Reportages
Pubblicato su "Galatea" febbraio 2002
Un piccolo paese al tavolo del "Grande Gioco" in Asia centrale
Azerbaigian, l' illusione petroliferaSchiacciato fra la Russia e l'Iran, già in guerra con l'Armenia, ricco di idrocarburi e a maggioranza islamica, l'Azerbaigian dovrebbe essere una polveriera, e invece è un posto tranquillissimo, dove Bin Laden non fa nemmeno notizia. Ma la ricchezza promessa dal capitalismo dei petrolieri è riservata al regime di un vecchio gerarca ex-sovietico, mentre la gente aspetta il futuro radioso del Nuovo Ordine Internazionale
Il vento di guerra che soffia forte in Asia centrale non arriva a Baku, sonnolenta capitale dell'Azerbaigian. Adagiata in cima alla penisola di Abseron, Baku è la sentinella di un mare piatto e malinconico, il Caspio, che non porta notizie dagli altri mondi, ma solo l'immagine all'orizzonte delle piattaforme petrolifere, lontane come una promessa.
Il petrolio. La folle corsa all'oro nero, che ha accompagnato la seconda rivoluzione industriale (1870-1900) e che detta ancora oggi le regole non scritte del "Grande Gioco" geopolitico mondiale, non è iniziata nei deserti dell'Arabia Saudita o del Texas, ma qui, tutt'intorno a Baku. Il primo pozzo petrolifero della storia (1848). La prima raffineria, il primo oleodotto (1878), perfino la prima piattaforma off-shore (1949). Agli inizi del Novecento, l'Azerbaigian produceva da solo la metà di tutto il petrolio del mondo e costituiva il tesoro energetico della Russia zarista. Baku era una città moderna e cosmopolita, dove spiccavano le compagnie petrolifere dei fratelli Nobel (la famiglia dell'inventore della dinamite) e dei Rothschild. Architetti italiani progettavano le lussuose residenze dell'aristocrazia petroliera, le sedi delle banche e i palazzi governativi, regalando un fascino "Belle Epoque" alla città che, nonostante la decadenza, resiste ancora oggi.
Bastano però pochi chilometri per trovarsi in uno scenario spettrale, che evoca i fantasmi di un passato più recente: centinaia di pozzi semiabbandonati, trivelle a bilanciere che continuano a muoversi come per magia, qualche operaio che si materializza all'improvviso in mezzo al fango e alle pozzanghere nere o fluorescenti dei colori psichedelici dell'inquinamento da idrocarburi, grandi tubature arrugginite che portano su spiagge sudicie.
Più a nord, a Sungait, l'archeologia petrolifera si trasforma in incubo da cimitero industriale. Ciminiere, capannoni, rotaie, cavi elettrici, pali della luce, strade asfaltate piene di buche: tonnellate di ferro arrugginito e cemento grigio, chilometri quadrati di squallore senza la minima presenza umana. E' l'eredità dell'industrializzazione sovietica, paralizzata dal suo ottuso gigantismo: un pezzo di produzione in ogni repubblica dell'URSS, tanti compartimenti stagni che funzionavano in modo militare, controllati dal cervello sempre più sclerotico dell'economia centralizzata; spento quello, si è fermato tutto. Cento anni di estrazione petrolifera non sono serviti a niente.
Ma oggi il "Grande Gioco" ("the Great Game": così si chiamava la sfida fra l'impero inglese e quello russo per il controllo dell'Asia centrale) ricomincia. Paesi sconosciuti o dimenticati (l'Azerbaigian, il Kazakistan, il Turkmenistan, l'Uzbekistan e altri) possono diventare il "secondo polo energetico" del mondo, o addirittura il primo, affiancando e scavalcando i paesi arabi, amici-nemici delle superpotenze secondo le convenienze (delle superpotenze). Tre sono i fattori determinanti nel destino di queste nazioni: la presenza dei giacimenti di petrolio (e di gas); la posizione geografica (per la distribuzione dell'oro nero); le alleanze politico-militari. La religione, la "civiltà", le ideologie non contano quasi nulla, nonostante la propaganda del Dipartimento di stato americano, le mille bugie dei media occidentali, e le teorie apocalittiche (e un po' demenziali) del citatissimo Samuel Huntington (quello dello "Scontro di civiltà").
