Reportages
Pubblicato su "Galatea" marzo 2004
Nel cuore dell'Asia centrale, è il termometro di una Storia che non cambia
Uzbekistan, l'ombelico del mondo
Lungo la Via della Seta, attraverso le leggendarie città di Bukhara e Samarcanda, l'Oriente si incontrava con l'Occidente. I sogni imperiali sono nati e morti qui, da Alessandro Magno a Gengis Khan, da Tamerlano agli zar, da Stalin a Bush. La triste realtà di oggi rivela tutte le bugie del “Grande Gioco”. La menzogna più grande dell'attualità si chiama “lotta al terrorismo islamico”
C'è una carta geografica, sull'aereo dell'Uzbekistan Airways, che traccia tutti i collegamenti dalla capitale Tashkent con il resto del mondo. E' impressionante: prendendo l'Asia come punto di riferimento, Tashkent sembra davvero il centro del mondo, con i raggi che partono in tutte le direzioni, verso nord (la sterminata Russia), verso est (Cina e Giappone), verso sud (India, Pakistan, Singapore), verso ovest (Medio Oriente, Turchia e tutta l'Europa). L'ultimo collegamento, il più recente, fila dritto in direzione degli Stati Uniti, come un cordone ombelicale, dando per scontata tutta l'America Latina. Completamente ignorata, come al solito, l'Africa. Più che la mappa di una compagnia aerea sembra una lezione di geopolitica. Pare sottolineare che la partita per la leadership mondiale si gioca qui, nella gara per lo sfruttamento delle risorse energetiche e nel rapporto con l'impetuosa crescita economica di due giganti del futuro (la Cina e l'India). Oppure, secondo una lettura più politica, nell'annunciato e reclamizzato “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam. Tashkent è in mezzo, al centro di tutto, capitale di una terra conquistata da tutti quelli che cercavano di stabilire un nuovo ordine mondiale, spinti dal desiderio di supremazia, dall'avidità, da una presunta missione civilizzatrice o da tutte queste cose insieme. Questo sono gli imperi: una sintesi formidabile di brutalità e progresso, di stabilità e pace nata sulla guerra e sui massacri, di grandezza di intenti e disumanità nei mezzi. La Storia si impasta con la leggenda, e l'Uzbekistan è avvolto dal fascino millenario del passato, terra di viaggio per eccellenza, per carovane ed eserciti, per commercianti e conquistatori, esploratori e spie. Nell'immaginario collettivo, un paese sperduto in qualche parte dell'Asia, avvolto nella sua misteriosa aura d'Oriente, pericolosamente islamico come tutti le nazioni che finiscono in “stan” (e infatti confina con l'Afghanistan ed è vicino al Pakistan), un calderone di rivendicazioni etniche e nazionaliste. Fino a qui, siamo ancora sull'aereo, che fra l'altro è occupato in gran parte da gente del Bangladesh che in Uzbekistan fa solo uno scalo (il volo è diretto a Dacca).
Basta atterrare a Tashkent e tutti gli esotismi da viaggiatori e i brividi da avventurieri finiscono. Si torna alla realtà, alla triste, ordinaria realtà di questo inizio secolo così povero di ideali e ricco di menzogne.
Tashkent è prima di tutto una città post-sovietica, la quarta per dimensioni, dopo Mosca, San Pietroburgo e Kiev. L'architettura e l'urbanistica del socialismo reale si assomigliano dovunque: secondo Kapuscinski (“Imperium”) dovevano esprimere “trionfalismo, potenza, monumentalità, forza, serietà, peso, invincibilità”. Far sentire tutta l'importanza dello Stato, del regime, e annichilire gli individui. Dal punto di vista sociale, far sparire i commercianti e “sostituirli con funzionari, umile e obbediente strumento del potere”. Dal punto di vista etnico, spingere i russi nelle posizioni chiave, una politica iniziata dagli zar, e tenere i locali nelle posizioni subalterne, mescolati con altri popoli deportati (ucraini, coreani, tatari e altri).
