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Pubblicato su "Galatea" ottobre 1999

Quando la ricchezza diventa una maledizione

Nigeria, i vampiri del petrolio


Shell, Mobil, Chevron, Texaco, Elf, Total e Agip: le multinazionali dell'oro nero sono padrone dell'unica vera risorsa del paese più popoloso dell'Africa. Una risorsa spartita con il governo federale nigeriano, fino a pochi mesi fa dominato da una casta di militari avidi e spietati. Con il nuovo presidente Obasanjo la Nigeria spera di uscire dal suo “incredibile incubo”


La zona intorno a Port Harcourt sembra il set di un film della serie “Mad Max” di Mel Gibson. Guerrieri e benzina, giungla e pozzi di petrolio, mangrovie e gas fiammeggiante: la natura e la chimica convivono, nell'aria impregnata di monossido di carbonio. Il groviglio impazzito di auto, camion e moto comincia a snodarsi sulla lunga striscia di asfalto: ai lati, sui bordi sterrati e polverosi della strada, dietro i cartelli arrugginiti e le baracche di legno, gli esclusi. Fermi da sempre a guardare il progresso che passa e lascia loro gli avanzi, le briciole della grande orgia energetica: pneumatici, taniche, carcasse di auto, blocchetti di cemento, cavi di acciaio. Gli spigolatori del petrolio, la messe nera, riciclano ogni scarto, colorando di umano le pattumiere chiamate città, rendendo viva la triste civiltà del motore a scoppio, che qui mostra tutta la sua decadenza, senza alcuna finzione.
Gli incroci, gli svincoli, le rotonde, sono il punto di incontro dell'Africa versione Nuovo Millennio: ingorghi mostruosi e formicolare di uomini sull'asfalto a vendere di tutto, dalle noccioline agli orologi, dalle banane fritte ai giochini elettronici. Madri con bambini a chiedere una pietà volante, paraplegici che arrivano all'altezza del finestrino, si corre quando il traffico diventa veloce, si raccattano soldi gettati sulla strada, si dribblano paraurti minacciosi e motociclette arroganti. Il caos. Nella polvere, nell'umidità appiccicosa, respirando per ore e ore gli scarichi nerissimi dei bestioni a quattro ruote. Tutto il giorno, ogni giorno, finché cala la notte, e le città nigeriane si spengono. L'illuminazione pubblica è praticamente inesistente. Di notte, il rumore dei generatori accompagna la paura di chi vuole avere almeno un po' di luce. Il paese che esporta più petrolio di tutta l'Africa, uno dei maggiori produttori mondiali, non riesce nemmeno ad illuminare le sue principali città, compresa Lagos. Per la stragrande maggioranza della gente del delta del fiume Niger, l'area dove si concentra tutto il petrolio, l'elettricità resta un sogno.
Ma la luce splende sempre sugli impianti delle compagnie petrolifere, e sulle residenze dei loro dipendenti, che sembrano caserme di lusso, moderni “Fort Apache” in questo “Far West versione tropicale, con i bianchi in stivali da cantiere nel ruolo dei cercatori dell'oro nero, tre etnie rivali in quello degli indiani, e un amministratore militare nel posto poco invidiabile di sceriffo” (Joelle Stolz, giornalista francese, su “Le Monde Diplomatique”).
Le “etnie rivali” sono in realtà almeno una dozzina, sulle 200 che compongono la federazione nigeriana. Divise dalla lingua, dai costumi, a volte dalla religione, ma soprattutto dalle manovre di chi controlla il potere, cioè militari, politici e affaristi legati all'esercito, compagnie petrolifere: i vampiri del petrolio, che si spartiscono il bottino quotidiano di due milioni di barili di greggio.
Nella versione ufficiale, i militari sono i garanti dell'unità di una nazione di oltre 110 milioni di abitanti che altrimenti sarebbe ingovernabile, e le compagnie petrolifere il pilastro dello sviluppo economico nigeriano secondo il principio “commercio e non assistenza” ribadito da Clinton nel suo ultimo (e unico) viaggio in Africa. I problemi deriverebbero soprattutto dall'egoismo delle etnie dominanti (e cioè, in ordine gerarchico, gli Hausa-Fulani del nord, gli Yoruba dell'Ovest e gli Igbo dell'est), e quindi, in ultima analisi, dall'antico e mai sopito virus africano del tribalismo.
