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Pubblicato su "Galatea" maggio 1999

Quando il sogno dei Caraibi diventa incubo

Haiti, cuore di tenebra

Era la terra dell'orgoglio nero: una repubblica di schiavi ribelli, libera e indipendente dai tempi di Napoleone. Oggi è il paese più povero e meno istruito di tutto l'emisfero occidentale. Dalla feroce dittatura di Duvalier padre e figlio alla inquietante ambiguità del “salvatore” Aristide, continua il mistero della “catastrofe che vegeta”

Bastano pochi metri, a volte, per cambiare continente. Può essere un muro a separare due mondi opposti, come era a Berlino fino al 1989. Fra Dajabon, Repubblica Dominicana, e Ouanamynthe, Haiti, c'è solo un ponte sopra un fiumiciattolo, da attraversare a piedi. Un ponte insignificante, anonimo, percorso da gente povera carica di povere cose, che per pochi istanti crea la sintesi della terra di nessuno. Ma di qua è America Latina, di là è Africa. Di qua è turismo di massa, paradiso artificiale asettico e un po' ruffiano; di là è il cuore di tenebra, il rovescio della medaglia, il lato oscuro della Luna.
Haiti è una tensione che prende allo stomaco, un'oppressione che ti entra dentro e non ti lascia più. E' violenza e mistero, è brutale miseria umana e incredibile senso religioso, è orgoglio e decadenza, una miscela che appesantisce l'aria calda dei Caraibi come il fetore di orina gonfia il respiro di Port au Prince, capitale della “catastrofe che vegeta” (l'espressione di Céline è stata utilizzata dall'ex presidente Leslie Manigat).
“La storia di Haiti è una storia di traumi profondi, di ferite non cicatrizzate”. Il nunzio apostolico di Port au Prince, Pierre Cristophe, francese, cerca di andare alla radice del male haitiano e lo individua in un dramma umano che diventa dramma culturale, disperata ricerca di identità: “Un popolo strappato violentemente dall'Africa, ridotto in schiavitù in un altro paese, si è ritrovato ad usare una lingua che non era la sua, a praticare una religione che non era la sua, a creare una società moderna che non poteva nascere dal nulla”.
L'articolo 4 della nuova Costituzione (1987) recita: “Il motto nazionale è Libertà, Eguaglianza, Fraternità”. Francia madre e matrigna, ti dà le parole e la frusta, le idee e le catene, una schizofrenia di amore e di odio che è il DNA culturale di Haiti.
La rivoluzione haitiana accompagna la rivoluzione francese, alla fine del Settecento. Robespierre e soci perdono la colonia più ricca per mano degli schiavi ribelli, che si liberano del padrone bianco combinando le sue idee all'energia di Madre Africa. Illuminismo e vudù. Il rito ancestrale del capo religioso Bukman forgia l'unione del popolo nero, ma è la capacità politica di Louverture e quella militare di Dessalines a far vincere una sfida impossibile: sconfitto il corpo di spedizione mandato da Napoleone, il 1° gennaio 1804 Haiti proclama la sua indipendenza, l'abolizione dello schiavismo, l'esproprio proletario delle terre dei coloni francesi. Gli ultimi sono diventati i primi, la Storia anticipa se stessa di molti decenni, la piccola isola caraibica è “il faro dell'America Latina”, culla del panamericanismo: Simon Bolivar passerà da Haiti prima di iniziare la sue guerre di indipendenza in Venezuela.
Troppo presto per essere vero. La promessa di futuro che Haiti si è strappata rabbiosamente, a mani nude, è come una maledizione, la condanna a cercare una modernità che non arriverà mai. La schizofrenia della cultura, sospesa fra imitazione e rifiuto del modello europeo, si trasforma rapidamente in un dualismo di proporzioni inaudite: la classe degli schiavi già affrancati o parzialmente emancipati al momento dell'indipendenza, formata in maggioranza da mulatti, diventa un'élite ricca e reazionaria.
E' una classe di rentiers dedita al commercio con l'estero, che vive nelle città sul mare, ed è totalmente dipendente dagli europei prima, dagli americani dopo (Haiti sperimenta con largo anticipo lo “scambio ineguale” tipico del neocolonialismo moderno: materie prime e prodotti agricoli a prezzi imposti, beni manifatturieri importati a costi proibitivi). Questi borghesi colti e raffinati ai limiti del capriccio, parlano francese, sono buoni cattolici e guardano con disprezzo la soverchiante maggioranza di poveri contadini analfabeti, che parlano solo il creolo e praticano più o meno apertamente il vudù.
I contadini haitiani sono ossessionati dalla volontà di non lavorare mai più per qualcun altro: dal momento dell'indipendenza sono diventati piccoli proprietari, e si orientano decisamente verso un'agricoltura di sussistenza o poco più, sviluppando un forte senso comunitario, di microsolidarietà. Sono l'anima buona della nazione, che si ripiega però fatalmente su se stessa, accentuando l'isolamento e favorendo il processo di emarginazione (tranne alcuni tentativi di rivolta, come nel 1843) stabilito dai commercianti di città. La cerniera fra questi due mondi (in realtà il cane da guardia delle classi privilegiate) è l'esercito, pilastro del dualismo haitiano.
I tentativi di modernizzazione sono coraggiosi (e applicati perfino con ferocia), ma velleitari, perché frutto di esperienze isolate, personalistiche, che sconfinano nella megalomania. La più impressionante è quella di re Cristophe, che divenne per un breve periodo il despota “illuminato” di Cap Haitien e del Regno del Nord. Ispirandosi a Federico II di Prussia, questo ex panettiere diventato monarca fece costruire il suo “Palais Sans Souci” nella foresta e “La Citadelle ferrière”, mastodontica fortezza armata con i cannoni sottratti a Napoleone, in cima alla montagna sovrastante. Per gli haitiani è l'ottava meraviglia del mondo, per l'Unesco patrimonio dell'umanità: agli occhi dei pochissimi visitatori, il simbolo della fierezza disperata dell'isola.