Il Grande Gioco ricomincia proprio durante la presidenza di George Bush senior (1988-1992).Una presidenza trionfale: si inizia con la ritirata dell'Armata rossa (1989) dall'Afghanistan dei mujahiddin finanziati per anni dalla CIA. Uno a zero per gli USA. Si prosegue, dopo il crollo del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda in Europa, con la guerra vittoriosa contro il cattivo di turno, Saddam Hussein, che con l'effimera (leggi: idiota) invasione del Kuwait permette lo stabilimento delle basi militari americane in Arabia Saudita, già alleata di ferro degli USA. Il petrolio degli sceicchi è ora sotto la tutela dell'esercito dello Zio Sam, che si stabilisce a due passi dai luoghi sacri dell'Islam. Due a zero per gli USA, alla faccia dei musulmani che si sentono oppressi.
Si finisce (1991) con la scomparsa dell'URSS, il rivale storico, la conseguente indipendenza delle repubbliche ex sovietiche e la scoperta (o riscoperta, nel caso dell'Azerbaigian) di enormi riserve petrolifere nel Mar Caspio e in Asia centrale. E' l'inizio di un'era che promette pace e prosperità (agli americani), è il famoso Nuovo Ordine Internazionale che dieci anni dopo George Bush junior vuole ridisegnare a sua immagine e somiglianza: un mondo a stelle e strisce, dominato dal capitalismo "made in USA", che ha un bisogno enorme di energia per mantenersi (gli Stati Uniti sono di gran lunga i più grandi consumatori di petrolio nel mondo, e di gran lunga i più grandi inquinatori del pianeta).Come ormai tutti sanno, il governo di Washington è espressione del settore petrolifero, a partire dal clan dei Bush (petrolieri texani): da Condoleezza Rice (Chevron) al vicepresidente Dick Cheney (Halliburton), da Gale Norton (Delta Petroleum) a Donald Evans (Tom Brown), buona parte dell'amministrazione repubblicana in carica si è formata nelle compagnie petrolifere. Come se non bastasse, la Enron, finanziaria del settore energetico, travolta dal fallimento (e dai falsi in bilancio), ha dato i contributi più grandi alla campagna elettorale di Bush figlio.
Non si deve pensare comunque che la politica del governo Clinton (1992-2000) fosse diversa. L'esigenza americana era già chiarissima: diminuire la dipendenza dall'Arabia Saudita e dagli altri stati mediorientali (considerati a rischio), sfruttare i nuovi bacini dell'Asia centrale e riuscire a distribuire il petrolio aggirando il nemico di oggi (l'Iran) e quello di ieri (la Russia). Guardando la mappa, risulta evidente che per raggiungere il Mediterraneo si deve passare dalla Turchia (ecco il progetto dell'oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan), mentre per portare il petrolio nell'Oceano Indiano, ai porti del Pakistan, alleato storico, bisogna attraversare l'Afghanistan. Questo era il progetto concepito dall' Unocal, compagnia americana, che aveva bisogno di un regime stabile e amico a Kabul. Il governo pakistano e la CIA aiutano i Talebani a vincere la guerra civile in Afghanistan (1996), ma il nuovo governo non risulterà molto affidabile.
La Russia, dal canto suo, voleva mantenere la rete già esistente e possibilmente ampliarla a scapito degli altri progetti. Il petrolio dell'Asia centrale doveva passare per Novorossisk, sul Mar Nero o prendere la via dell'Europa attraverso la fedele Ucraina (come è avvenuto fino ad oggi) .
L'Iran, paese esportatore di petrolio e membro dell'OPEC, ovviamente non intendeva essere tagliato fuori, anche perché è la nazione nella miglior posizione strategica (e gli italiani stanno puntando molto sul regime degli ayatollah).
La Turchia, infine, lavorava per estendere la sua influenza economica nelle ex repubbliche sovietiche che sono affini per lingua, cultura o posizione geografica (Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan).
Finché il "Grande Gioco" ha visto la guerra di tutti contro tutti, l'area che va dal Caucaso al Pakistan è stata attraversata da mille conflitti, tutti attribuiti ai fattori etnici o religiosi. Ceceni, abkhazi, armeni, azeri, curdi, uzbeki, tagiki, pashtun: guerriglie sostenute dall'una o l'altra potenza, fazioni politiche o gruppi pseudoreligiosi creati "ad hoc" per indebolire, destabilizzare, minacciare, ricattare i vari governi locali, uno più dittatoriale dell'altro, uno più corrotto dell'altro. Un gioco sporchissimo, che si intreccia ovviamente con il traffico di armi e di droga, e coinvolge mafie e servizi segreti.
