Reportages - Kirghizistan

 

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Foto di Camilla Miliani
Articolo di Cesare Sangalli

La lezione silenziosa di un piccolo paese vicino della Cina
Kirghizistan, altro che Nuova Via della Seta





La “Belt and Road Initiative”, o  Nuova Via della Seta, lanciata dalla Cina, dovrebbe fare qui una delle sue prime tappe. Ma per il momento non ce n’è traccia. Per il Kirghizistan è meglio così, anche perché ospita da anni gli uiguri che fuggono dalle persecuzioni in Xinjang.

BISHKEK - “Hic manebimus optime” (“qui staremo benissimo”),potrebbe essere il motto del Kirghizistan. A indicare l’atteggiamento di chi non si sposta, di chi non si lascia travolgere o dominare, di chi si ferma per resistere. Forse questa lentezza rispetto ai cambiamenti globali è normale per un popolo formato in buona parte da nomadi, abituati a girovagare per queste terre fertili e bellissime, circondate da montagne innevate che sembrano proteggere tutto il paese, a partire dalla capitale Bishkek , come in un abbraccio.
E’ tanto bello quanto sconosciuto, il Kirghizistan, riservato ad un turismo sportivo e “alternativo”, che tende a innamorarsi di questo posto e di questa gente, e a ritornare, magari facendo proseliti con il passaparola. La promozione dell’immagine è modestissima, il Kirghizistan sembra ancora dover scoprire il marketing, imparare cioè a vendere l’immagine di sé, che poi spesso diventa vendersi (l’anima). Nessuno in Italia sembra conoscerlo, anche se gli italiani non mancano, da queste parti.
Il Kirghizistan non pare minimamente preoccupato di farsi conoscere dal mondo. Per fortuna, verrebbe da dire, per quanto il turismo stia crescendo di anno in anno, ed è comunque una manna per un paese povero, 1.100 dollari di PIL pro capite, 120° nella classifica dello sviluppo umano (anche se per quello che si vede si direbbe più avanti): i kirghisi non sembrano affatto presi dall’ossessione del business, appaiono immuni dalla trappola lavoro/soldi, soldi/lavoro.
“ Il Kirghizistan vive sostanzialmente delle rimesse dei suoi emigrati in Kazakistan e in Russia, di una delle più grandi miniere d’oro del mondo, e di un po’ di turismo”, dice un dirigente italiano di un’agenzia delle Nazioni Unite. E aggiunge: “questo paese è dipendente dalla Russia, economicamente e politicamente, nel senso che Mosca lo protegge dalla Cina”. Ecco, la situazione geopolitica sta tutta qui, e in questo il Kirghizistan ricorda moltissimo la Mongolia, altro paese libero e accogliente nel cuore dell’Asia.  Da queste parti infatti si gioca il “derby” Russia-Cina. La Cina investe, costruisce (le strade, per esempio), esporta prodotti industriali. Ma alla fine, è la Russia a prevalere, qui anche più che in Mongolia: infatti, se i mongoli hanno vissuto in un paese satellite dell’Unione Sovietica, i kirghisi ne hanno fatto parte integrante. Qui non ci sono soltanto le lettere dell’alfabeto cirillico, come in Mongolia: qui tutti parlano russo, che è lingua ufficiale insieme al kirghiso. Ma proprio come per i “cugini” mongoli, la propensione al nomadismo sembra aver inculcato nella popolazione un senso profondo di libertà. E se la Mongolia è considerata una delle poche democrazie compiute di tutta l’Asia, il Kirghizistan è sicuramente il paese più democratico e libero, con tutte le sue notevoli contraddizioni, di tutti gli “stan” ex sovietici. Incomparabile, il Kirghizistan, ai suoi vicini. Anche qui c’è stato il classico presidente che proveniva dall’apparato del PCUS, e aspirava probabilmente a diventare, se non un autocrate come il defunto Karimov nel vicino Uzbekistan, o Nazarbayev nel ricco confinante Kazakistan, qualcosa di molto simile. L’aspirante presidentissimo si chiamava Akayev, e in realtà era uno scienziato emerso con la perestroika di Gorbaciov; ma aveva imparato in fretta l’arte del potere, dominando la scena politica per 15 anni, all’insegna del familismo amorale. L’Occidente lo considerava un pupillo da aiutare: non a caso il Kirghizistan, indipendente dalla dissoluzione dell’URSS (1991), è stato il primo paese ex sovietico dell’Asia centrale ad adottare una valuta nazionale (il som), abbandonando il rublo, e ad entrare nel WTO, l’organizzazione mondiale del commercio, agli inizi del nuovo secolo.