E' una visione che fa comodo soprattutto alle multinazionali del petrolio che operano in Nigeria (Shell, Mobil, Chevron, Texaco, Elf, Total, Agip), ma che spesso viene accettata anche dagli abitanti del Delta, convinti che i soldi del loro petrolio “vadano al Nord”, ingrassino “quelli che stanno ad Abuja”, la capitale federale creata nel 1991. Ma il Nord è povero quanto il Sud, gli Hausa come gli Igbo o gli Ogoni o gli Ijaws, i cristiani come i musulmani. La benzina scarseggia (!) ovunque, proprio come l'elettricità, l'acqua corrente, le scuole, gli ospedali, il lavoro.
Certo, l'ingiustizia nell'area del Delta raggiunge livelli grotteschi, perché alla beffa di non vedere i proventi del petrolio estratto sulla propria terra, si aggiunge il danno di avere un suolo sempre più sterile, l'acqua avvelenata, l'aria inquinata e una società tradizionale che, sconvolta nei propri equilibri, rischia di dilaniarsi in una masochistica lotta all'accaparramento delle briciole di ricchezza e di potere concesse sapientemente dai satrapi federali o dalle compagnie petrolifere “vittime” del cosiddetto “ecoterrorismo”, un fenomeno dilagante negli ultimi quindici anni.
Dieci, cento, mille presunti Robin Hood rapiscono i tecnici delle compagnie petrolifere per chiedere il riscatto, o sabotano gli oleodotti per domandare poi il risarcimento per i danni all'ambiente. Un autentico suicidio, tipico di chi è stato portato alla disperazione, non molto diverso da quello accidentale delle centinaia e centinaia di “spigolatori del petrolio” che bruciarono vivi nell'immane rogo di Jesse (17 ottobre 1998, esplosione di un oleodotto, più di mille morti).
La Shell, che da sola estrae circa la metà del greggio nigeriano (e fa parte di una joint venture con la NNPC, compagnia di stato nigeriana, la Elf e l'Agip) dichiara una media di 221 oil spillages (fuoriuscite di petrolio) all'anno, che scaricano nelle paludi del Delta settemila barili di veleno nero. Le cause? Per il 21 per cento, la normale attività estrattiva; per il 50 per cento, il deterioramento delle strutture e per il 28 per cento i sabotaggi. I Robin Hood locali, gli “ecoterroristi”, provocano quindi solo una quota del “normale” inquinamento.
La lotta delle popolazioni della regione petrolifera non è comunque solo cieca disperazione, rivendicazione violenta. Il vero cambiamento nasce nella coscienza della gente, e ha bisogno di idee e parole, e di una voce che sappia esprimerle. Quella voce nacque nell'etnia Ogoni, una delle più piccole (solo 500mila persone) nella regione del Delta, ed era quella di un brillante scrittore che, sulla soglia dei cinquanta, decise di dedicare la sua vita alla sua gente, ché potesse diventare un esempio per tutti gli oppressi della Nigeria. Poteva vivere nei suoi confortevoli privilegi, Ken Saro Wiwa, visto il successo della serie televisiva Basi & Co. di cui era l'autore, uno dei programmi più visti di tutta l'Africa. Ken Saro Wiwa raccontava le storie di ordinaria follia di Basi, un ragazzo nigeriano, che, insieme ai suoi amici, inventa mille modi, perlopiù truffaldini, di sbarcare il lunario. Gli andava sempre male, il messaggio morale era chiarissimo: non vi adattate all'andazzo generale, non riproducete in basso lo squallore delle nostre ignobili classi dirigenti. A forza di arrangiarsi, a forza di considerare normale la corruzione e l'incompetenza unita all'avidità, una nazione muore.