"I fatti dell'undici settembre hanno probabilmente accelerato processi che erano già in corso da anni" sostiene Marco Barsotti, ambasciatore italiano presso le Nazioni Unite a Baku. "Prima della guerra in Afghanistan i percorsi del petrolio erano visti in alternativa l'uno all'altro - continua l'ambasciatore - adesso invece c'è la volontà di realizzare tutti gli oleodotti possibili, estendere al massimo la rete in modo da evitare ogni situazione di controllo unilaterale o di monopolio". La torta energetica dell'Asia centrale sembra essere enorme, ad ognuno potrebbe toccare una congrua fetta. Vent'anni di vacche grasse, queste sono le meraviglie promesse dalla "pax americana" , nella versione rivista e corretta del Nuovo Ordine Internazionale. Stabilità politica e petrolio per tutti, con un solo nemico, probabilmente sempre più invisibile: l'integralismo islamico, destinato a soccombere ma non troppo. Perché senza la minaccia del terrorismo, senza il clima di "guerra permanente" con le sue nuove sante alleanze, troppa gente comincerebbe a chiedersi se "un altro mondo è possibile".
Gli scenari cambiano secondo il punto di vista e l'Azerbaigian, nel suo piccolo, può essere un osservatorio perfetto. Mentre in Europa i giornali titolavano ogni giorno a nove colonne su guerre sante, scontri planetari, minacce nucleari e batteriologiche, la vita da queste parti scorreva come se nulla fosse. Troppo impegnati a sbarcare il lunario, gli azerbaigiani sembravano lontani mille miglia dalle feroci polemiche sulla "superiorità della civiltà occidentale" o sulla "natura aggressiva dell'Islam". Osama Bin Laden e il mullah Omar erano praticamente assenti nei notiziari televisivi e nelle conversazioni della gente. Una società musulmana al 90 per cento osservava non troppo rigidamente il Ramadan, concedendosi spesso e volentieri generose bevute di vodka, eredità della dominazione russa. Brava gente, gli azeri: profondamente legati al proprio paese, con un fortissimo senso della famiglia, ospitali come i vicini georgiani, amanti della tavola e della compagnia, certamente non dei fulmini di guerra per quanto riguarda il lavoro. Un po' come gli italiani di molti anni fa. Cristiani in origine (quando gli abitanti di queste terre si chiamavano albani), si sono lasciati convertire all'Islam nel VII secolo, senza mai mostrare il minimo fanatismo. Settant'anni di dominio sovietico hanno ulteriormente indebolito lo zelo religioso: l'Islam è per i più una buona tradizione familiare, proprio come il cattolicesimo in Italia.
La scarsa preoccupazione degli azeri per la "jihad" proclamata dal fantomatico sceicco saudita e propagandata più che altro dai media occidentali è sicuramente molto più vicina alla realtà di quanto non lo siano le paranoie isteriche alla Oriana Fallaci, spacciate per giornalismo. In pochi si sono accorti che, nei mesi successivi al tremendo attacco alle Torri Gemelle, sul fronte terrorismo non è accaduto praticamente niente. Alla fine, l'avvento dell' Euro e altre "sensazionali" notizie hanno preso il sopravvento sul nulla giornalistico nascosto sotto le grida di "allarme di qui", "panico di là", mentre gli unici veri fatti venivano sistematicamente occultati ( e per questo non c'è un bilancio sulle vittime civili in Afghanistan, né sui crimini di guerra dell'Alleanza del Nord, né sulle migliaia di arresti fatti su base etnica negli USA).
Così, la vita continua come sempre, a Baku e dintorni. Il che significa con il 60 per cento della popolazione (circa otto milioni di persone) sotto la soglia di povertà, con un reddito annuo pro capite inferiore ai 500 dollari, con una disoccupazione che supera il 30 per cento, con gli stipendi medi che non raggiungono le centomila lire (o, se preferite, i 50 euro). Non male, per un paese che ufficialmente sta vivendo il suo "secondo boom petrolifero".