Sotto la lunga presidenza di Akayev, il Kirghizistan stabilì un altro primato: divenne l’unico paese al mondo ad ospitare contemporaneamente una base militare americana (a Manas) e una russa (a Kant).  Agli USA servivano degli avamposti per l’intervento in Afghanistan: ottennero una base in Uzbekistan e una qui. Al Kirghizistan bastava avere i soldi della concessione, tanto da Washington quanto da Mosca. Ma le promesse di sviluppo, a prescindere dai rubli e dai dollari ricevuti, sono sempre rimaste tali.
La gente aveva perso tutte le garanzie del vecchio sistema sovietico; i russi che formavano la nomenklatura, quelli con più capacità, avevano lasciato quasi subito la capitale, dove erano concentrati, una cittàpassata  dal nome russo di Frunze (che per le compagnie aeree vale ancora) a quello antico di Bishkek. Qui rimase solo la manovalanza, quelli che non avevano migliori occasioni in Russia: ancora oggi sono oltre il sei per cento della popolazione: con qualche eccezione, non vivono bene la situazione precaria, e spesso affogano i problemi nella vodka (diffusa anche fra i kirghisi, nonostante la religione islamica; però molti preferiscono le tradizionali bevande di latte di cavalla o frumento fermentati, sia alcolici che non, che si vendono un po’ a tutti gli angoli delle strade, in città). 
Ma l’emigrazione verso realtà più benestanti non era una valvola di sfogo sufficiente;e il ruolo dello Stato sempre troppo debole, per una popolazione tendenzialmente anarchica,  legata più alla famiglia e ai clan che alle istituzioni.Così, la rabbia verso il governo, la sua corruzione diffusa, il plateale nepotismo di Akayev, portò alla prima delle due rivoluzioni, quella dei Tulipani (2005). La stessa definizione floreale ha indotto molti commentatori a paragonarla ad altre “rivoluzioni colorate” (quella “delle rose” in Georgia su tutte), dove c’era lo zampino della CIA. In realtà, i fattori interni, cioè le mire di un altro gruppo politico, quello di Bakiyev, di origine diversa rispetto ad Akayev  (cioè proveniente dal Sud del paese, molto più povero, arretrato e “islamizzato”) probabilmente pesarono molto di più. Fatto sta che Akayev viene cacciato a furor di polo, e trova rifugio in Kazakistan. Ma Bakiyev fa esattamente le stesse cose del predecessore,e cinque anni dopo è lui il bersaglio della sollevazione popolare. I moti del 2010 sono stati decisamente più violenti, e hanno procurato più vittime. Ma la vera differenza rispetto alla “Rivoluzione dei Tulipani” la fa una donna, Roza Otunbayeva, che si può considerare la madre della giovane (e largamente imperfetta) democrazia kirghisa.
Otunbayeva, come tutte le donne kirghise in politica (sfortunatamente una minoranza), è molto più in gamba della stragrande maggioranza dei colleghi maschi. Ha un curriculum ineccepibile: è stata una vera “compagna”, con tanto di tesi in filosofia sul marxismo di Marcuse; parla quattro lingue, si è occupata di esteri fin dai tempi di Gorbaciov. E’ stimata tanto in patria che fuori; ed è immune dalle brame di potere di tanti colleghi, oltre a essere incorruttibile: è durante la sua presidenza ad interim che si approva la nuova costituzione, con più poteri al parlamento e meno al presidente; ed è sotto il suo controllo che si svolgono le nuove elezioni, legislative e presidenziali (2011), che saranno pacifiche e sostanzialmente regolari; le elezioni inaugurano un nuovo corso che si sta consolidando, pur fra mille problemi, e nonostante le persistenti ombre del passato di stile “mafioso”: basti pensare che l’ex presidente Atambayev, che ha accettato nel 2017la sconfitta nelle urne e il passaggio di consegne con l’attuale presidente Jeenbekov, qualche mese fasi è barricato in casa, protetto dalla sua scorta, per sfuggire al mandato di arresto per corruzione. Dopo svariate ore di scontro a fuoco, si è finalmente arreso, e si è consegnato alla giustizia.
Insomma, la politica è ancora terreno di caccia per gente spregiudicata. Ma in tutto questo, la libertà avanza a passi da gigante, e si respira ovunque, a partire dall’atteggiamento di apertura ai visitatori (non servono visti per i cittadini UE, si entra e si esce tranquillamente da un paese che è a due passi da aree fra le più a rischio del mondo – Afghanistan, Pakistan, Kashmir -).