Ma la Nigeria degli ultimi non è una nazione di ladri, assassini e puttane, come tendono a pensare, senza distinzione di pelle, i ricchi delle classi dominanti e i loro partners occidentali, chiusi nelle paranoie delle loro cattive coscienze. La Nigeria degli ultimi, sempre tentata dall'abbrutimento, dimostra una gentilezza d'animo fuori dal comune, e una pazienza persino eccessiva. Ken Saro Wiwa lo sapeva bene, e si è fatto “voice of the voiceless”, scegliendo la resistenza non violenta.
Niente a che vedere con il tragicomico tentativo del maggiore Isaac Boro, che nel 1966 voleva “liberare gli Ijaws” con i suoi uomini del “Delta Volunteer Force”, e proclamò un'effimera “Repubblica del Niger Delta” che durò 12 giorni. Era l'anticipo del catastrofico tentativo di secessione degli Igbo dell'Est, l'area più cattolica della Nigeria, sotto la guida del colonnello Ojukwu, appoggiato dalla Francia e osteggiato dagli inglesi che avevano creato la Nigeria in modo da poterla controllare meglio. Il nuovo stato, proclamato nel 1967, si chiamava Biafra. Un nome che è rimasto nella memoria collettiva come simbolo di tragedia. L'Africa postcoloniale entrava per la prima volta nel mondo dei mass media, acquistando l'immagine apocalittica che non è ancora riuscita a scrollarsi di dosso: guerra e fame, violenza e miseria.
Un milione di morti, nella guerra del Biafra, finita nel 1970. Nessun nigeriano sano di mente parlerà mai più di secessione. La nuova parola d'ordine è autonomia, anzi, “autonomia etnica, controllo delle risorse e dell'ambiente”, secondo la definizione di Ken Saro Wiwa. Il 26 agosto 1990 viene approvato l' “Ogoni Bill of Rights”, il manifesto della nuova coscienza indigena, che si organizza nel MOSOP, il Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni.
Gli anni Novanta in Nigeria cominciano nel segno della repressione, ma si chiudono con un barlume di speranza. La svolta avviene in tre tappe fondamentali: le elezioni presidenziali del 1993; l'arresto, il processo e l'impiccagione di Ken Saro Wiwa nel 1995; la morte del generale Sani Abacha nel 1998.
Nel 1993, dopo dieci anni di dittatura militare, il generale Ibrahim Babangida mantiene la promessa di restituire il governo ai civili. Sarebbe stata una transizione indolore per l'esercito, visto che i due partiti in competizione (il Partito socialdemocratico e la Convenzione nazionale repubblicana) erano stati entrambi creati dai militari, e dal momento che Moshood Abiola, leader del Partito socialdemocratico che rappresentava l'opposizione, era un miliardario legato al regime, con cui aveva fatto affari per anni nel settore delle telecomunicazioni.
Per questo Ken Saro Wiwa e il MOSOP decidono di boicottare le elezioni. Solo il 30 per cento degli elettori si reca alle urne. Abiola stravince le elezioni: nonostante tutti i compromessi, si trattava di una svolta democratica. Ma i militari non ci stanno: annullano le elezioni e arrestano Abiola, mentre Babangida viene sostituito dal generale Sani Abacha, il suo delfino.Il regime stava cominciando a mostrare il suo volto più infame.
Dal 1993, in seguito al clamoroso annullamento delle elezioni, inizia il balletto diplomatico, sempre più imbarazzato, della “comunità internazionale”, cioè di Gran Bretagna e Stati Uniti. Per il momento si minacciano sanzioni, che consistono nell'embargo delle forniture militari. La repressione è sempre più dura, Amnesty International denuncia vigorosamente le persecuzioni politiche, soprattutto nei confronti degli Ogoni e del loro leader, Ken Saro Wiwa, arrestato per quattro volte, l'ultima con l'accusa (assurda) di essere il mandante dell'omicidio di quattro leaders della sua stessa etnia considerati vicini al governo federale.