Russificazione forzata prima, sovietizzazione poi. Ecco perché per scoprire il cuore del popolo uzbeko bisogna andare al mercato, il bazar. Nel mercato, le città anonime e vuote si rianimano di gente e di voci. Spariscono praticamente i capelli biondi e gli occhi azzurri dei russi, onnipresenti nei locali alla moda e negli uffici, ed emergono i capelli neri e gli occhi un po' a mandorla degli uzbeki, un misto di europeo e orientale (infatti dal punto di vista antropologico si parla di un ceppo turco-mongolico). Si capiscono subito due cose: che questo è uno dei paesi più tranquilli del mondo e che l'Islam è soltanto una blanda tradizione. Le donne sono un ottimo indicatore: non si vede un chador in giro, ma in compenso non è raro incontrare una ragazza che cammina da sola anche nelle ore notturne e in posti poco illuminati. Sono i vantaggi garantiti da uno stato di polizia, ché questo è l'Uzbekistan, né più, né meno.
Tredici anni di indipendenza non hanno cambiato una virgola, dal punto di vista della democrazia. Dittatura era, dittatura resta. Il leader supremo, Islam Karimov, presidente eletto con percentuali di regime, è stato l'ultimo segretario del Partito comunista, che oggi si chiama Partito democratico del popolo. Un popolo che in realtà non ha mai deciso niente, neanche l'indipendenza dall'URSS.
L'Uzbekistan com'è configurato oggi è un'invenzione a tavolino di Stalin, datata 1924. Il “piccolo padre” creò una repubblica sovietica mescolando etnie e tradizioni, per scoraggiare ogni pretesa nazionale (vedi “Galatea”, febbraio 2002, sull'Azerbaigian). Poi si dedicò alle deportazioni di interi popoli da una parte all'altra dell'impero sovietico e allo smantellamento della religione islamica e della memoria storica. Probabilmente aveva una scarsissima considerazione degli abitanti di queste regioni lontane da Mosca, per cui le “purghe” furono meno spietate che altrove, e si salvarono le città-oasi lungo l'antica via della seta: Khiva, Bukhara, Samarcanda. Qui è ancora possibile intuire lo splendore islamico del tempo che fu, immaginare per un attimo la meraviglia di Marco Polo e di molti altri viaggiatori, senza dimenticare però che quello splendore era comunque figlio della ferocia di due imperi, quello di Gengis Khan nel XIII secolo e soprattutto quello di Tamerlano, che arriva fino al 1405.
In mancanza di meglio, Tamerlano è stato trasformato in eroe nazionale, improbabile padre della patria. La sua statua equestre domina la piazza centrale di Tashkent, e sembra chiamare tutti alla conquista dell'ovest, che indica con la fierezza del conquistare. A Samarcanda invece se ne sta seduto in direzione opposta, a godersi lo spettacolo della sua capitale, la “Perla dell'Est”, il “Giardino dell'anima”, il “Gioiello dell'Islam”, il “Centro dell'Universo”. Quando non era dedito ai massacri, Timur lo zoppo (questo è l'etimo di Tamerlano) favoriva in tutti i modi le arti e le scienze. Il talento era il lasciapassare più sicuro per quel sanguinario condottiero, che non ebbe mai comunque la lungimiranza politica di Gengis Khan, l'uomo che seppe imporre la “pax mongolica” in un impero sterminato che andava da Mosca a Delhi, da Pechino a Damasco.
I discendenti dei due condottieri si divisero l'area, cercando di espandersi l'uno ai danni dell'altro. Erano emiri a volte illuminati, più spesso avidi e crudeli, che gestirono la decadenza della Via della Seta fino all'avvento di un altro impero enorme, quello degli zar di Russia.
Praticamente per tutto un secolo (l'Ottocento), Russia e Inghilterra si affrontarono in Asia centrale senza mai scontrarsi direttamente. Era il “Grande Gioco” (definizione di Rudyard Kipling, i russi parlavano di “Torneo delle Ombre”), un machiavellico incrocio di interessi contrapposti, condotto da spie, agenti commerciali, militari e avventurieri, che alla fine servì solo a mantenere lo status quo. Da questo punto di vista, l'Asia centrale di oggi è straordinariamente simile a quella di cento anni fa.