Bishkek, sottovalutata come una delle tante città post sovietiche, ti avvolge subito in questa atmosfera rilassata, nei suoi locali aperti alle tendenze più moderne (compreso un interessante “funky” kirghiso), unite alla fierezza della cucina e degli usi tradizionali,a partire dal mitico copricapo kirghiso, indossato con la stessa nonchalance con cui gruppi di ragazze di religione musulmana vestono in minigonna, girano da sole anche la sera, si siedono nei locali, fumano con disinvoltura. Ci sono anche donne velate (non molte) e perfino qualche donna intabarrata nella veste nera col volto coperto e ,certo, i finanziamenti per le moschee da parte di Arabia Saudita e Turchia arrivano anche qui. Ma il fondamentalismo sembra piuttosto lontano, non è una vera preoccupazione per nessuno, se non per il governo che monitora costantemente la pratica religiosa (non molto diffusa, peraltro). Anche la piccola comunità cattolica di Bishkek, riunita nell’unica parrocchia di San Michele Arcangelo, si sente perfettamente a suo agio qui, ed è già di per sé un piccolo specchio del mondo (ci sono fedeli asiatici, africani, europei).
Nessuno si aspetterebbe di trovare tanta pace e serenità a queste latitudini, non fosse altro che per la non conoscenza (i kirghisi infatti hanno una solida fama di popolo gentile e aperto). Qui, nonostante i gravi scontri con la minoranza uzbeka degli anni Novanta, ogni etnia si sente a casa. Vale anche per i dungani, l’uno per cento della popolazione, che sono di origine cinese e religione islamica, e scrivono con caratteri arabi. I dungani sono  “cugini” dei poveri uiguri, alcuni dei quali emigrati da tempo, altri rifugiati qui per le persecuzioni di Pechino. La questione uigura sta emergendo come il vero tallone di Achille di Pechino, perfino più del Tibet, dove la repressione sembra essersi un po’ attenuata negli ultimi anni. Ovviamente il regime di Xi Jinping passa dalla rimozione totale del problema etnico alle accuse di separatismo e fondamentalismo islamico, quando invece c’è un popolo che chiedere di poter vivere liberamente la propria cultura, la propria religione, le proprie tradizioni, senza essere invaso e diventare minoranza in casa propria (già fatto). Vivere cioè come si vive in Kirghizistan.
Non ci potrebbe essere contrasto più vistoso fra i due paesi, nonostante la vicinanza: la Cina, separata da una catena montuosa, potenza emergente del XXI secolo, si sta proponendo da decenni come grande emporio globale, “fabbrica del mondo”, ora anche gigante finanziario  e “hi-tech”. La “Belt and Road Initiative”, o Nuova Via della Seta, annunciata da Xi Jinping nel 2013, era un’allettante promessa di futuro, di commercio e crescita per tutti. Investimenti giganteschi, acquisizioni di porti europei (dal Pireo a Bilbao), costruzione di autostrade che già funzionano alla grande verso l’Oceano Indiano, via Pakistan. Ma in quella che nelle mappe è la prima tappa della Via della Seta classica (quella di Marco Polo, per intenderci), cioè Bishkek, snodo del Kirghizistan, di questa realizzazione non c’è traccia.
Al di là della rivalità con la Russia, lo “stop” al gigantismo cinese, che sembra inarrestabile, si deve anche e soprattutto alla resilienza di questo piccolo, formidabile paese. Che, senza sbandierare orgogli “sovranisti” (anzi), sembra mandare un messaggio (a chi lo vuole ascoltare), un messaggio tranquillamente rivoluzionario, basato su due punti fondamentali:uno, del vostro sviluppo arrogante, della vostra crescita infelice che ha portato il mondo sull’orlo del collasso, noi non sappiamo che farcene; due, bene o male siamo un’ “isola di democrazia”(com’è stata definita) in un mare di autoritarismi; qui i diritti politici sono garantiti, le minoranze sono tutelate, i diritti dell’uomo, che non sono certo un “optional” per chi li ha conquistati con grande fatica. rispettati: quindi i soldi non possono comprare tutto.
Il paradosso kirghiso, statene certi, funziona, e funzionerà ogni anno di più: la lentezza come sfida al capitalismo antidemocratico (cioè, per antonomasia, il modello cinese); e il sapersi accontentare come antidoto al veleno della post-modernità: “hic manebimus optime”.

Cesare Sangalli