Nell'ottobre 1995, al termine di un processo farsa, Ken Saro Wiwa e altri otto attivisti del MOSOP sono condannati a morte. La comunità internazionale si mobilita (?) per ottenere una grazia: il presidente del Sudafrica, Nelson Mandela, cerca fino in fondo di trovare una soluzione diplomatica, attirandosi le critiche dell'opposizione nigeriana che chiede una linea più dura nei confronti di Abacha.
Il 10 novembre 1995 Ken Saro Wiwa e i suoi compagni vengono impiccati nella prigione federale di Port Harcourt, a due passi dalle basi delle compagnie petrolifere (Agip compresa). Abacha ha fatto il passo più lungo della gamba: la Nigeria viene immediatamente sospesa dal Commonwealth e minacciata di espulsione “se la democrazia non verrà ripristinata entro due anni”. Ma quando Nelson Mandela chiede l'embargo petrolifero per la Nigeria, Stati Uniti e Gran Bretagna rispondono picche. Il petrolio non si tocca. Per l'opposizione nigeriana è notte fonda. Come gesto di ritorsione nei confronti di Mandela, Abacha impedisce la partecipazione della Nigeria, la più forte squadra del continente, alla Coppa d'Africa di calcio che si svolge in Sudafrica all'inizio del 1996.
Il dittatore nigeriano è sempre più ossessionato dal potere. Chiuso nella sua villa-bunker di Aso Rock, circondato da concubine e feticheurs (i tradizionali sacerdoti-guaritori africani) passa da un'epurazione all'altra dei quadri militari, continuamente accusati di ordire complotti ai suoi danni.
La moglie di Abiola è assassinata da un gruppo di killer. Lo scrittore Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986, già in esilio, viene condannato per alcuni attentati dinamitardi (!). Anche il futuro presidente Olesegun Obasanjo, un generale che era stato Capo di Stato nel '76 e aveva restituito il potere ai civili, finisce in galera. I due anni di tempo concessi dal Commonwealth passano senza esito alcuno.
Per le compagnie petrolifere, business as usual. Il Canada si dissocia per protesta dalla linea attendista del Commonwealth, che conferma le parole di Ken Saro Wiwa: “La stabilità sembra essere il credo di questi signori, stabilità per assicurare una continua cooperazione economica, che significa sfruttamento”.
La Nigeria sprofonda lentamente in un abisso di corruzione. Mentre il paese comincia a soffrire una penuria di carburante senza precedenti, Abacha e la sua corte di clienti e emulatori (estremamente numerosa) saccheggiano il patrimonio statale, accumulando ricchezze spaventose, mentre il debito estero continua ad aumentare (la Nigeria è il paese dell'Africa subsahariana con la maggiore esposizione finanziaria).
In questo scenario cupo fino alla disperazione, la questione nigeriana, ormai in fase di oblio, ritorna sui media per la visita di Giovanni Paolo II, nel marzo 1998. Il motivo ufficiale è la beatificazione di un prete, il reverendo Tamsi, vissuto nel dopoguerra, ma il messaggio politico risulta chiaro e forte, in linea con quello dei vescovi nigeriani: la nazione ha bisogno di giustizia e libertà. Il papa consegna una lista di 60 detenuti politici da rilasciare, ma Abacha non fa una piega.
Nell'immaginario popolare, l'arroganza del dittatore nei confronti del pontefice è una sfida troppo grande alla giustizia divina: poche settimane dopo, Abacha muore misteriosamente nella sua residenza. La versione più o meno ufficiale vuole che sia stato colto da una crisi cardiaca dovuta all'affaticamento sessuale e all'uso smodato di Viagra. Per alcuni dietrologi all'africana, la Provvidenza sarebbe stata aiutata da un po' di veleno. Fatto sta che, con la fine di Abacha, la Nigeria ritrova la speranza. Il suo successore, il generale Abubakar, stabilisce un piano per ripristinare il governo civile attraverso libere elezioni, fissate per il febbraio 1999. Il candidato più importante, Abiola, il vincitore delle elezioni del '93, muore in carcere il giorno prima della sua liberazione. I medici americani che lo assistevano parlano di morte per cause naturali, ma il sospetto di un omicidio politico non viene completamente dissipato.