Solo che gli attori si sono moltiplicati, gli interessi pure, e la “pax americana”, a due anni dall'intervento in Afghanistan e a un anno dall'occupazione dell'Iraq, sembra davvero poca cosa. Se il Novecento annunciava sconvolgimenti epocali, che puntualmente arrivarono (con la Prima guerra mondiale e la Rivoluzione d'ottobre), oggi la Storia appare impantanata nel nulla, nonostante tutta la retorica sul “mondo che non sarà più lo stesso dopo l'undici settembre”.
Negli anni drammatici fra il 1914 e il 1924 si decise il destino di questa parte dell'Asia, dal Caucaso alla Cina, Medio Oriente compreso. In quel decennio ci fu l'unico vero tentativo di rivolta dei popoli del Turkestan (così si chiamava tutta l'area che oggi è divisa in cinque stati) che mirava a liberarsi dal dominio degli zar prima e da quello dei bolscevichi poi, per creare un grande stato turco di fede islamica moderna. I leader si chiamavano “jadidisti”, ma vennero successivamente definiti “basmachi” dai russi, un termine dispregiativo che equiparava i guerriglieri ai banditi. La rivolta fallì, la Rivoluzione trionfò, e gli uzbeki passarono dalla condizione di sudditi dello zar a quella di cittadini sovietici. Questo significa che dal punto di vista politico questo popolo non ha conosciuto un solo giorno di libertà; dal punto di vista sociale, ci fu un avanzamento mai visto, soprattutto in termini di accesso all'istruzione e alle cure mediche; dal punto di vista economico venne semplicemente perfezionato fino all'esasperazione lo sfruttamento di tipo coloniale già messo in atto dagli zar: l'Uzbekistan doveva produrre cotone, cotone, cotone.
La logica economica degli zar era la stessa già applicata con successo dall'Inghilterra: cercare serbatoi di materie prime per alimentare l'industria nazionale. E l'industria di riferimento, nell'Ottocento, era quella tessile (nel Novecento è quella dell'automobile e la materia prima è il petrolio). L'espansione russa in Uzbekistan coincide con la Guerra di Secessione americana, e con il blocco delle esportazioni di cotone degli stati confederati, quelli schiavisti del sud. L'Asia centrale rappresentava una buona alternativa, e gli zar non se la fecero scappare.
L'Unione Sovietica portò avanti la politica colonialista ereditata dagli zar, ma fece molto di più: costruì dighe e canali, centrali idroelettriche e fattorie di stato. Un sistema gigantesco, imperiale, che distribuiva acqua ed elettricità ad un'area enorme e tendeva ad aumentare la produzione del cotone ad ogni costo (anche per gli usi militari di questo prodotto agricolo). Il risultato finale di questo tipo di sfruttamento è che oggi l'Uzbekistan è il secondo esportatore mondiale di cotone, ma deve gestire un disastro ambientale che non ha paragoni, soprattutto nella regione del lago d'Aral (il Karakalpakstan) e che merita un approfondimento a parte.
“Durante la raccolta del cotone tutto si ferma. Scuole, istituti, uffici pubblici, tutto chiuso per due o tre mesi. (…). Agricoltori, giardinieri, frutticoltori, hanno dovuto tutti cambiare mestiere, trasformandosi in braccianti nelle piantagioni di cotone. (…). Ci vengono a dire che quanto più cotone produciamo, tanto più ricco e felice diventa il paese! Ma la verità è che questa gente paga con la propria salute la tranquillità e la poltrona assicurata ad un pugno di carrieristi corrotti” (G. Reznicenko, “La catastrofe dell'Aral”).