Re Cristophe voleva introdurre la lingua inglese, la civilizzazione anglosassone e la religione protestante per tenere il paese al passo con i tempi. Il suo tentativo fallì miseramente, come quello del dittatore Salomon, tipico caudillo positivista latinoamericano, del tipo “ordine e progresso”, che portò il telegrafo ad Haiti e fondò la Banca nazionale alla fine dell'Ottocento.
Le classi dominanti, assolutamente prive di ogni scrupolo sociale, si sono opposte ad ogni cambiamento, prolungando all'infinito lo status quo. Per i ricchi haitiani quello era l'ordine naturale delle cose, voluto da Dio.
Così, con l'impetuosa crescita demografica agli inizi del Novecento, Haiti si avvia tristemente verso il suo destino di paese sottosviluppato. La produzione agricola non cresce a sufficienza, le esportazioni di caffè (una delle migliori qualità mondiali) di rum e di zucchero diminuiscono, i poveri cominciano ad emigrare e la repubblica haitiana subisce anche l'umiliazione dell'invasione dei marines USA nel 1915 e dell'occupazione americana per garantire il pagamento dei debiti verso Washington (“diplomazia del dollaro”).
Le varie dittature si alternano fino al 1957, quando un medico di campagna, profondo conoscitore dei problemi dei contadini, vince le elezioni facendo leva sull'orgoglio ferito dei neri e sul loro risentimento verso i mulatti che controllano il paese. Il medico si chiama François Duvalier, e resterà famoso in tutto il mondo con il soprannome di “Papa Doc”.
Duvalier voleva far ammettere i neri e i contadini nella società haitiana, secondo un modello autoritario di stampo fascista, nazional-populista. In pochi anni riesce a stabilire un controllo ferreo sull'esercito, e si assicura il potere grazie alla sua milizia personale, i famigerati “tontons macoutes”, che arrivano dappertutto e terrorizzano la popolazione. Nel 1964 si fa nominare presidente a vita, e svela il suo volto mostruoso di dittatore. Kennedy lo detestava, ma gli americani continuarono ad appoggiarlo per il suo anticomunismo, che non aveva in realtà niente di ideologico (lo stesso Fidel Castro non sapeva esattamente come considerarlo).
La società haitiana non fa il minimo passo avanti: la riparazione sociale avviene solo grazie al favoritismo presidenziale. Le liste degli studenti universitari vengono compilate direttamente nel Palazzo Nazionale, i beneficiari sono quasi esclusivamente fedelissimi di "Papa Doc".
Alla sua morte, nel '71, gli succede il figlio diciannovenne Jean Claude (“Baby Doc”), un piccolo despota angariato da una moglie avida. Nonostante la legittimazione ufficiale da parte di Parigi e Washington e una relativa apertura verso l'esterno, la marcia decadenza del regime si trascina come un morto vivente fino al 1986.
I tumulti popolari scoppiano con una forza devastante, cogliendo di sorpresa un governo che aveva perso ogni contatto con la società civile. A nulla servono i sanguinosi tentativi di repressione: la rivolta è un fiume in piena che sembra travolgere tutto.
In apparenza, una rivoluzione improvvisa. In realtà, il vento del cambiamento soffiava da anni ad Haiti: si chiamava teologia della liberazione, e aveva permeato tutta la Chiesa cattolica a livello di base, “la petite église”, vera protagonista della fine del duvalierismo. I giovani preti delle periferie e delle campagne erano ormai completamente sganciati dal Vaticano. L'“opzione preferenziale per i poveri” diventa messaggio rivoluzionario, radicalismo quasi marxista diffuso dai sacerdoti sempre più politicizzati.
E'in questo contesto che nasce la parabola irresistibile di Jean Bertrand Aristide. Aristide è un giovane prete salesiano, figlio di una povera famiglia contadina di un villaggio a sud di Port au Prince. Ha notevoli doti intellettuali, una solida formazione di base e una straordinaria capacità oratoria. E' un leader carismatico di grande impatto, una specie di messia per un popolo esasperato, che ama visceralmente la parola, il mito, la componente emotiva della politica. Aristide sa toccare come nessun altro le corde profonde dei cuori haitiani. “Non si può incontrare Aristide senza amarlo”, sostiene padre Jacques Charles, salesiano, direttore della “Fondation Vincent pour l'Agriculture”, “L'ho conosciuto durante la formazione teologica in Israele, nel 1981: un grande comunicatore, scriveva sul giornale La Bonne Nouvelle e lavorava alla radio. E' rimasto gentile nei modi, ma la politica l'ha cambiato”.
Aristide sale alla ribalta nel 1990, alla fine della prima fase di transizione, assai turbolenta, gestita dai militari. Il primo presidente eletto democraticamente secondo la nuova Costituzione del 1987 era stato Leslie Manigat, un professore universitario molto stimato all'estero, rientrato ad Haiti dopo venti anni di esilio, e rovesciato da un colpo di stato militare dopo pochi mesi di presidenza. A Manigat viene impedito di presentarsi alle elezioni presidenziali (vinte trionfalmente da Aristide) con un pretesto assurdo da parte del Consiglio Elettorale Provvisorio, un organo chiave per la gestione del potere ad Haiti.
Aristide, capo di un movimento che non ha ancora una vera struttura di partito, vuole rifondare la società haitiana. Nomina René Préval primo ministro, chiede alla Francia l'estradizione di Jean Claude Duvalier, cambia i vertici dell'esercito.