La Nigeria entra in un lungo periodo di transizione, che è ancora in corso, anche dopo l'insediamento al potere di Obasanjo, eletto con un voto giudicato regolare nella sostanza, ma che ha visto gravi brogli e un forte astensionismo nel Sud est (aree degli Igbo e del petrolio).
Molti esponenti dell'opposizione non credono che un ex militare della vecchia guardia possa portare quel rinnovamento radicale di cui la Nigeria ha un disperato bisogno. Dall'indipendenza del 1960, ma si può dire dall'inizio dell'estrazione di petrolio nel 1958, i cambiamenti istituzionali hanno seguito due strade parallele: cresceva il numero degli stati all'interno della federazione (dai quattro iniziali ai 12 dopo la guerra del Biafra, fino ai 36 attuali) e diminuiva la quota delle rendite petrolifere destinato agli investimenti per lo sviluppo delle comunità e all'ambiente: dal 50 per cento iniziale al 45 per cento nel 1970, il 20 per cento nel 1975, il due per cento nel 1982, 1,5 per cento nel 1984 e quindi, dal '92, il tre per cento, che è la quota attuale. Il nuovo presidente Obasanjo la porterà al 13 per cento, cercando di risistemare le disastrate finanze federali, di arginare la corruzione dilagante, e di ridurre drasticamente il ruolo dei militari. I suoi primi provvedimenti fanno ben sperare: si respira già un clima di maggiore libertà, sono spariti i controlli asfissianti negli aeroporti e i posti di blocco sulle strade.
Ma le tensioni nell'area del Delta sono più forti che mai. Gli Ijaws, il maggior gruppo etnico della regione (sette milioni di persone), elaborano la “Dichiarazione di Kaiama”, che riprende i princìpi espressi nell'“Ogoni Bill of Rights”, anche se l'opzione non violenta è molto meno pronunciata, e gli Ijaws hanno fama di essere guerrieri formidabili.
Nonostante le drammatiche vicende degli anni Novanta, l'atteggiamento delle compagnie petrolifere non è cambiato di una virgola. Gli operatori Agip a Port Harcourt sono tanto gentili quanto reticenti, sicuramente non sono abituati ai giornalisti. La posizione della compagnia italiana è chiara: “La Nigeria Agip Oil Company ha sempre mantenuto ottimi rapporti con le comunità che vivono nelle aree delle sue operazioni. Nel campo delle infrastrutture e dei servizi sono state realizzate numerose strade di accesso ai numerosi centri e villaggi, ai quali viene fornita acqua, energia elettrica e altri beni di prima necessità”. Sembra la fotocopia della risposta della Shell a Ken Saro Wiwa nel '93: “La Shell Petroleum Development Company ha un programma di continuo miglioramento dei servizi e contributi ambientali, e dell'assistenza alle comunità nelle infrastrutture, sanità, agricoltura e istruzione”. Insomma, “va tutto per il meglio in questo che è il migliore dei mondi possibili” (Voltaire, “Candido”). Se ci sono problemi “la Shell ritiene che siano problemi nigeriani”. Proprio come l'Agip di oggi: le tensioni negli stati di Bayelsa e Rivers? “In gran parte conflitti interetnici sorti già in epoca precoloniale”.
La versione dei vampiri del petrolio è quella vincente. Chi si sognerebbe di criticare i brillanti successi dell'Agip, o addirittura della Shell, sponsor ufficiale dell'amatissima Ferrari, per difendere gli interessi delle popolazioni sconosciute di un paese africano? Agli esclusi dall'orgia energetica non resterebbe, per risolvere i “problemi interni”, che affidarsi alla Provvidenza, che già li ha liberati da un dittatore spietato. Ma come sostiene Wole Soyinka, il grande scrittore nigeriano: “Se c'è stato intervento divino in questa storia, è solamente quello che ci doveva essere, poiché la lezione che ci è stata impartita fin dall'infanzia è: il Cielo aiuta solo quelli che aiutano se stessi”.
Cesare Sangalli