Il governo insiste sulle grandi possibilità di sviluppo del paese, contando sul fatto che a partire da quest'anno le entrate per lo stato si dovrebbero fare più consistenti. Gli accordi fra le principali compagnie petrolifere (British Petroleum, Amoco, Unocal, Elf, Total, la russa Lukoil, l'italiana Agip e altre) e la SOCAR, la società di stato dell'Azerbaigian, sono di production sharing: ogni gruppo ha la sua quota di petrolio, secondo gli investimenti iniziali che sono enormi e si ammortizzano normalmente in quattro-cinque anni. Dal 2001-2002 dovrebbe cominciare la ricaduta positiva dei profitti (ma sulla consistenza delle riserve azerbaigiane non c'è più l'ottimismo sfrenato di qualche anno fa). A Baku ci credono un po' tutti, a partire dai dirigenti della State Oil Academy, il Politecnico azerbaigiano, vera fucina di ingegneri, scienziati e manager fin dal 1920.
A livello di macroeconomia, il gioco può anche funzionare: l'Azerbaigian ha i conti in regola (inflazione contenuta, scarso debito estero, buone riserve monetarie). Ma per la gente, che vede di anno in anno le vetrine farsi più lussuose e più ricche, e la vita notturna animarsi di nuovi locali, la situazione non è cambiata di una virgola, e non si vede perché dovrebbe cambiare, dal momento che la situazione politica è più stagnante che mai.
Un uomo solo al comando: Heidar Aliyev, classe 1923, segretario del partito comunista dell'Azerbaigian fin dal 1969, già membro del Politburo, "trombato" da Gorbaciov e dalla perestrojka, riciclato alla grande grazie alle pesanti sconfitte militari nella guerra con l'Armenia e all'incapacità dei suoi avversari (o, se si vuole, alla sua grande abilità di politico - leggi autocrate). L'Azerbaigian, al di là della retorica del socialismo reale, era trattato da Mosca quasi come una colonia: pur vantando da sempre crediti nei confronti della federazione, che succhiava tutto il suo petrolio, aveva uno dei più bassi redditi procapite dell'URSS.
La fiammata nazionalista guidata da Abulfaz Elchibey e dal suo Fronte popolare per l'Azerbaigian, dopo l'indipendenza del 1991, venne soffocata dalla gravissima crisi economica provocata dal collasso dell'Unione Sovietica ma soprattutto dalla sciagurata guerra contro l'Armenia.
Il conflitto azero-armeno era sostanzialmente legato alla regione del Nagorno-Karabakh. E' la più fertile e bella zona dell'Azerbaigian, e gli armeni vi arrivarono a ondate successive di coloni già nell'Ottocento, spinti dallo zar di Mosca che non vedeva di buon occhio una presenza musulmana nel suo impero (gli armeni sono cristiani ortodossi). Nonostante anni e anni di convivenza pacifica, a ogni scontro delle potenze regionali (che sono da sempre Russia, Turchia e Iran), le povere popolazioni caucasiche si ritrovavano in lotta fra loro, strumenti di una politica che non riuscivano mai a guidare. Così, durante la Prima guerra mondiale, gli armeni si ritrovarono a fianco delle truppe zariste, gli azeri invece alleati dei "cugini" turchi dell'Impero Ottomano schierato con Germania e Austria contro Francia, Italia, Inghilterra e Russia. Le violenze, come in tutte le guerre, non risparmiarono nessuno, ma gli armeni vennero deportati in massa e fatti morire di stenti e violenze ad opera dei turchi in quello che è considerato il primo genocidio della storia contemporanea (1915-1918). L'effimero riscatto per gli armeni (e per un altro popolo di perseguitati, i curdi) fu sancito dal trattato di Sèvres (1920), che doveva spartire le spoglie del defunto e sconfitto Impero Ottomano: vennero creati, a scapito della Turchia, una Repubblica armena indipendente e una repubblica del Kurdistan (l'Azerbaigian era già diventato indipendente nel 1918, come la vicina Georgia). Ma azeri, curdi, armeni e georgiani vennero sopraffatti dalla forza spaventosa della nuova Turchia di Kemal Ataturk e della nascente nazione sovietica di Lenin e Stalin. La regione transcaucasica venne spartita d'amore e d'accordo fra i due regimi, che avevano diverse affinità ideologiche (spazzare il vecchio sistema di natura feudale e religiosa nei due ex imperi, quello ottomano e quello zarista) e un nemico comune, l'Inghilterra che stava mettendo le mani sul Medio Oriente e sull'Iran (furono gli inglesi ad inventarsi come Scià di Persia il padre di Reza Pahlavi).