I proclami di Aristide fanno pensare che per Haiti sta iniziando un'alba radiosa, dopo tanta violenza. I mass media di mezzo mondo parlano del nuovo leader caraibico. La CIA lo definisce come psicolabile pericoloso, una sorta di comunista megalomane. I salesiani lo hanno già espulso dall'ordine, e presto Aristide otterrà la dispensa sacerdotale per potersi sposare.
Il nuovo corso haitiano dura solo pochi mesi. Alla fine del 1991 un colpo di stato guidato dal generale Raoul Cédras costringe Aristide all'esilio negli Stati Uniti.
Per tre anni, Haiti vive nell'isolamento internazionale. Il presidente americano Clinton vuole “riportare la democrazia ad Haiti” e impone sanzioni durissime. La giunta militare di Cédras è assediata, nulla può contro il gigante americano che alla fine del 1994 manda di nuovo i suoi marines ad invadere l'isola, e fa tornare Aristide alla presidenza. E' una transizione indolore, tanto spettacolare nella forma quanto ambigua nella sostanza: i generali golpisti ottengono una “ritirata onorevole” e se ne vanno in esilio volontario (e dorato) a Panama. Tutto così facile da far pensare a una messa in scena: secondo l'ex presidente Manigat (vedi intervista N.d.A.) i militari non hanno mai sfidato le direttive del Pentagono nella storia di Haiti.
L'esercito viene sciolto, cancellato senza colpo ferire. Aristide decide di non “recuperare” i tre anni passati in esilio e lascia che il suo uomo di fiducia, Préval, vinca a mani basse (87 per cento dei voti) le elezioni presidenziali del 1996, boicottate dagli altri partiti (che già avevano rifiutato di partecipare alle legislative del 1995), perché il Consiglio Elettorale Provvisorio che gestisce le consultazioni è in mano agli uomini del presidente.
Da allora la situazione è stagnante. Aristide ha fondato il suo partito personale, la “Fanmi lavalas” (in creolo “Famiglia valanga”), che opera come fondazione al di fuori delle istituzioni, gestendo appalti pubblici, cooperative, iniziative sociali. In parlamento sono rimasti uomini già legati ad Aristide nel suo movimento originario OPL (“Organisation Politique Lavalas”) che adesso hanno preso le distanze, sotto la guida del comunista Pierre Charles. E il parlamento è entrato in conflitto con il presidente Préval, che lo ha dichiarato scaduto. Una situazione politica surreale.
Ma “il potere ad Haiti è sempre altrove”, dice il nunzio apostolico. Mentre a livello ufficiale si discetta di diritto costituzionale, la lotta politica si fa nelle strade, con minacce, intimidazioni, omicidi. Dietro le quinte, Aristide controlla il gioco del potere, disponendo di soldi dall'origine sempre più dubbia e di una manovalanza di sostenitori pronti alla violenza.
Un amareggiato giornalista del quotidiano indipendente “Le Matin”, Clarens Fortuné, 37 anni sostiene che “la democrazia funziona solo per i simpatizzanti di Aristide. I tontons macoutes di Duvalier sono stati sostituiti dagli zenglendo, giovani criminali legati ad Aristide, che gestiscono il traffico di cocaina. Sono loro che hanno incendiato il giornale per cui lavoravo prima”.
I seguaci di Aristide liquidano ogni accusa come calunnia dei privilegiati nostalgici di Duvalier. Il loro leader denuncia ogni giorno il complotto americano e quello dei vampiri del Fondo Monetario Internazionale. Ci sono molte buone ragioni in queste accuse, ma l'antiamericanismo di Aristide suona alquanto ipocrita. In ogni caso, senza gli aiuti internazionali e soprattutto senza le rimesse degli emigrati, Haiti sarebbe già saltata in aria.
Nelle strade di Port au Prince la frustrazione della gente è palpabile. L'elettricità va e viene, come l'acqua corrente. La disoccupazione è altissima, la povertà generalizzata, l'analfabetismo riguarda il 60 per cento della popolazione. Sguardi carichi di odio sfidano i pochissimi bianchi che girano da queste parti, cercando un'impossibile giustificazione a tanta miseria, resa ancora più insopportabile dal numero spropositato di macchine lussuose (soprattutto fuoristrada) che girano per la capitale.
In un paese che non produce quasi niente (a parte qualche industria manifatturiera americana di totale sfruttamento della mano d'opera) questa opulenza esibita è veramente sconcertante. Secondo i giornalisti del “Matin” sono i soliti vecchi commercianti (indicati da un quotidiano americano M.R.E. “most repugnant élite”), che impongono i prodotti esteri senza alcun controllo sui prezzi, né prelievo fiscale, strozzando la già scarsa produzione locale (oggi Haiti importa perfino le banane da Santo Domingo). A questi si sono aggiunti i “nouveaux riches”, i politici corrotti di Lavalas (e Aristide in persona) e i trafficanti di cocaina, che transita sempre di più dalla Colombia ad Haiti in direzione della Florida.
Il disastro urbano è anche rurale: il costante esodo dei giovani verso le città non ferma il diboscamento selvaggio, che va avanti a ritmi da primato mondiale (le foreste diminuiscono ogni anno del 5 per cento). L'anarchia strisciante potrebbe esplodere ben prima delle elezioni presidenziali del 2001. Ma potrebbe accelerare invece il processo di democratizzazione del paese. “Gli haitiani devono ritrovare le loro radici, il messaggio del vudù, che è quello della condivisione, dell'amore fraterno”. Fabrice Charmant è un giovane autore di documentari sulla religione tradizionale haitiana, che lui stesso pratica. Rifiuta l'americanizzazione dei suoi coetanei, ed è alla ricerca di quella forza interiore che permise ai suoi antenati di ribellarsi ad un destino di schiavitù. Nelle sue parole riecheggia l'invocazione del bellissimo film africano sulla schiavitù in America Sankofah “Spirito dei morti, risorgi; spirito dei morti spezza le nostre catene...”
Cesare Sangalli