A colloquio con Chief Saro Wiwa
Nel nome del padre
Nella penombra della sua casa, osservato dalle donne e dai bambini della famiglia, un vecchio capo africano racconta il suo dolore. Pause lunghissime, i silenzi sono importanti quanto le parole, che arrivano lucide, chiare, sicure, in un buon inglese. Ma è lo sguardo che colpisce, uno sguardo in cui l'amarezza per la perdita del figlio primogenito, ucciso dall'ingiustizia più estrema, si perde già nell'attesa dell'eternità. Chief Saro Wiwa è un Abramo di 92 anni che ha visto il sacrificio di Isacco e non si può aspettare miracoli da questa vita, ma solo un buon giorno per morire.

Com'era Ken Saro Wiwa da piccolo?
Era un bambino molto intelligente. Andò a scuola a 5 anni, ed è sempre stato uno dei migliori. Era il primo dei miei sei figli: dopo di lui c'erano due femmine e poi tre maschi.

Quando iniziò la sua attività di scrittore?
Durante gli anni della scuola superiore. Cominciò a farsi conoscere nel '72, dopo la guerra civile. Scriveva nel suo ufficio a Port Harcourt. Diventò presto presidente degli autori nigeriani.

Come maturò la sua coscienza politica?
Ken vedeva le condizioni della sua gente, e provava pietà nel suo animo. Ha iniziato la sua lotta per mettere il suo popolo nella giusta direzione, per chiedere al governo di fare qualcosa. Non lo ha fatto per interesse, era già conosciuto anche all'estero, ma solo per difendere i diritti degli Ogoni.

Come ha reagito quando ha saputo del progetto di suo figlio?
Quando Ken mi comunicò le sue intenzioni, prima di iniziare la sua lotta, io gli ho detto che se Dio gli aveva affidato questa missione, io non lo avrei fermato. Il Signore mandava lui a liberare gli Ogoni, come aveva mandato Mosè a liberare gli ebrei dalla schiavitù in Egitto.

Ci sono organizzazioni che l'hanno aiutata negli ultimi anni?
R- No, non ho ricevuto nessun aiuto. Per questo chiedo alle organizzazioni dei diritti umani: cosa state facendo? Perché se non fanno niente significa che ciò che ha fatto il governo nigeriano era giusto. A tutte le persone con cui ho potuto parlare ho sempre domandato: è un crimine se un uomo chiede i suoi diritti? (ripete la domanda più volte N.d.A.) Sono venuti anche a chiedermi di perdonare, mi hanno offerto dei soldi. Ho risposto di no, non sono Giuda, sarebbe come uccidere di nuovo mio figlio per trenta denari...

Che cosa è cambiato in Nigeria dopo la morte di Ken?
Non è cambiato niente. Gli Ogoni hanno scritto il loro “Bill of Rights” (chiede ai familiari di andare a prenderne una copia). Leggi qui...Nessuna di queste richieste è stata ascoltata. Le compagnie continuano a sfruttare il petrolio, a costruire nuovi oleodotti. Ci hanno ingannato. Noi non abbiamo né armi, né munizioni: siamo nelle mani di Dio.

Crede che con il presidente Obasanjo le cose andranno diversamente?
Sono un uomo di 92 anni. Nella mia esperienza, non penso...Chief Saro Wiwa si interrompe. Nel suo silenzio, l'imbarazzo della commozione. Non sono lacrime, ma solo un luccicare delle pupille, ferite dal sale dei ricordi. L'intervista è finita. Addio, vecchio guerriero.

Cesare Sangalli