I “carrieristi corrotti” di cui parla Reznicenko formano l'inossidabile nomenklatura comunista, soprattutto durante la lunghissima leadership del segretario del partito Sharaf Rashidov. Nei suoi 23 anni di potere, Rashidov aveva instaurato un articolato sistema di falsificazione dei dati della produzione di cotone, lucrando sul denaro che arrivava da Mosca con la protezione dello stesso Breznev. Lo scandalo emergerà solo dopo la morte di Rashidov (1982), grazie alla politica della glasnost voluta da Gorbaciov. Per la prima volta si comincia a parlare apertamente della catastrofe ambientale che sta prosciugando il lago d'Aral, e per la prima volta compaiono le prime timide rivendicazioni nazionali, ad opera del neonato movimento “Birlik” (“Unità”). Il Birlik raggruppa una parte degli intellettuali del paese (scrittori, giornalisti, scienziati, docenti universitari e semplici insegnanti), cerca di opporsi al partito comunista uzbeko guidato ora da Islam Karimov attraverso la denuncia della corruzione, del problema ambientale, e chiedendo l'introduzione dell'uzbeko come lingua ufficiale. “C'erano troppi leader nel Birlik – sostiene un giornalista uzbeko – tutti vogliosi di arrivare al potere, pronti a dividersi in fazioni”.
Per Karimov è un gioco da ragazzi neutralizzare la debole opposizione nascente. Per quanto il periodo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta sia turbolento in tutta l'URSS ormai prossima al collasso, in Uzbekistan non c'è traccia dei nazionalismi che infiammano altre repubbliche sovietiche, come la Georgia o l'Armenia. Lo stesso governo che ad aprile del 1991 aveva ribadito la volontà di continuare a far parte dell'URSS, ad agosto proclama l'indipendenza dell'Uzbekistan, ovviamente solo dopo che il colpo di stato che aveva deposto Gorbaciov è fallito per merito di Eltsin (Karimov in un primo momento aveva appoggiato la vecchia guardia golpista). Alle elezioni presidenziali di dicembre Karimov batte facilmente il candidato dell'ERK, partito nato da una scissione del Birlik (che nel frattempo è stato bandito, l'ERK subirà la stessa sorte due anni dopo). Fine della storia politica del nuovo Uzbekistan. Per quanto la nuova costituzione preveda tutte le libertà civili e politiche, Karimov controlla con pugno di ferro tutta la stampa e i movimenti di opposizione.
I paesi occidentali sono imbarazzati da questo autocrate contrario ad ogni apertura democratica. Ma Karimov trova rapidamente lo splendido pretesto per legittimare il suo regime: la lotta al fondamentalismo islamico. La bufala mediatica del Duemila. Karimov attua praticamente una “repressione preventiva”, visto che deve aspettare fino al 1997 prima che ci sia un episodio di lotta armata di matrice islamica, nella sperduta Fergana Valley. Ora anche il presidente uzbeko ha il suo Bin Laden, che per la cronaca si chiama Juma Namangani, e la sua Al Qaeda, che qui è il Movimento islamico dell'Uzbekistan. Quando poi, nel febbraio '99, scoppia una serie di bombe a Tashkent (15 morti), la politica di repressione non guarda in faccia a nessuno: di volta in volta vengono accusati tutti gli oppositori vari ed eventuali, dal Birlik all'Erk, dai religiosi islamici agli intellettuali scomodi. Tutti potenziali terroristi.
La legittimazione definitiva arriva dopo l'undici settembre 2001, con l'intervento americano in Afghanistan. Karimov mette a disposizione di Bush la base aerea di Termiz, ed entra nella gloriosa coalizione della lotta al terrorismo, a fianco di un altro sincero democratico, l'ex sbirro del KGB Vladimir Putin. Allo stato attuale, Karimov rischia di battere il record di permanenza al potere del suo predecessore Rashidov. E tutto questo dopo che il paese è passato (si fa per dire) dal comunismo al capitalismo.