Incontro con l'ex presidente Leslie Manigat
Provaci ancora, Prof

E' stato nelle galere di Duvalier negli anni Sessanta. Esiliato per oltre venti anni, è tornato ad Haiti in un momento drammatico e si è buttato subito nella mischia, diventando il primo Capo di Stato eletto secondo la nuova Costituzione. Ha subìto un colpo di stato che ha messo fine alla sua breve carriera di presidente della repubblica. Leslie Manigat, classe 1930, ha l'aria tranquilla dell'uomo che è già passato attraverso tutte le intemperie della vita. Brillante docente universitario di storia delle relazioni internazionali, ha insegnato a Parigi, negli Stati Uniti, a Trinidad e in Venezuela, dove ha fondato, nel 1979, il “Rassemblement des Démocrates Nationaux Progressistes” (RDNP), una sorta di Democrazia Cristiana di centrosinistra. Un cittadino del mondo di grande cultura, ma anche un haitiano che ama profondamente il suo paese. Potrebbe essere la vera alternativa a Jean Bertrand Aristide nel 2001. La scelta sarebbe nettissima, non solo politica, ma perfino antropologica: il “vecchio” contro il “giovane”, l'intellettuale contro il comunicatore, il compassato politico vecchio stampo, fedele alla Costituzione, contro il focoso capopopolo osannato dalle masse.
Più esplicitamente, democrazia pacifica contro demagogia violenta.