Quindi la questione del Nagorno-Karabakh venne regolata d'imperio da Stalin, che in un primo momento favorì l'Azerbaigian, ma poi riequilibrò la questione attraverso il complicato sistema di repubbliche autonome e regioni autonome, secondo l'antichissima prassi del divide et impera.
Nessuno sa con esattezza come e perché scoppiarono i primi conflitti a sfondo etnico in Nagorno-Karabakh nel 1988. Le uniche certezze sono che Gorbaciov tentò invano di regolare la questione con il pugno di ferro e che, dopo tre anni di guerra aperta, gli armeni hanno stravinto. Quasi un milione di azeri hanno lasciato la regione, circa 200mila armeni hanno lasciato l'Azerbaigian per paura di rappresaglie (ma un buon numero di armeni vive ancora qui). Nel 1994 è stato firmato un cessate-il-fuoco, e da allora la situazione è statica, mentre gli "sfollati" continuano a vivere in condizioni pietose.
La sconfitta militare travolse il presidente Elchibey, eletto democraticamente nel 1992, e vide il ritorno sulla scena politica del vecchio volpone Aliyev (1993). Proprio come il collega Shevardnadze in Georgia, Aliyev si sbarazza in poco tempo di tutti i rivali pericolosi, via via accusati di ordire colpi di stato e arrestati, esiliati, uccisi o condannati a morte (spesso dopo che erano stati chiamati al governo). Organizza elezioni truffaldine nel '93 e nel '98, viene eletto trionfalmente, mentre il suo partito, che si chiama Nuovo Azerbaigian, stravince allo stesso modo le elezioni politiche e domina in parlamento. La nuova Costituzione (1995) disegna un regime presidenziale ad uso e consumo di Aliyev, che ha potere di nomina su quasi tutti i giudici (la sottomissione della magistratura è l'aspetto più vergognoso del regime), nonché su sei dei dodici membri della Commissione elettorale. A capo della SOCAR, che gestisce il petrolio nazionale, piazza direttamente suo figlio, con assoluta naturalezza.
Non a caso, per descrivere i "nuovi" regimi dell'asia centrale (Aliyev in Azerbaigian, Nazarbayev in Kazakistan, Karimov in Uzbekistan, Nyazov, il più grottesco, in Turkmenistan), tutti formalmente presidenti della repubblica eletti a suffragio universale, gli analisti Linz e Chelabi hanno ripristinato la definizione di "sultanismo" dovuta a Max Weber: "una estrema forma di patrimonialismo", nella quale "il governo e la forza militare sono semplicemente strumenti del sultano (master)". Non è lecito illudersi con la categoria di "transizione" usata continuamente per descrivere le nazioni uscite dalla fine del comunismo, come se si dovesse solo aspettare la naturale conclusione di un processo che, inevitabilmente, porta alla democrazia e allo sviluppo in un contesto di libero mercato.
I prodotti dei paesi occidentali sono arrivati subito nei paesi ex comunisti, mentre il rispetto dei diritti umani e politici, come al solito, è stato considerato un optional. L'economia ha ucciso la politica, nei paesi liberi, e risultati si vedono.
Con questi criteri, non ci potrà essere vero sviluppo per la gente, anche quando questa gente è seduta sopra un mare di petrolio. Anzi..Come ha scritto Ryszard Kapuscinski nel suo libro sull'Iran "Shah-in-shah", "il petrolio crea l'illusione di un'esistenza completamente diversa, offre il miraggio di una vita facile e senza fatica.E' un veleno che contagia la mente, annebbia la vista, corrompe i cuori. (......)
Il petrolio produce grossi profitti, ma dà lavoro a poca gente. Il petrolio non crea né un proletariato numeroso, né una numerosa borghesia, per cui il governo, non essendo obbligato a dividere i profitti, può disporne a suo completo piacimento. (...) Il petrolio è una favola e, come ogni favola, menzognero".
Cesare Sangalli