In effetti, non sarebbe sorprendente se ci fosse una sollevazione islamica. E' sorprendente che non ci sia. In termini di libertà, gli uzbeki non hanno guadagnato praticamente niente con l'indipendenza. In compenso, hanno perso buona parte della sicurezza sociale che il comunismo garantiva. Lo stato, che è ancora padrone della terra (salvo piccoli appezzamenti concessi alle famiglie degli agricoltori) continua a gestire la produzione del cotone. Paga una miseria ai poveri produttori e incassa i proventi delle esportazioni senza poi investire nel miglioramento della qualità della vita. I salari medi (insegnanti, impiegati, medici ospedalieri) vanno dai 25 ai 40 dollari al mese. Il commercio, la vocazione storica del paese, è in buona parte impedito da una dura politica frontaliera e da un regime protezionista. Tradotto in cifre, tutto questo significa che il 27 per cento dello popolazione vive nella povertà assoluta, cioè non riesce a garantirsi il fabbisogno alimentare in termini di calorie. La stragrande maggioranza della popolazione si limita a sopravvivere, facendo ogni tipo di lavoro, arrangiandosi in qualche modo (in molte zone del paese sono tornati praticamente all'economia del baratto). Chi può emigra, soprattutto in Russia e Kazakhstan. Spesso si tratta di professionisti, laureati che non hanno qui la minima prospettiva, ma negli ultimi tempi gli uzbeki vanno a fare qualsiasi tipo di lavoro, pur di guadagnare il minimo per mantenere la famiglia a casa. Resta forse un venti per cento scarso della popolazione, concentrato nella capitale, che vive con standard occidentali. Nelle zone più disastrate, la mortalità infantile è a livelli da Terzo Mondo, e sono ricomparse malattie come la tubercolosi.
Se si pensa che il paese è autosufficiente per quanto riguarda il petrolio, con ottime riserve di gas naturale, ed è nella top ten dei paesi produttori di oro (la miniera di Murantau, una delle più grandi del mondo, è gestita dal governo uzbeko in joint-venture con un'impresa americana), c'è davvero da meravigliarsi che sia così tranquillo. O forse no. La polizia è onnipresente, ti dà l'impressione di un continuo controllo. La Via della Seta è interrotta da decine di posti di blocco. A volte gli autisti scendono con una banconota da 500 sum (mezzo dollaro) nei documenti, e ripartono tranquilli, come se avessero pagato il casello. Nessuno si lamenta, nessuno si agita. In giro praticamente non si vede un giornale. Le informazioni, spesso completamente contraddittorie, girano di bocca in bocca: è un paese che vive di rumors, voci, come dicono gli stranieri che lavorano qui. In carcere ci sono almeno 6.000 detenuti politici, con condanne che vanno dagli otto ai quindici anni, spesso aggravate dal reato di “violazione dei regolamenti interni”, magari perché si sono ribellati ai maltrattamenti, hanno osato protestare o si sono semplicemente difesi dai detenuti comuni. Il controllo del governo invade ogni settore della vita dei cittadini, dal divieto di manifestazioni religiose all'aperto a quello, grottesco, che recentemente ha vietato il gioco del biliardo.
Il regime è monolitico, non mostra crepe, anche perché investe buona parte delle sue risorse per mantenere se stesso, nonostante l'Uzbekistan abbia un disperato bisogno di riforme, di cambiamenti. In superficie non sembra muoversi assolutamente niente, non traspare la minima tensione.
Ma in privato, seduti sui loro tappeti a bere il tè verde, gli uzbeki esprimono il loro malcontento, la loro critica aperta a Karimov, al governo. Molti sembrano rimpiangere il passato, altri è come se si vergognassero della loro condizione. A Bukhara e Samarcanda si aspetta la buona stagione, che porterà un po' di turisti. Forse in estate l'Uzbekistan perde la sua cappa di tristezza, e ci si può perfino illudere di stare bene. Ma il paese, così com'è, non ha nessuna prospettiva, affonda ogni anno un po' di più, e magari un giorno i fantasmi così a lungo evocati del fondamentalismo potranno attecchire perfino fra questa gente così paziente e rassegnata.
Certo è che la Storia non ha insegnato niente, e sembra ripetersi come una maledizione, da queste parti. Il poeta Omar Kayyam, contemporaneo di Dante, già nove secoli fa aveva smesso di credere ai progressi dell'uomo.
“Con il seme della saggezza ho seminato/ e con la mia stessa mano ho lavorato per farlo crescere. / E questo è tutto il raccolto che ho mietuto:/
“Sono venuto come l'acqua, e come il vento me ne vado”.
Cesare Sangalli