D- Com'è nato il mito di Aristide?
E- Il mito di Aristide nasce da una percezione alterata della realtà. Si è creduto (si è voluto far credere) che Haiti fosse il partito Lavalas, e cioè identificare un paese con un leader. La realtà era diversa: Lavalas era solo il partito più forte in quel momento. Prendiamo l'elezione di Aristide: la maggioranza del paese NON era con lui. E' vero, la sua popolarità era enorme, ma non si è trattato affatto di un plebiscito. Basti pensare che la domenica delle elezioni, Aristide venne proclamato vincitore quando ancora non era cominciato il conteggio dei voti, da una folla di 300mila persone davanti al Palazzo Nazionale. Il lunedì mattina, con le urne ancora chiuse, l'agenzia France Presse ha riportato la notizia che Aristide era il nuovo presidente con il 67 per cento dei voti. E questa impressione è stata continuamente amplificata dai mass media.

D- ... Un po' come il ritorno di Aristide, gli americani che riportano la democrazia ad Haiti ...
R- Una farsa, una messa in scena fortemente voluta da Clinton per enfatizzare il ruolo degli Stati Uniti nella difesa della democrazia. Noi eravamo favorevoli al ritorno di Aristide, ma senza l'invasione di un esercito straniero. Mi creda, io ho subìto un colpo di stato: i militari haitiani non hanno mai mosso un dito senza il beneplacito del Pentagono.

D- La figura di Aristide resta comunque misteriosa, affascinante e inquietante allo stesso tempo. Chi è veramente Jean Bertrand Aristide?
R- Aristide è un caso storico. Rappresenta il problema degli esclusi di questo paese che viene finalmente a galla. Lui è in origine un sincero progressista, un prete che ha abbracciato la teologia della liberazione, un uomo che incarna (anche come storia personale) un aspetto di rivendicazione popolare. Ma fra le varie opzioni politiche, Aristide ha scelto un populismo a forte tendenza anarchica. E' un approccio che gli consente di superare le sue incapacità politiche, l'assenza di un autentico progetto riformista. La nebulosa rappresentata dal suo movimento, la Fanmi Lavalas, privo di una vera organizzazione, gli consente di agire come meglio crede, in qualsiasi momento.

S- Ritiene che il potere lo abbia cambiato?
T- Indubbiamente. Ma forse ha solo fatto emergere la sua parte oscura, presente fin dall'inizio. Il povero è diventato ricco: oggi Aristide è il solo candidato a poter disporre di mezzi finanziari notevoli (e i soldi in un paese povero contano tantissimo, per fare politica). Il politico appassionato è diventato un manipolatore cinico, machiavellico. E infine il sacerdote si è trasformato in un mostro criminale.

U- Come vede il futuro del suo Paese?
V- Il momento presente è drammatico: stiamo andando verso l'implosione politica, l'esplosione sociale e l'anarchia sanguinaria. Haiti è un nodo gordiano da tagliare una volta per tutte. Ci sono due scenari possibili: o la dittatura, oggi latente, si installa e si consolida con la rielezione di Aristide nel 2001; oppure si può salvare la possibilità di creare una democrazia pluralista. In questo momento il primo scenario è purtroppo il più probabile, perché stiamo già vivendo, con il Parlamento esautorato, una dittatura di fatto, guidata dietro le quinte da Aristide. Perché Aristide è ricco e ha ancora un certo carisma, perché la gente ha paura e la comunità internazionale non ha una politica chiara e rigorosa. L'alternativa democratica può comunque contare su fattori uguali e contrari: la popolarità di Aristide è in caduta libera. Il re è nudo oggi, gli haitiani lo fanno capire parlando liberamente alle radio popolari. Gli intellettuali che lo avevano appoggiato adesso hanno preso le distanze e la stessa comunità internazionale diventa ogni giorno più critica nei suoi confronti. Aristide si sta isolando. Se mi presenterò alle elezioni? Solo se ci saranno le condizioni per una vera competizione democratica, garantita da osservatori internazionali.

Cesare Sangalli