meglio della moderna, iperliberista Argentina di Menem. Restano però una disoccupazione oltre il 20 per cento, l'inflazione al 45 per cento, un drammatico arretramento del prodotto interno lordo del 10 per cento (inferiore alla sola Argentina in tutto il continente).
E' l'altra faccia, quella più nascosta, della malinconia uruguagia. Che può diventare, a tratti, tristezza quasi disperata. In questo sì, profondamente latinoamericana, sottilmente legata tanto alla luce quanto alla tenebra. La commemorazione più bella dei trent'anni del colpo di stato, non è avvenuta né in parlamento, né sui giornali, ma in una piccola mostra all'istituto Goethe, poco pubblicizzata, e capace di colpire allo stomaco come solo l'arte riesce a fare. Si intitolava Palabras silenciosas, dai versi di un giovane poeta peruviano di nome Javier Heraud, ucciso a 21 anni come guerrigliero.
“PAROLE SILENZIOSE/ …E la poesia è / un lampo meraviglioso, una pioggia di parole silenziose / un bosco di battiti e di speranze…/ …E la poesia è allora, / l'amore, la morte, / la redenzione dell'uomo”.

Cesare Sangalli